«Che uomini e donne esistano in termini essenzialisti e biologici giova solo all’eteropatriarcato», denuncia Beatriz Suárez, cattedratica di Letteratura e di Studi di Genere all’Università di Vigo (Spagna). Ecco il concetto di patriarcato esteso. Se il femminismo aveva adottato il termine partriarcato dall’ambito storiografico, storpiando il suo significato per farlo diventare una riprovazione di tutto l’universo maschile, ecco arrivare l’ideologia di genere che prende in prestito dalle scienze biologiche il termine etero (eterosessuale) per fornirgli una connotazione negativa e farlo diventare un rimprovero, unito al termine di patriarcato: eteropatriarcato. L’ideologia di genere è stata il cavallo di Troia del femminismo per imporre al mondo la propria agenda e, fate attenzione alle parole, “trasformare la realtà”. Su questo punto è stata molto chiara la femminista Alicia Miyares, che durante una conferenza ha spiegato lo stretto rapporto tra femminismo e l’ideologia di genere: «ad un certo punto abbiamo accettato che genere si adoperasse come sinonimo di femminismo perché in termini pragmatici il femminismo, in quanto teoria politica, ha percepito rapidamente che negli anni ’90 era più facile infiltrare politiche femministe nei paesi latinoamericani e nelle strutture spagnole che esprimersi come scuola femminista. Sapevamo che facendo finta sotto la scritta di scuola di genere, teoria di genere, politiche di genere, sarebbe stato più facile portare a termine l’agenda femminista, e dal femminismo è stato fatto con un senso molto pragmatico, cioè, l’obiettivo era trasformare la realtà e abbiamo rinunciato a mettere in prima fila il femminismo e lo abbiamo sostituito con genere» (min. 21:19 – 22:44, Banalización del Feminismo y Trampas Patriarcales por Alicia Miyares).
Nella loro lotta contro il Patriarcato, non bastavano le donne, molte donne non mangiavano la foglia femminista, era necessario dare nuova linfa allo sdegno, far nascere nuove accuse inedite, nuove battaglie da combattere, nuove minoranze e nuove vittime: le vittime di genere. Così facendo il femminismo ha aperto un vaso di Pandora, non solo per le idee ma anche per i nuovi termini che definiscono queste idee. Se da un punto di vista linguistico il femminismo è stato una fonte inesauribile di creatività, la nuova neolingua genderista è ancora più prolifica, non cessa di espandersi, fonte di una terminologia in costante aumento ed evoluzione, che conia parole per ogni cosa e a maggior velocità. Se il femminismo è riuscito a rendere comune un termine, il patriarcato, che meno di mezzo secolo fa veniva adoperato solo dagli storici o dai religiosi nel suo significato tradizionale, all’ideologia di genere è bastata soltanto una ventina di anni per rendere popolare un termine che era completamente sconosciuto: eteropatriarcato. Gli attivisti di genere sono stati degli alunni avvantaggiati e hanno superato i maestri. E come le femministe, gli attivisti di genere hanno moltiplicato gli enti e gli impieghi inutili che hanno bisogno di finanziamenti, abbelliti da altisonanti paroloni. In Spagna, il municipio di Madrid ha creato l’«Unità di Gestione della Diversità per identificare e rendere visibili i crimini di odio». Già il nome è tutto un programma. Invece il comune di Saragozza, sempre in Spagna, ha messo a disposizione per «il terzo genere», per sbrigare pratiche amministrative e consultazioni, l’«Ufficio di Transversalizzazione di genere». Per favore, non chiedetemi con precisione cosa vuol dire perché non lo so nemmeno nella mia lingua, in spagnolo, penso che abbia a che fare con il gender mainstreaming.
Gli “individui con una cervice”…
La neolingua femminista ha connotato in maniera negativa termini associati alla mascolinità e ha coniato e ha popolarizzato nuovi oltraggi per zittire gli avversari, da “maschilisti”, a “misogini”, “patriarcali”, o “sessisti”. Gli alunni avvantaggiati del genderismo hanno capito la forza dirompente di questa tecnica, che fa zittire moralmente gli oppositori, e così sono nate accuse oltraggiose nuove di zecca con il suffisso “fobo”, da “transfobi”, “lgtbfobi”, “lesbofobi”, “gordofobi” e un lungo eccetera, fino ad arrivare addirittura a parlare di “pedofobi” (letteralmente coloro che temono i pedofili). Il più popolare è “omofobo”. Oggigiorno “omofobo” è il termine che usano gli insultofili per congratularsi della propria filoidiozia. Da questi atti di accusa, come successe durante la rivoluzione culturale cinese, non si sono salvate nemmeno le progenitrici, le femministe, malgrado la transfobia sia per definizione maschilista, definite peggiorativamente TERF (Trans exclusionary radical feminism). Naturalmente è derivata una guerra civile all’interno del femminismo, «il termine TERF è un insulto e incita all’odio». «Quando si arriva a parlare delle donne, però, tutto è permesso. […] Il termine viene usato con intento denigratorio verso una comunità di cui non condividono il pensiero. I social sono pieni di “Picchia le Terf” o “Le Terf vanno appese al muro” e via dicendo. Non è nemmeno difficile trovare sul web magliette e manifesti con scritte violente come “uccidi tutte le Terf”. […] “Terf”, dunque, è una parola imposta alle donne per metterle a tacere in maniera prepotente, condannarle, umiliarle e respingerle. In Gran Bretagna si è corsi ai ripari. Nel luglio del 2018 la rivista britannica The Economist ha chiesto a giornalisti e collaboratori di evitare il termine perché è usato per mettere a tacere le opinioni altrui se non per incitare alla violenza. […] sempre nello stesso anno si è pronunciata anche l’Appg (All-Party Parliamentary Group) del Regno Unito sui crimini ispirati dall’odio. Nel 2019 Katy Minshall a capo del dipartimento della policy di Twitter in Uk ha dichiarato che “terf”, come “puttana” è un termine sessista e che usarlo sui social viola la policy del sito e implica la rimozione».
Fa un po’ sorridere leggere questi scritti femministi, sono di un’ingenuità che confinano nel delitto. Da quando ho memoria mi ricordo di magliette e altri prodotti (ad esempio tazze) in vendita che denigrano l’universo maschile, dalle famose “male tears” (lacrime maschili) a uomini picchiati, decapitati o bambini ai quali le bambine lanciano sassi. E non bisogna andare sui social per leggere minacce del tipo “macho muerto abono para mi huerto” (maschio morto, concime per il mio orto), “muerte al macho” (morte al maschio), “machete al machote” (coltellate al maschio), “si nos organizamos los matamos a todos” (se ci organizziamo li uccidiamo tutti), “ante la duda tu la viuda” (di fronte al dubbio meglio vedova), ecc… sono slogan scritti sugli striscioni e sui cartelli delle marce femministe. Gli attivisti di genere non hanno fatto altro che riprodurre quello che avevano visto fare e avevano imparato dalle femministe. Anni e anni di campagne femministe di ogni tipo e da ogni dove contro l’uomo, contro la mascolinità, hanno dato i loro frutti. L’uomo è un pericolo da cancellare, se proprio uomo deve essere, meglio omosessuale, persino come marito: «“Mio marito è gay… e ne vado fiera”. Per loro è un sollievo avere un marito che non le picchia, che adempie al suo ruolo di padre, che porta i soldi a casa…». I mariti picchiano, non mantengono la famiglia, non sono bravi padri. L’omosessuale divinizzato. Il femminismo ha fatto di tutto per cancellare l’uomo dall’immaginario collettivo, dalla lingua e dai discorsi (ad esempio, le iniziative femministe per parlare sempre al femminile). Ora una parte del femminismo lamenta che l’ideologia di genere e il linguaggio attuale «cancellano la donna». Alcuni esempi, L’American Cancer Society, nel consigliare il pap test, ha recentemente parlato di «individui con una cervice» piuttosto che donne. Il Ministero delle Pari Opportunità spagnolo ha definito “maschilismo” come «qualsiasi tipo di idee, atteggiamento o comportamento violento e/o discriminatorio nei confronti di persone che non sono conformi all’identità di genere maschile definita da ruoli binari di genere», un contorto eufemismo per non usare la parola “donne”. Una volta il “maschilismo” era «qualsiasi tipo di idee, atteggiamento o comportamento violento e/o discriminatorio nei confronti delle donne».
La “persona gestante”…
Se c’è un concetto e un termine che l’ideologia femminista è riuscita a cancellare con successo, questo è il ruolo e il termine di padre (il patriarcato). Ignorato nelle norme, ignorato nel diritto di filiazione, ignorato nell’aborto. A proposito della riforma del congedo paternale si informa che «l’altro genitore diverso dalla madre biologica avrà 12 settimane di congedo per la nascita di un figlio o di una figlia». Il padre è l’innominabile, «l’altro genitore diverso dalla madre biologica». Ma, come è successo per la cancellazione dell’uomo, la rivoluzione non si ferma, il femminismo, che ha spazzato via il ruolo e il termine di padre, rischia ora, come effetto avverso non voluto, di travolgere il ruolo e il termine di madre. Si creano nuovi termini: «Le persone transgender saranno registrate come padri, madri o adri, a seconda del sesso registrato: maschio, femmina o non binario o in bianco, con effetti retroattivi sui certificati di nascita della loro prole». (Gazzetta Ufficiale spagnola, Congresso dei deputati, Proposta di legge per l’uguaglianza reale ed effettiva delle persone trans). Oppure si fanno semplicemente sparire: «prima gli Stati Uniti, ora la Francia, hanno deciso di cancellare mamma e papà. […] I termini madre e padre non figurano più sui passaporti targati Washington da più di un anno». Nel Regno Unito i funzionari sanitari hanno emanato le nuove linee guida per gli infermieri delle unità prenatali di alcuni ospedali in cui il termine «allattamento al seno» viene sostituito con «allattamento toracico» e «latte materno» con «latte umano». Gli infermieri sono stati anche esortati ad evitare i termini madri e donne, a meno che non sia specificatamente richiesto (sic), si chiede di utilizzare termini neutri rispetto al genere come genitore e «persona gestante». (Continua domenica prossima)