Cristiana Valentini, oltre che avvocato, è ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Ci siamo imbattuti in alcuni suoi contributi pubblicati sull’importante sito “Archivio penale“, ma soprattutto nella sua bella e coraggiosa intervista con il sito “Il Dubbio“. In quest’ultima parla, facendo riferimento a una complessa e articolata ricerca accademica da lei coordinata, del gran numero di procedimenti giudiziari “finiti nel nulla”, includendo in essi le prescrizioni e le assoluzioni, che conteggia su una percentuale del 60%. Una prova, ha scritto altrove, del fatto che «l’azione penale viene troppo spesso esercitata in assenza dei corretti requisiti». Tutte le sue pubblicazioni, nonché la sua intervista a “Il Dubbio”, sono dense di spunti e riflessioni importanti per chi è interessato ad aspetti legati alla giustizia, ma sono soprattutto queste sue due osservazioni a colpirci. Vediamo in esse, infatti, un apparentamento evidente con le opinioni spesso espresse in queste pagine rispetto all’anomalia (a nostro avviso dilagante) delle “false denunce”. Che però a noi risultano su percentuali decisamente più alte. Ciò deriva probabilmente dall’adozione di due prospettive diverse: la Prof.ssa Valentini è particolarmente interessata all’aspetto della efficienza del sistema giudiziario (da qui il suo conteggio anche delle prescrizioni), mentre noi adottiamo una prospettiva più sociologica, interessata a mettere in evidenza le anomalie che, favorite anche dalla scarsa efficienza del sistema, finiscono per ricadere sulla vita di uomini, donne e minori. I punti di sovrapposizione tra le due visioni ci sono, ed è per questo che abbiamo contattato la Professoressa Valentini per uno scambio di idee.
Nella sua intervista a “Il Dubbio” sottolinea il dato del 60% dei procedimenti finiti in nulla, denunciando anche quanto il procedimento in sé possa essere una pena per chi lo subisce. Da anni registriamo e deduciamo percentuali simili, spesso anche più alte, nell’ambito della “violenza di genere”, dove a nostro avviso dilagano le false accuse ma dove però non esistono dati statistici per trovare conferme. Nei suoi studi come è arrivata al dato del 60%? Quali casistiche ha esaminato? In verità io sono arrivata a dati diversificati in base alla sede e al tipo di procedimento. Quella cifra allude, a spanne, al numero delle pronunzie di proscioglimento, nei processi dinanzi al tribunale monocratico a citazione diretta, con l’aggiunta dei casi di prescrizione. I dati che ho esaminato, come attestato nel mio articolo pubblicato su Archivio Penale, sono quelli inviatimi dalla Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia nell’ambito di una ricerca scientifica in corso presso l’Ateneo d’Annunzio cui appartengo.
Le anomalie di sistema colpiscono tutti, trasversalmente.
A nostro parere buona parte del fenomeno falso-accusatorio e dei casi di ingiusta detenzione o di misure cautelari ingiustificate ha origini ben precise di natura politico-culturale. Sulla base della casistica che ha esaminato, lei che conclusioni ha tratto sulle cause di un così alto numero di procedimenti “falliti”? Non si tratta tanto di fattori politico-culturali, a mio parere, quanto di pura e semplice politica e, anzi, apparenza di attivazione politica. Per molti anni il nostro povero Paese è stato il fanalino di coda nella tutela delle vittime e questo è un dato di fatto: ho precisa memoria di una quantità di procedimenti in cui, dinanzi ad una donna piena di lividi che si presentava a sporgere denunzia, l’autorità di turno tentava di dissuaderla, sottolineando come si trattasse di mere liti domestiche. Ho visto donne con il setto nasale fratturato da una testata perdere il coraggio di agire dinanzi a simili condotte; ragazze fidanzate con uomini con gravi problemi psichiatrici soccombere senza reagire a sistematici pestaggi, perché tanto nessuno le avrebbe credute. Ho personalmente ascoltato vittime di stupri violenti rinunciare alla denuncia per non subire una ennesima vittimizzazione da parte di chi, in teoria, avrebbe dovuto ascoltarle. Oggi –all’opposto esatto- vedo uomini normali, senza macchia, accusati di reati ignobili per motivi variegati, che spaziano dalla gelosia, alla vendetta, al puro e semplice movente economico. Errore gravissimo, nel primo caso; errore gravissimo, nel secondo. Entrambi –peraltro- errori solo parzialmente addebitabili all’inerzia o alla pessima qualità della politica, perché chi decide –in ultima analisi, come già diceva il grande Carnelutti- è il magistrato e nessun altro.
Non si può non rimanere piacevolmente stupiti dalla tranquilla fermezza con cui un’esperta di diritto della caratura della Professoressa Valentini rende ragione della frequente criminalizzazione maschile e del conseguente fenomeno delle false accuse di cui gli uomini cadono sovente vittime. Certamente stupisce la premessa, tratta con ogni probabilità dall’esperienza professionale della Valentini (la quale, ricordiamolo, è anche avvocato penalista), che ci sentiremmo di commentare osservando come una certa inerzia possa essere legata alla scarsa sensibilità dei singoli operatori che ricevono notizia di casi di violenza, con ciò escludendo la presenza, in passato come oggi, di fattori strutturali; ma soprattutto constatando come non ci siano notizie, e dunque sia del tutto plausibile, che la stessa superficiale indifferenza venisse riservata a uomini che si presentavano ugualmente pesti e sanguinanti. Capita ancora oggi, in via pressoché sistematica, nei casi di violenza domestica in cui l’uomo trova il coraggio di denunciare, di venire accolti con scetticismo se non con una velata derisione. A nostro parere questa superficialità e indifferenza verso le vittime maschili c’era in allora e permane ancora adesso. Riteniamo ciò non per istituire una orrida gara tra chi è meno servito dalle istituzioni quando si trova vittima di un abuso o di violenza, ma semplicemente per dire che le anomalie di sistema, i cattivi operatori ed eventuali pregiudizi culturali, in quanto tali, colpiscono tutti trasversalmente, a prescindere dal genere o da ogni altra caratteristica.
La magistratura e i media.
Per quanto concerne la magistratura, ritiene che sussista un problema di formazione degli operatori, oltre che di numeri in organico? Non c’è dubbio in entrambi i casi; e –va detto- agenti e ufficiali di polizia giudiziaria a tutt’oggi lamentano la carenza di formazione, essi per primi. Una carenza di formazione criminalistica che impedisce la capacità di discernere il vero dal falso, con danni seri –vorrei sottolinearlo- in primis per le vere vittime, le cui dolorose vicende finiscono accomunate in un calderone unico e dunque, in concreto, trascurate. Senza parlare, poi, dei danni subiti dai minori, troppo spesso strappati all’affetto paterno da denunzie “opportunistiche”, radicate –ad esempio- nella volontà di migliorare le condizioni economiche negli accordi di separazione. Qui la pura e semplice esperienza empirica induce a lanciare segnali d’allarme. Sottolineiamo costantemente anche noi come il fenomeno falso accusatorio, oltre a devastare la vita dei falsamente accusati, rappresenti un danno enorme per chi è davvero vittima di violenze e abusi. Ed è indubbio, aggiungeremmo noi, che al quadro d’insieme non giova il fatto che a fare formazione agli operatori di giustizia di ogni livello siano spesso oggi non specialisti con una chiara visione e una corretta impostazione giuridico-criminologica, come la Prof.ssa Valentini, bensì entità di più che dubbia preparazione e per nulla limpidi come i centri antiviolenza.
Secondo lei i magistrati sono “sensibili” alle spinte e ai condizionamenti dei media e dell’opinione pubblica? Un tema delicato: in tanti lo negano, talvolta la stessa CEDU. In verità, dai miei studi (e l’ho scritto) emerge esattamente il contrario. Mai sottovalutare il quarto potere, quello dei media, appunto. È tanto prezioso, al servizio della verità, quanto temibile, se non usato a tale scopo. Fior di studi sociologici lo sottolineano, la verità è questa e non credo possa essere ulteriormente elusa. L’equilibrata risposta della Prof.ssa Valentini non può non scuotere i molti fra noi che ancora conservano un’immagine idealizzata del magistrato solido e imparziale, una sorta di baluardo capace di restare equidistante e indifferente ai battage mediatici o alle manifestazioni in diversa misura forcaiole davanti ai tribunali. Valentini ci conferma che si tratta di un ideale, purtroppo destinato a rimanere tale.
Le analisi critiche nella ricerca accademica.
Nella sua intervista a “Il Dubbio” lei sottolinea con allarme il pericolo in cui la situazione attuale sta mettendo principi fondanti dello Stato di Diritto come la presunzione d’innocenza e l’obbligo dell’azione penale. Quali sono i lineamenti di queste sue preoccupazioni? Qui potrei scrivere una cinquantina di pagine e non basterebbero. L’azione penale è –essa pure- uno strumento temibile; non è casuale che, in uno Stato di Diritto degno di tal nome, essa sia assoggettata a forme varie di controllo. Quanto alla presunzione d’innocenza, la verità è che nel nostro Paese si tratta di una utopia, e non da oggi. Dal lato statistico, le risulta un deficit, generale o specifico sul tema di nostro interesse, rispetto alla raccolta e pubblicizzazione dei dati? Se sì, che conseguenze sistemiche può avere? Certo che si. E questo significa una cosa sola: mancanza di trasparenza nell’amministrazione della Giustizia; dunque, ancora una volta, qualcosa che in teoria non dovremmo vedere in uno Stato di Diritto. Anche queste risposte riflettono in buona parte le preoccupazioni che da anni esprimiamo, sebbene limitatamente al campo di interesse di questo sito: i frequenti cedimenti su alcuni pilastri della civile convivenza comunitaria e l’impossibilità di accedere a statistiche complete, trasparenti, con aggregazioni di dati che abbiano una logica concreta atta a rappresentare al meglio possibile la realtà, e non impostati in modo ideologico per supportare una specifica visione del mondo. Usciamo dal colloquio con la Prof.ssa Valentini confortati dal fatto che le opinioni elaborate da noi, meri opinionisti con una particolare attenzione nei metodi di analisi, in buona misura trovino conferme così autorevoli.
Off records, poi, la Prof.ssa Valentini ci svela un aspetto di cui non sospettavamo minimamente l’esistenza: un intero filone di ricerca accademica che si pone in modo apertamente critico rispetto ad alcune tematiche oggetto, sebbene senza nessuna pretesa di scientificità, di analisi e critica anche da parte nostra. Si tratta di studi di natura giuridica che analizzano le contraddizioni insite in leggi come il “Codice Rosso”, in trattati come la “Convenzione di Istanbul” o in termini come “femminicidio”. Non ritenevamo possibile che questo tipo di analisi critiche fossero ammesse in ambito universitario, davamo per scontato che il clima censorio fosse, nell’università italiana, pari a quello presente negli atenei anglosassoni. Ci procura grande sollievo la Prof.ssa Valentini svelandoci che non è così. Anzi. Con grande gentilezza ci ha messo quindi in contatto con alcuni ricercatori, che ci hanno già fornito moltissimo materiale di grande interesse, e di cui parleremo in modo approfondito nel prossimo futuro.