Nota: gli interventi precedenti possono essere ritrovati a questo link.
“Il fantino sta attraversando il deserto a tutta velocità”. Cosa avete capito? Da questo enunciato la maggior parte delle persone immagina un soggetto sopra un cavallo, eppure potrebbe essere una persona a piedi che di mestiere fa il fantino. Non tutto quello che viene espresso è espresso in forma esplicita; alcune informazioni vengono dedotte dal contesto complessivo del messaggio e a volte il messaggio genera confusione. Se affermo “è necessario che parli”, il messaggio è ambiguo, può intendersi in modo differente “è necessario che io parli, oppure che tu parli, oppure che lui parli”. Il linguaggio è un sistema di comunicazione imperfetto, frutto di un’evoluzione arbitraria e irrazionale, creato dalle persone mediante il suo uso quotidiano. L’informazione che passa tra l’emittente e il destinatario, codificata in modo simbolico, non è sempre precisa né chiara, e questo capita in ogni lingua. Dagli albori del femminismo, il linguaggio è stato accusato di essere l’ennesimo strumento patriarcale a danno delle donne. Tutte le lingue del mondo sono sessiste (nell’opera La grande menzogna del femminismo, si trova un capitolo di approfondimento su questa tematica, Il sessismo del linguaggio, pagg. 61-94, con numerosi esempi e controesempi). Uno dei principali addebiti è stato quello dell’invisibilizzazione delle donne. Il linguaggio non era inclusivo. Quando si afferma “l’avvocato è arrivato”, la maggior parte delle persone immagina un soggetto di sesso maschile. In questo caso il femminismo ha attribuito una volontà sessista al linguaggio – ha assegnato al patriarcato una responsabilità morale –, in base a una comunicazione imperfetta che può generare fraintendimento. Curiosamente la summenzionata frase, “è necessario che parli”, che genera parimenti fraintendimento nella comunicazione, non è ritenuto il frutto di una volontà consapevole, ma frutto di un’evoluzione fortuita e arbitraria senza alcuna responsabilità morale.
Il linguaggio è uno strumento imperfetto, per questo motivo a volte la comunicazione è compromessa. Tutte le categorie grammaticali presentano delle irregolarità (sostantivi, aggettivi o verbi difettivi nella loro declinazione o coniugazione), solo una piccola parte di queste colpiscono la comprensione e il rapporto tra i sessi. Attribuire a queste poche irregolarità e fraintendimenti, quando colpiscono l’universo femminile, una volontà consapevole (del Patriarcato) e non attribuire la stessa volontà a queste irregolarità e fraintendimenti, quando colpiscono l’universo maschile, numerosi tanto quanto i primi (rimando alla lettura della summenzionata opera La grande menzogna del femminismo), né attribuirla a tutte le altre irregolarità e fraintendimenti che non riguardano i sessi, molto più numerosi, è un atto di ipocrisia e di disonestà intellettuale che ha difficile giustificazione. Il concetto del linguaggio inclusivo si basa su un’idea che è falsa, e su due errori generali. Secondo i fautori di questo concetto la modifica del linguaggio contribuisce a migliorare la posizione delle donne nella società. Ammesso e non concesso che le donne debbano migliorare la posizione nella società più di quanto non debbano fare gli uomini, l’idea che questo miglioramento possa avvenire tramite la modifica del linguaggio è falsa e non esiste alcun riscontro obiettivo che la sostenga. Inoltre, è un errore credere che il linguaggio sia inclusivo o esclusivo, il linguaggio è descrittivo. Sarebbe ridicolo accusare il linguaggio di essere esclusivo quando ci esprimiamo con un “vediamo un attimo”, perché esclude i non vedenti, “ascoltate”, perché esclude i sordi, o “bisogna lasciar correre”, perché esclude gli zoppi. O quando diamo del “Lei”, perché esclude gli uomini.
Inclusivi ma ridondanti.
È un errore ritenere che esista una connessione stabile tra il genere grammaticale e il sesso. Le desinenze in italiano -a e -o, al singolare, ed -e e -i, al plurale, sono attribuite arbitrariamente. Non esiste alcuna spiegazione razionale al fatto che papà e babbo finiscano rispettivamente in -a e -o, pur dicendo la stessa cosa e riferiti entrambi i termini a un individuo di sesso maschile. Quando menziono “la giraffa” stiamo includendo anche il maschio della specie, e quando menziono “il corvo” stiamo includendo anche la femmina della specie. Il genere grammaticale è un modo simbolico di distribuire i sostantivi in recipienti diversi, ma è assolutamente sbagliato far corrispondere a ognuno di questi recipienti un sesso degli esseri viventi. Se questa corrispondenza esistesse veramente sarebbe assurdo dire espressioni del tipo “la figur-a della squadra, la vittim-a del furto, la person-a amat-a” riferite a un uomo, e quelle di “un esempi-o da seguire, un modell-o di saggezza, un geni-o dotat-o”, riferite a una donna. Quando parlo di una coppi-a, parlo di un pai-o di persone senza specificare il sesso, e questo equivale sia che dica entramb-i (che non allude necessariamente a due persone di sesso maschile) sia che dica ambedu-e (che non allude necessariamente a due persone di sesso femminile). Sostenere ad esempio, come ha fatto il femminismo, che il termine “entrambi” è sessista – senza nulla dire tra l’altro sul termine “ambedue” – è una stupidaggine assoluta. È assurdo anteporre la forma – arbitraria – delle parole sul contenuto, come fa il femminismo. L’arbitrarietà emerge non solo in italiano, e in qualsiasi altra lingua, con numerosi esempi, ma anche confrontando lingue diverse. Quale logica sta nel fatto che Rosari-o in spagnolo è un nome proprio di persona femminile e in italiano Rosari-o è un nome proprio di persona maschile?
“Lettori e lettrici”, “tutti e tutte”, “ragazzi e ragazze”, “lavoratori e lavoratrici”, sempre di più si impongono espressioni simili nei media e nelle istituzioni, in nome del linguaggio inclusivo, che ignorano l’economia del linguaggio, le cacofonie e la ridondanza. In questi ultimi anni il dibattito politico è stato molto acceso in ogni paese, pian piano vengono introdotte nuove modifiche sul linguaggio, malgrado l’opinione pubblica sia in prevalenza contraria (in Germania il 71% dei cittadini è contrario). Di sicuro la formula che nomina entrambi i generi è la più riconoscibile della rivoluzione femminista del linguaggio. Quello che le femministe non sanno, e non gradiranno, è che i primi fautori del linguaggio inclusivo furono i nazisti. Hitler e i suoi accoliti adoravano questa formula e furono i primi ad adoperarla diffusamente. Ecco alcuni esempi. Discorso di Rudolf Hess, 25 febbraio 1934, giuramento ad Adolf Hitler: «Uomini e donne tedesche, ragazzi e ragazze tedesche». Discorso di Joseph Goebbels contro la “cultura degenerata”, 1933, recitato durante il rogo di libri: «Studenti, uomini e donne tedesche, l’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine». Ecco alcuni discorsi di Hitler. Discorso nel Palasport di Berlino, 10 febbraio 1933: «Compatrioti, uomini e donne tedesche». Discorso nel Parlamento tedesco, 23 marzo 1933: «Uomini e donne del Parlamento tedesco». Discorso dedicato a Richard Wagner, 6 marzo 1934: «Signora Wagner, signor sindaco, uomini e donne tedesche». Discorso ai lavoratori dell’edilizia a Berchtesgaden, 20 maggio 1937: «Cari compatrioti, uomini e donne». Discorso, 31 dicembre 1938: «uomini e donne nazionalsocialisti». Discorso allo Sportpalast di Berlino, 30 gennaio 1941: «Compatrioti, uomini e donne tedesche!». E così via.
L’inclusività del nazismo
Quindi il promotore del discorso inclusivo fu Hitler, che mise di moda la formula “tedeschi e tedesche”. Hitler era un adulatore servile delle donne, l’apice fu raggiunto nel discorso nel Parlamento, il 13 luglio 1934: «Un giornalista straniero che risiede qui come ospite ha sollevato la sua protesta a nome delle mogli e dei figli degli uomini fucilati. A quest’uomo posso solo dare una risposta: “Le donne e i bambini sono sempre le vittime innocenti degli atti criminali degli uomini». Se questo non è femminismo… Evidentemente a Hitler conveniva trattare bene le donne, poiché il nazismo era arrivato al potere in Germania grazie principalmente al voto femminile, un’altra verità storica non conosciuta né gradita. Il concetto di linguaggio inclusivo promosso dal femminismo è stato adottato dal genderismo e, come è successo in altri casi, allargato. In inglese è diventata una moda creare pronomi inclusivi nuovi di zecca, gender pronouns. Non solo in inglese, anche in francese, pronome inclusivo “iel”, e in altre lingue. A volte imposto per legge, come succede in Canada. In Irlanda «un insegnante finisce in carcere per essersi rifiutato di usare il pronome “elle“». Oppure l’uso di forme inclusive grafiche completamente illeggibili. Ad esempio, la parola lettori, in tedesco “leser”, può apparire in questi modi: leser*innen, leser_innen o leser:innen. L’asterisco, il trattino sotto e i due punti stanno a indicare la declinazione femminile della parola. Un altro esempio in tedesco: Bürger*innen, che sarebbe cittadinǝ; in spagnolo, ciudadanxs oppure ciudadan@s. Per favore, non chiedetemi come si pronunciano. In Italia, bisogna ringraziare principalmente Michela Murgia per aver tenuto sulle prime pagine dei media l’importante dibattito sulla «schwa».
Non credo che sia necessario approfondire ulteriormente un discorso, continuamente in progress e che sinceramente supera la mia comprensione. E penso che superi la comprensione anche delle femministe classiche. Le femministe hanno voluto manipolare il linguaggio, hanno deciso chi è e chi non è maschilista, cos’è e cosa non è il maschilismo, hanno sancito che l’uomo che non è d’accordo con loro è misogino e che la donna che non è d’accordo con loro è una misogina interiorizzata, hanno decretato che il padre è una figura storica estinta e hanno fatto diventare i diritti riproduttivi maschili un ossimoro. Hanno parlato di genere, costruzione artificiale, e la realtà è diventata una costruzione patriarcale. Il genderismo non ha fatto altro che estendere i concetti. Se il sistema binario è in base 2, il sistema non binario è in base X, cioè qualsiasi base, cioè senza base, cioè tutto è possibile. Il sesso è diventato una categoria di libera scelta in un momento indefinito della vita; la donna, un uomo che si definisce femmina; l’uomo, una donna che si definisce maschio; la mamma, il partner dell’altra mamma; il figlio, un prodotto a costo variabile che può essere auto-generato o comprato da un servizio surrogato. E così all’infinito. Il linguaggio inclusivo ha riassunto meglio di qualsiasi altro l’evoluzione avvenuta dal femminismo al genderismo, fotografata iconicamente dal salto che c’è stato da “tutti e tutte” a “tutt@ e tutt@”.