Se fino a non molti anni fa l’attivismo e la produzione relativa alle contestazioni delle tesi femministe (declinata anche in maniera indiretta, come semplice manifestazione di una condizione di sofferenza maschile) venivano ignorate, negli ultimi anni – sia in ambiti accademici che mediatici – è dilagata la diffusione di articoli e tesi che si occupano di questi spazi. I filoni seguiti sono stati grossomodo due: il primo e più diffuso è stato quello della criminalizzazione tout court; il secondo, quasi sempre imparentato con il primo, è stato quello dell’espediente dell’approccio etnologico, antropologico, dello psicologo, del sociologo o del mass mediologo… lo studioso “neutro e imparziale” che si appresta a “definire un fenomeno”. Fenomeno che dall’alto della sua superiore e suprema conoscenza (sigh) verrà definito attraverso un giudizio “scientifico”, “dotto”, “oggettivo”.
Tale approccio appare per evidenti ragioni totalmente fallace già dal punto di vista teorico. Rimandando su questo ad un articolo di Rino Della Vecchia, ci limitiamo qui ad evidenziare alcuni aspetti: l’idea che sia possibile nelle scienze umane dare luogo ad una attività conoscitiva che prescinda dal momento valutativo, è ampiamente screditata pressoché ogni tradizione filosofica contemporanea. La condivisione di questa tesi (che dovrebbe essere il punto di partenza per qualsiasi autore che abbia alle spalle una base minima di studi in materia) – come è noto – non comporta in maniera necessaria o consequenziale l’adesione verso le configurazioni proposte dalle epistemologie evoluzionistiche e neanche verso quelle che individuano solamente in alcune forme più rigorose di conoscenza empirica (rappresentate dalle scienze naturali) le istanze “genuine” di conoscenza. In base a quanto detto risulta evidente che l’espediente del sociologo che “studia il fenomeno dell’androsfera”, che “si sta limitando a descrivere una realtà oggettiva”, non dovrebbe avere il benché minimo credito. Tuttavia, come ben sappiamo, quando c’è di mezzo il femminismo e quelle cloache che sono diventate la facoltà umanistiche (ci torneremo a breve), tutto è possibile.
La strumentalizzazione degli “infiltraggi”.
Procediamo con ordine. Considerando che gli spazi dell’androsfera sono pubblici, il nostro impavido e temerario antropologo (o psicologo, o sociologo, o cazzaro a scelta) avrebbe la possibilità di iscriversi al forum o al blog oggetto del suo interesse, leggere le singole discussioni, confrontarsi con gli autori degli stessi sugli specifici argomenti, teorie o contenuti nelle stesse. Questa operazione tra l’altro sarebbe resa agevole dal fatto che molti spazi dell’androsfera hanno una suddivisione capillare in sezioni, attraverso la quale è immediatamente identificabile il contenuto degli orizzonti filosofici o valoriali, quello delle analisi storiche, quello delle conversazioni tra utenti sui fatti di cronaca o sulle proprie vicende personali. Quindi, visto che di confronto tra teorie si tratta e visto che le discussioni si svolgono alla luce del sole, il nostro eroe (più spesso le nostre eroine) potrebbe con estrema facilità individuare i “punti caldi” e dibattere con gli autori degli stessi.
Cosa avviene in realtà? L’etnografo digitale, essendo spesso (ma non sempre, visto che alcuni contributi sono firmati da soggetti che lavorano in ambito accademico) un soggetto con un titolo che vale quanto il due di coppe a briscola, che ha conseguito una laurea in sociologia o antropologia senza avere mai aperto un testo di filosofia (non è una boutade, accade per davvero), un prodotto di scarto (o d’élite, a seconda dei punti di vista) di un sistema fallimentare votato all’autoriproduzionismo citatologista, inventa di essersi “infiltrato” o di aver partecipato alle discussioni di community virtuali: durante questo “infiltraggio” tuttavia viene evitato abilmente ogni dibattito, ogni confronto; non è inusuale neanche assistere a dei tentativi di lusinga sessuale verso gli utenti, raccontando agli stessi di condividere le loro idee e il loro punto di vista. Quale sarà l’esito di questa nobile attività di ricerca? Dei testi terrificanti (tesi di laurea, articoli, contributi per riviste accademiche), scopiazzati dai lavori d’oltreoceano, in cui i contenuti di quelle pagine o delle conversazioni avute con gli utenti stessi non verranno mai presentati o documentati, ma verrà invece imbastita una retorica surreale su post sporadici o affermazioni estemporanee.
Una scientifica fuga dal confronto.
A titolo di esempio, oltre alla Call della rivista AG About Gender, basti dare un’occhiata al testo di tale Annalisa Verza o ai titoli delle tesi di laurea presenti in una pagina della facoltà di antropolgia dell’università di Bologna (tra cui si può leggere, «”Conta solo il bel faccino”: un’etnografia digitale del fenomeno incel (involuntary celibates) in Italia»: non ne conosciamo il contenuto e l’autore, ma il titolo già fa presagire il peggio). Rileggiamo ad esempio la risposta fornita dalla rivista Ag About Gender nel motivare il diniego della pubblicazione del nostro contributo: «Eppure chi scrive afferma che non esistano spazi accademici o mediatici che “non condividano l’ortodossia femminista” rimuovendo le molte pubblicazioni di orientamenti confessionali con approcci regressivi, le molte retoriche con orientamenti conservatori diffuse nei contesti politici, la produzione mediale di trasmissioni, pubblicità, fiction, giochi di ruolo, che ripropongono ruoli sessuali, modelli familiari, relazioni tra i sessi non ispirate a una presunta egemonia femminista ma alla riproposizione di rappresentazioni stereotipate di ruoli e attitudini dei due sessi». Secondo il comitato della rivista accademica, il fatto che siano tutt’ora esistenti (e quindi rappresentati) dei ruoli sessuali e dei modelli familiari e di attitudini tra i due sessi (tradotto, che esistono ancora “maschio e femmina”, “uomo e donna”) sarebbe la prova dell’esistenza di una critica al femminismo. La “critica al femminismo” quindi sarebbe non già una un procedimento di analisi “genealogica” delle condizioni di possibilità di un determinato sapere, una qualche verifica teorica o dibattito sulle tesi del femminismo stesso, ma semplicemente la circostanza che esistono ancora “ruoli di genere” maschili e femminili, padre e madre, eccetera: sarebbe come se durante il Terzo Reich qualcuno avesse avanzato delle obiezioni rispetto alle tesi del regime sugli ebrei, e la risposta fosse stata: “ma ci sono ancora degli ebrei in vita, quindi non è vero che non esiste una critica della dottrina del Reich sugli ebrei”.
Le amarissime conclusioni a margine di queste breve riflessioni, oltre a quanto sottolineato già dagli altri articoli richiamati più sopra, si traducono in un giudizio di totale sdegno verso l’attuale mondo accademico italiano. Non solo esso non riesce più a formare una classe di giovani studiosi preparati, ma per di più, quello che ne esce, è una massa di soggetti ignorantissimi (ignoranza a volte mascherata da testi per lo più copiati e infarciti di citazioni di terza o quarta mano), totalmente indottrinati, privi di scrupoli ma pieni di ambizione; elementi con i quali si cerca di rimediare alla mancanza di tutto il resto. E se questi ragazzi (benché non “bambini”, quindi assolutamente in grado di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e la severità dei giudizi sul proprio operato) sono la punta dell’iceberg, come è il resto dell’edificio? Anche qui, basta guardare al successo mediatico e agli allori con cui i padroni del vapore incensano l’attività di personaggi come Maura Gancitano e Andrea Colamedici; e al silenzio invece in cui si è spento un filosofo come Costanzo Preve. Peraltro, le ragioni che hanno prodotto il raggiungimento di questo livello di indegnità morale e culturale, si trovano proprio nelle riflessioni e nelle analisi condotte da questo grande pensatore, esiliato (non a caso) dall’intellghenzia italiana. A quanto pare noi italiani ci meritiamo tutto questo, la rivista Ag About Gender, la Murgia, la Gancitano e il suo Tlon, Annalisa Verza, Giovanna Vitale, Non una di meno, Jennifer Guerra, Giulia Blasi. E un esercito di soldatini senza più neanche il coraggio dei propri (pre)giudizi, ma che mascherano la propria malafede dietro la scusa dell’etnografia digitale o di qualche altra vigliaccata. Perché uno degli aspetti che più atterrisce di questa situazione, è la scientificità (qui l’impiego di questo termine finalmente non è più peregrino) con cui i soggetti sopra menzionati (i primi nomi che ci sono venuti in mente, non ne abbiano male esclusi eccellenti come Lilli Gruber) evitano ogni confronto.