Quello recente della Cassazione sull’alienazione parentale è l’ennesimo pronunciamento da analizzare nei dettagli. L’ordinanza 13217 depositata il 17 maggio ha sollevato un coro di giubilo e applausi mediatici guidati dalla sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra, che commenta con soddisfazione «L’ordinanza è una buona notizia per madri, bambini e per tutti coloro che credono nel giusto processo e in un sistema giuridico rispettoso dei diritti fondamentali». Il Messaggero titola: “La Sindrome di Alienazione Parentale non esiste, la Cassazione blocca la deriva di tanti tribunali”, sintetizzando l’equivoco di fondo sul quale viene costruito e alimentato, ormai da anni, il bizzarro teorema della junk science legata alle teorie di Richard Alan Gardner. Costui ha identificato negli anni ‘80 la PAS ma è stato accusato di voler proteggere i padri violenti e pedofili, poi sono stati insinuati dubbi sulla sua formazione accademica, infine si sottolinea che è morto suicida come segnale che fosse uno squilibrato. In sostanza l’alienazione non esiste poiché Gardner era un cialtrone, o un protettore dei violenti, o al servizio delle lobby pedofile, o un intreccio di tutto.
Inoltre la PAS non è mai stata inclusa nei DSM IV e V, quindi la PAS non esiste. Questione ampiamente superata dal mondo accademico nazionale ed internazionale: l’acronimo PAS è inappropriato, il comportamento ostativo di un genitore nei confronti dell’altro non può essere classificato come sindrome intesa quale disturbo sintomatico. L’alienazione parentale non è una sindrome ma una condotta disfunzionale e dannosa per i figli. La soluzione è dunque giuridica e non medica, questione ormai abbondantemente chiarita dalla SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) e non solo. Ad accanirsi sul fatto che la PAS non esista sono ormai rimasti solo gli accaniti, aggressivi e arrabbiatissimi componenti del fronte “no-PAS”, che usano “pasisti” come un insulto per definire chiunque studi le sfumature del condizionamento dei minori, pur senza volerlo minimamente classificare come disturbo psichiatrico. Un disco rotto: è stato detto e scritto più volte che la PAS non esiste, ma il fronte no-PAS continua imperterrito nel loop di protesta: “la PAS non esiste”.
L’ossessione anti-PAS anche in assenza di PAS.
Il comportamento di un genitore pregiudizievole per i figli è assimilabile ad una forma di maltrattamento attraverso la negazione del diritto alla bigenitorialità. Le dinamiche ostative per amputare o limitare al figlio le relazioni col ramo parentale del genitore da escludere sono estremamente frequenti e possono manifestarsi col condizionamento, le pressioni psicologiche, la manipolazione, l’induzione alla fusionalità col genitore manipolante. Nulla di tutto ciò è una sindrome. Non si tratta di una patologia psichiatrica, infatti in termini tecnici l’alienazione parentale non è un “disturbo” ma un problema relazionale. Quindi il comportamento disfunzionale esiste al di la del nome che si voglia usare per definirlo, e si tratta di un «grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico ed affettivo del minore». La frase è virgolettata perché è estratta testualmente dalla risposta del ministro della Sanità (2020) ad una interrogazione sull’esistenza della PAS a firma della Senatrice Valente. La risposta del Ministro prosegue: «Gli studiosi che hanno approfondito tali tematiche hanno introdotto correttivi e spunti di riflessione, anche critici, sia preoccupandosi di individuare i criteri per una diagnosi differenziale, sia inserendo tale problematica nel “continuum” di relazioni che si instaurano tra ciascun genitore e figlio, prima e dopo la separazione, di cui l’alienazione può essere l’esito finale di processi relazionali sempre più negativi, sia chiedendosi se effettivamente sia legittimo parlare di sindrome». Riconosciuta quindi la validità del lavoro pluriennale di approfondimento svolto da Gulotta, Camerini, Pingitore, Mirabelli e tanti altri.
Ma ciò che importa al fronte no-PAS è continuare ossessivamente a sostenere che la PAS non esiste, come se il mondo accademico, politico e giudiziario fossero arroccati in difesa delle teorie di Gardner. Non è così ormai da anni, ma “la PAS non esiste” è un mantra dal quale certa gente non riesce proprio ad affrancarsi. Tuttavia l’ordinanza 13217 merita un’analisi critica nella misura in cui lascia trasparire un evidente condizionamento ideologico, scaturito da pregiudizi privi di fondamento logico prima ancora che scientifico, ne’ tantomeno giuridico. Nella vicenda intervengono due successive Consulenze Tecniche e la Corte d’Appello di Venezia rileva una grave incapacità genitoriale della madre. Alcuni stralci: «in particolare sulla base dei colloqui clinici e dell’osservazione dei comportamenti della reclamante, risultava una scarsa flessibilità della madre di accettare il ripristino delle relazioni tra padre e figlia, emergendo la sua volontà di mantenere la figlia con sé escludendo il padre in contrasto con quanto concordato e suggerito durante la consulenza; (…) la rappresentazione di versioni non veritiere da parte della reclamante e la ferma resistenza della stessa a modificare le proprie convinzioni (…); una dinamica relazionale fondata su elevata tensione anche in presenza della minore; l’influenza della famiglia materna sulla reclamante con prospettive dannose e rischiose (…) la successiva CTU aveva confermato quanto indicato dalla prima a fronte del comportamento della madre da cui era sorto il rischio di alienazione della minore rispetto al padre, rilevando altresì che la madre sembrava affetta dalla cd. Sindrome della madre malevola, emergendo anche psicopatologie accertabili: al riguardo il secondo CTU aveva rilevato che la madre (…) esercitava nei confronti dell’ex partner una condotta tendente a impedirgli un normale e affettuoso rapporto con la minore, mirando ad estraniarlo da ogni scelta che la riguardasse (…) bambina fortemente segnata da scellerati comportamenti della madre e della nonna materna (…)la reclamante aveva indotto due pediatri a non seguire più la minore a seguito della richiesta di certificati fasulli finalizzati ad impedire l’accesso al padre (…) le frequenti assenze scolastiche della minore erano imputabili alla reclamante la quale aveva agito al fine di evitare il prelevamento paterno della figlia (…) le conclusioni dei CTU erano condivisibili in quanto fondate su risultanze cliniche, oggetto di specifico accertamento di fatto (…) la reale situazione comprovava un comportamento materno improntato a gravi carenze della genitorialità con volontà della madre di estraniare la minore dal padre».
La PAS non è e non può essere una patologia.
La Cassazione accoglie i quattro motivi del ricorso materno, accorpandoli in un’unica risposta che argomenta nel rinviare ad altra sezione di Corte d’Appello. La Corte d’Appello di Venezia ha recepito le conclusioni dei CTU, che però gli ermellini dicono di non condividere poiché non credono che la condotta materna sarebbe stata finalizzata ad allontanare la figlia dal padre. Il riconoscimento della figlia viene autorizzato dal tribunale, evidentemente la madre si era opposta, tuttavia è solo una deduzione perché non siamo in possesso degli atti precedenti al pronunciamento della Cassazione. Per il resto la madre ha “solamente” rifiutato il ripristino delle relazioni padre-figlia, ha prodotto certificati falsi, ha esercitato nei confronti del padre una condotta tendente a impedirgli un normale rapporto con la minore, ha manifestato la volontà di mantenere la figlia con sé escludendo il padre e contravvenendo a quanto concordato in consulenza, ha escluso il padre da ogni scelta che riguardasse la bambina, ha fatto saltare sia incontri col padre che giorni di scuola per evitare che il padre la prelevasse… che vuoi che sia… mica è detto che la reclamante volesse allontanare la figlia dal padre. Inizialmente sembrerebbe che la Cassazione riconosca la necessità di valutare i comportamenti «a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia», ma l’errore emerge immediatamente nel momento in cui definisce patologia la PAS, che peraltro non è mai citata. L’orientamento prevalente è quello di considerare tra i requisiti dell’idoneità genitoriale la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e ad una crescita equilibrata e serena, tuttavia la costruzione di ostacoli alla relazione padre-figlia non è una patologia come la definiscono il Presidente Genovese ed i Consiglieri Iofrida, Lamorgese, Caiazzo (relatore) e Scalia. Questo bug iniziale condiziona ogni valutazione successiva. La Cassazione infatti dimostra di vedere la PAS anche dove non c’è, per poterla contestare persino quando non viene citata:
Ecco che viene rafforzato il malinteso, o meglio, non è chiaro dove sia il confine tra un genuino misunderstanding e una mistificazione dolosa: l’alienazione non è una patologia quindi non può essere diagnosticata, parlare di diagnosi è un errore grave. Le parole hanno un peso nello slatentizzare il pregiudizio che inquina la lettura degli ermellini. Quindi è un “come se…”. Secondo la Cassazione i CTU non parlano mai di PAS ma è come se lo facessero. Tutto va ricondotto alla PAS per poterla contestare in quanto scienza-spazzatura: chiunque affronti l’argomento degli ostacoli alle frequentazioni con i figli sta in realtà parlando di PAS, chi la definisce alienazione parentale o alienazione e basta, o fattore di rischio evolutivo per il minore, o più semplicemente comportamento ostativo di un genitore ai danni dell’altro, sta solo nascondendo il riciclaggio delle teorie di Gardner. Ulteriore confusione viene fatta col riferimento alla mancata verifica scientifica della teoria posta a base della diagnosi di “sindrome della madre malevola”. Si tratta di una teoria diversa dalla PAS, sviluppata da Daniel Ira Turkat e riferibile a una moglie che si accanisce contro il marito dal quale è divorziata o sta divorziando (negli Stati Uniti la separazione non esiste). Potrebbe essere agita più raramente anche dal padre, infatti l’autore in un successivo articolo ha ampliato il concetto ridefinendo il fenomeno come Sindrome del Genitore Malevolo. Pur rimanendo esente da psicopatologie accertabili e mantenendo coi figli – almeno in apparenza – un rapporto di accudimento, la malicious mother esercita nei confronti dell’ex marito un comportamento lesivo, teso soprattutto a impedirgli un normale rapporto con i figli. L’alterazione della condotta può comprendere un acting out aggressivo anche, ma non solo, giudiziario. Teoria diversa dalla PAS e al pari della PAS non riconosciuta nelle successive versioni del DSM. Non è una patologia, non può e non deve essere diagnosticata come tale. Poi la chicca: la ricorrente lamenta che
«L’ordinanza è una buona notizia per madri e bambini».
Splendido. Non è interesse del minore mantenere rapporti con entrambi i genitori, se uno dei due considera la figlia una proprietà esclusiva e si comporta di conseguenza escludendo l’altro, nessuno può intervenire altrimenti la bambina proverebbe dolore. Quindi l’ipotesi di pregiudizio dovuta al distacco dalla madre è prevalente rispetto al pregiudizio già concretizzatosi nel distacco dal padre. Inoltre va considerato che la separazione dalla madre non è una forma di sanzione per la madre stessa bensì una misura di protezione della minore, che deve essere tutelata allontanandola, preservandola, “salvandola” dal contesto pregiudizievole. Si noti: l’affidamento al padre viene curiosamente interpretato come sinonimo di “mamma non la vedrai mai più”. È falso: una modalità di frequentazione può essere stabilita sia in forma protetta che libera ma il collocamento presso il padre è l’unica garanzia di poter conservare, a beneficio della figlia, una sana relazione anche col genitore attualmente emarginato. Qualsiasi separazione prevede – nonostante la riforma del 2006 – un genitore collocatario e frequentazioni più o meno ampie dei figli con l’altro, prassi generalizzata ma nessun consigliere di Cassazione grida allo scandalo, a patto che il genitore collocatario sia la madre. Quando invece è il padre si deve parlare di dolore da forzata separazione. Appare oggettivamente un pregiudizio sessista, una deriva adultocentrica che nulla ha a che fare con i diritti dell’infanzia; somiglia più ad un favore per l’Ego materno che non ad una reale e concreta attenzione ai diritti della prole.
Una restaurazione della maternal preference, principio caro alla Cassazione da diversi anni (18087 del 14/09/2016). Anche in presenza di condotte materne pregiudizievoli, infatti, la Cassazione afferma che si dovrebbero prendere in considerazione provvedimenti diversi rispetto al collocamento presso il padre. Il motivo è sempre lo stesso: i comportamenti materni non vengono riconosciuti come oggettivamente ostativi ma sono stigmatizzati solo in quanto osservati attraverso la lente della PAS, “un mero postulato”. Ricordiamo il commento soddisfatto di Maria Cecilia Guerra: «L’ordinanza è una buona notizia per madri e bambini». Emarginare il padre fino ad escluderlo, privando quindi la minore dell’apporto di entrambe le figure genitoriali nel proprio percorso di crescita, non è detto che costituisca un danno. «L’ordinanza è una buona notizia per madri e bambini». Secondo Piazza Cavour la Corte d’Appello di Venezia ha omesso di specificare quali sarebbero i pregiudizi per lo sviluppo psico-fisico della minore; se non lo ha specificato vuol dire che non vi sono ripercussioni negative. «L’ordinanza è una buona notizia per madri e bambini». Non è meraviglioso? Chapeau: l’importante è prendere la decisione di favorire il genitore alienante, poi i motivi si trovano.
Oggi parlare di “alienazione” significa entrare in un terreno minato.
Diversi altri passaggi dell’ordinanza sarebbero meritevoli di contestazioni, l’intero pronunciamento è intriso di pregiudizi atavici. Tornando però al nodo centrale dell’alienazione parentale, abbiamo ritenuto indispensabile ascoltare un parere decisamente più autorevole di chi scrive.
Abbiamo quindi contattato il Prof. Giovanni Battista Camerini, co-estensore per la SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) della ormai nota posizione dei neuropsichiatri in merito ai comportamenti devianti dei genitori, assolutamente da non classificare come sindromi. Possiamo sintetizzare in tre punti il colloquio col professore. Da un primo punto di vista, valuta “adultocentrico” il pronunciamento della Cassazione nella misura in cui non mette al centro i diritti della minore, ma si focalizza sulle problematiche dei genitori, in particolare del genitore col quale la bambina convive, proponendo di «intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della ricorrente, nell’ambito di un equilibrato rapporto con l’ex partner». Non si comprendono le modalità operative, le finalità, i tempi e gli strumenti attraverso i quali avverrebbe il “recupero” in questione.
In secondo luogo, è in gioco il rispetto di diritti costituzionalmente garantiti, ma il vulnus è nella fase attuativa dei provvedimenti giudiziari. Il tribunale stabilisce delle regole per la custodia e la frequentazione della prole, ma poi tali regole vengono violate. Quando questo accade, invece di prevedere sanzioni certe e rapide per il genitore inottemperante, il tribunale delega agenzie terze per supervisionare il rispetto dei provvedimenti e attivare “percorsi” atti a correggere i comportamenti disfunzionali. Si tratta di una perdita di tempo, il compito del tribunale è quello di sanzionare chi viola il dispositivo giuridico e non quello di suggerire un sostegno psicologico a chi sbaglia per fargli capire che sbaglia. In terzo luogo, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non esiste alcuna “spaccatura” nel mondo accademico sull’alienazione, in quanto gli studiosi della materia concordano sull’esistenza del fenomeno, definibile come tale e non come una malattia: un figlio può subire pressioni dirette o indirette tendenti a fargli rifiutare uno dei genitori in assenza di condotte commissive o omissive che giustifichino il rifiuto. «Un fenomeno vecchio come il mondo», lo definisce Camerini. Negare che esista è sintomo di malafede o di scarsa conoscenza di una materia che molti, anche a sproposito, pretendono di trattare da esperti. Si tratta di un problema relazionale che può comportare gravi danni per il processo di crescita psicoemotiva della prole, ma non può e non deve essere classificato come “disturbo” o come “sindrome” anche se oggi solo parlare di “alienazione” è divenuto un terreno minato in considerazione delle valenze negative che al termine sono state attribuite.
L’impegno per un’analisi approfondita.
Nel caso che ci occupa la madre ha indubbiamente messo in atto ripetuti comportamenti volti ad escludere i contatti tra il padre e la figlia. È nota la posizione critica del prof. Camerini, peraltro ampiamente condivisa da chi scrive, sulla consuetudine di prescrivere ai genitori “percorsi” di educazione alla genitorialità, di sostegno psicologico, di mediazione o altro. Detti percorsi non possono essere imposti né suggeriti, ove il suggerimento ha un sapore coercitivo. Essi si possono svolgere solo in sede stragiudiziale e sotto l’egida del consenso informato. Si tratta in sostanza di quelli che la CEDU definisce «provvedimenti stereotipati e automatici». C’è in cantiere da tempo il progetto di raccogliere un dossier sulla reale efficacia di tali percorsi, verificando in quanti e quali casi si siano rivelati risolutivi. La CEDU ha condannato più volte l’Italia per la violazione della Convenzione Europea sui Diritti Umani (art. 8, mancato rispetto delle relazioni familiari) ma siamo nell’ordine delle decine di condanne, mentre per un’analisi più approfondita servirebbe un campione nell’ordine delle migliaia. È un impegno che come gruppo di ricerca multidisciplinare ci sentiamo di prendere.