A intervalli regolari capita. Si prende una sentenza, prima ancora che ne vengano pubblicate le motivazioni di dettaglio, si isola qualche aspetto e su di esso si monta un caso nazionale. Accade oggi per l’assoluzione dell’ottantenne bresciano Antonio Gozzini, colpevole dell’omicidio della moglie Cristina Maioli, un anno fa. La PM Claudia Passalacqua aveva chiesto l’ergastolo, ma i giudici hanno riconosciuto all’uomo l’incapacità di intendere e di volere, in ciò sostenuti da entrambi i consulenti sia dell’accusa che della difesa: “era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida”, hanno scritto in modo concorde. E da lì si è scatenato l’inferno in terra. Non c’è pagina social femminista che non strilli istericamente la propria indignazione, cui fanno eco sui media mainstream le sacerdotesse della criminalizzazione maschile senza se e senza ma, guidate in testa dalla corazzata Michela Murgia, tutte allineata a chiamare anche questo “femminicidio”, sebbene non lo sia affatto.
Sono sollevazioni ricorrenti, periodiche, che strumentalizzano questioni giuridiche, in genere condotte con molta correttezza, per poter sollevare polveroni e così confermare all’opinione pubblica un’interpretazione falsata della realtà. Nell’operazione il femminismo di rapina nazionale trova sempre molti alleati nella stampa nazionale, che va a nozze col molto rumore per nulla delle professioniste dell’antiviolenza, una garanzia di click, “mi piace” e letture. Solo un anno e mezzo fa ci fu una pantomima simile, qualcuno la ricorderà. Quella volta lo scandalo riguardò la “tempesta emotiva” riconosciuta all’uxoricida Michele Castaldo in Appello, che gli valse una riduzione di pena da 30 a 16 anni di carcere. Si sollevò il solito polverone, con tanto di iperfemministe a manifestare sotto il tribunale di Bologna, costringendo Giuseppe Colonna, Presidente della Corte d’Appello di Bologna, a diramare alcuni chiarimenti tecnici sulla sentenza. Cosa mai vista e di per se stessa sovversiva, un sommovimento mediatico forzava cioè un organo dello Stato a giustificare in qualche misura la propria decisione. Che, come dimostrammo in allora, era del tutto legittima dal lato del diritto, mentre la “tempesta emotiva” era una mera strumentalizzazione mediatico-mobilitativa, una delle tante.
E oggi ci risiamo. L’amato conteggio dei “femminicidi” (amato dalle femministe, ovviamente) langue talmente quest’anno che serve sollevare il caso e mistificare quanto più possibile. È accaduto per un fatto di sangue passato stranamente quasi sotto silenzio: in provincia di Savona un uomo uccide la figlia della compagna (e già solo per questo non si tratta di “femminicidio”) e la donna sui giornali e nelle liste dei vari siti femministi finisce tra le vittime appunto di “femminicidio”, sebbene sia risultato chiaro quasi subito che il problema era legato al disagio psichico dell’autore e al suo possesso di armi da fuoco (dunque nessuna spinta di possesso, gelosia o patriarcale… era solo svalvolato e come tale avrebbe potuto uccidere chiunque). A questo si aggiunge la scandalosa sentenza sull’ottantenne bresciano, anch’egli noto a tutti come persona con gravi e profondi disagi psichici, di cui la sua stessa famiglia sapeva, e che ora non è certo libero, anzi verrà ospitato in una REMS (manicomio criminale). In attesa di leggere nella loro completezza le motivazioni della sentenza che l’ha assolto, il femminismo nazionale però si appropria della vicenda, la mistifica e la strumentalizza per rafforzare il solito concetto: gli uomini sono tutti carnefici di donne sempre vittime e in Italia è in atto una mattanza. Tutto falso. Che da falso diventa ridicolo e insultante (per la magistratura) quando Fofò Bonafede, incidentalmente (e tragicamente) Ministro della Giustizia, forse su suggerimento della Bongiorno e della Hunziker, dispone accertamenti sulla sentenza. Nel frattempo si moltiplicano i segnali che evidenti mostrano che l’opinione pubblica comincia ad avere un rigetto sempre più netto di queste chiavi di lettura e di queste condotte.
Anche perché si tratta di interpretazioni minate da una potentissima contraddizione. Il disagio psichico innesca non di rado atti criminali, questo è noto. Cosa a sua volta inneschi la parte più feroce del disagio psichico è cosa che varia: può essere un irrazionale e immotivato senso di gelosia, un modo di rabbia, un fastidio estemporaneo, una parola detta in modo sbagliato o un gesto improvviso e centinaia di altri fattori. Tra questi, anche uno stato fisiologico sofferente, come quello di talune donne nel periodo successivo al parto. Un innesco talmente riconoscibile da essere annoverata come patologia. Come tale, a tutti gli effetti, è un problema psicologico o psichiatrico che in molti casi induce a reati terribili quali l’infanticidio. Abbiamo in archivio una quantità impressionante di notizie di madri infanticide per depressione post-partum non solo mandate assolte, ma talvolta neppure perseguite per il loro gesto, e in ogni caso sempre ampiamente compatite da tutti sui media e nella società. Delle due l’una: o il disagio mentale, giuridicamente l’incapacità di intendere e di volere, vale sempre per ottenere una forma di clemenza (come quella concessa ad Antonio Gozzini) anche a fronte di delitti terribili, oppure non vale mai. Oppure ancora, come pare essere attualmente, vale solo a senso e sesso unico: è alibi scagionante se si è dotati di vagina, è del tutto irrilevante se si è dotati di pene. E al primo sgarro di questa regola aberrante, scatta la rivolta pubblica delle furbacchione di turno. Per lo meno fin tanto che tutti noi, opinione pubblica, glielo consentiamo con il nostro colpevole silenzio.