Lara Lugli è un’atleta, una giocatrice di pallavolo, ruolo schiacciatrice. Esordisce nel 1995 in ambito agonistico e da quel momento la sua carriera si è snodata attraverso diverse esperienze in diversi club, anche all’estero. Il suo ultimo ingaggio prima del ritiro a 38 anni è stato con il Volley Pordenone e, stando alle cronache, non è stato un epilogo di carriera felice. Lo racconta la stessa Lugli sul suo profilo Facebook: «Rimango incinta e il 10 marzo [2019], comunico alla società il mio stato, si risolve il contratto». Al momento della risoluzione, la Lugli chiede lo stipendio di febbraio, durante il quale afferma di aver lavorato senza riserve. A fronte della richiesta, afferma la Lugli, riceve dalla società sportiva una richiesta di danni. «Le accuse», scrive sempre su Facebook, «sono che al momento della stipula del contratto avevo ormai 38 anni e data l’ormai veneranda età dovevo in primis informare la società di un eventuale mio desiderio di gravidanza, che la mia richiesta contrattuale era esorbitante in termini di mercato e che dalla mia dipartita il campionato è andato a scatafascio». Quest’ultima asserzione è sicuramente vera: la Lugli era la giocatrice di punta della squadra, che dopo le sue dimissioni ha perso posizioni in classifica e di conseguenza diversi sponsor importanti.
Naturalmente le esternazioni della giocatrice fanno esplodere l’indignazione nazionale in ambito politico e mediatico, secondo una versione semplificata per cui la Volley Pordenone starebbe chiedendo i danni alla Lugli perché è rimasta incinta. E via che si scatena l’orchestra sui diritti delle donne e bla bla bla. Pochissimi tra i media (tra questi l’ADN Kronos) si prende la briga di sentire la versione della società sportiva, che pure ha qualcosa da dire: «da contratto, che ricordiamo essere stato predisposto dall’atleta stessa e dal suo agente, si prevedeva l’immediata cessazione del rapporto in caso di gravidanza», scrive in un comunicato. «Lo stesso contratto, che ribadiamo essere stato predisposto dalla stessa atleta, aveva al suo interno clausole che prevedevano addirittura delle penali in caso di cessazione del rapporto». Risulta allora che al momento dell’annuncio della gravidanza e delle conseguenti dimissioni della Lugli, la società sportiva aveva rinunciato ad appellarsi alle clausole e a pretendere le penali, proprio per rispetto di una cosa così bella e importante come la nascita di un figlio. Insomma un atto di garbo doveroso, fatto con la consapevolezza delle perdite che le dimissioni della giocatrice avrebbero comportato, ma fatto comunque, anche in virtù del rapporto fiduciario società-atleta.
Balle, strumentalizzazioni, mistificazioni.
Tutto poteva finire lì, nulla da pretendere da nessuna delle parti, con qualche perdita reciproca: gli sponsor e le penali contrattuali per la società, lo stipendio di febbraio per la Lugli. Quest’ultima invece dopo un po’ ha preteso l’ultima mensilità, ottenendo anche un decreto ingiuntivo. Trattandosi di una giocatrice di punta, il suo compenso era molto alto, dunque l’esborso per la società sarebbe stato importante e si sarebbe aggiunto alla perdita degli sponsor e alla rinuncia delle penalità previste dal contratto. «Ci siamo sentiti traditi dall’atleta», dichiara ora la Volley Pordenone, non senza ragione, e in risposta ha preteso le penali da contratto, il che è cosa diversa dal “citare per danni” menzionato dalla Lugli nel suo post. Di fatto la Volley Pordenone sta esigendo ciò che è suo diritto esigere, sulla base di un contratto proposto dalla Lugli stessa. La quale, com’è suo pieno diritto, esige l’ultima mensilità di lavoro. In tutto questo la maternità della giocatrice che c’entra? Pressoché nulla. È una delle probabilmente tante circostanze previste dal contratto d’ingaggio che al loro verificarsi comportano delle dimissioni. La diatriba tra l’atleta e la società sarebbe sorta in ogni caso, quand’anche la causa delle dimissioni fosse stata un’altra, diversa dalla gravidanza. Insomma, il centro del discorso è nell’alternativa tra il lasciarsi “sportivamente” e il lasciarsi “a norma di contratto”. Da ciò che emerge, la società ha percorso subito la prima strada, aspettandosi di essere seguita dalla Lugli, che invece ha preso l’altra.
Niente che non accada regolarmente nelle relazioni tra atleti e società sportive, e più ampiamente tra dipendenti e datori di lavoro, qualunque sia la causa delle dimissioni. Eppure su questa vicenda è scattato come una tagliola il meccanismo vittimista femminista, che la stessa Lugli non ha mancato di usare. «Chi dice che una donna a 38 anni, o dopo una certa età stabilita da non so chi, non debba avere il desiderio o il progetto di avere un figlio? Non è che per non adempiere ai vincoli contrattuali stiano calpestando i Diritti delle donne, l’etica e la moralità?», ha scritto su Facebook. Le ha fatto eco, tipo pappagallo stonato, la Boldrini, annunciando un’interrogazione: «La colpa della pallavolista Lara Lugli è quella di essere rimasta incinta». Balle, strumentalizzazioni, mistificazioni, boldrinate. Perché la Lugli avrebbe potuto tranquillamente pretendere subito la sua mensilità, era nel suo pieno diritto, ma sapeva che in risposta la società sportiva avrebbe a quel punto applicato le penali che era suo pieno diritto applicare. Invece ha aspettato che la società optasse per un informale e ingenuo “gentlemen’s agreement”, probabilmente stipulato sulla parola e non per iscritto, per poi piazzare un bel decreto ingiuntivo.
Un veleno che è l’antitesi dell’etica.
In altre parole, la Lugli ha fatto in modo che accada ora in termini conflittuali ciò che poteva accadere subito in termini concordi e pacifici. Solo che ora, carte bollate alla mano e sostegno politico-ideologico-mediatico alle spalle, ha ottime possibilità di trarne vantaggio, mentre al momento delle dimissioni sarebbe rimasta con un pugno di mosche: probabilmente, infatti, il suo compenso di febbraio sarebbe stato “mangiato” dalle penali previste dalle clausole del contratto, sancendo un “pari e patta”. Ad agire scorrettamente, in termini puramente etici, è stata dunque lei, che ora, sostenuta dai media e dalla politica, mette la società sotto pressione cavalcando un vittimismo che non ha nulla a che fare con la faccenda né tanto meno con la sua gravidanza. E che non le rende onore in quanto giocatrice della disciplina più bella e sportiva del mondo. La vera vittima, in questa vicenda è la società sportiva, che soccomberà probabilmente anche in tribunale. La sua colpa è di aver ceduto alla tentazione di tenere un alto profilo etico, senza tener conto che nel mondo circola un veleno che è l’esatta antitesi dell’etica e del rispetto delle sue regole: quel famelico femminismo vittimista disposto a scavalcare qualunque norma pur di divorare quanto più può.
Aggiornamento: alle ore 15.15 di oggi la società sportiva, data la valanga di insulti che stava ricevendo, si è vista costretta a chiudere il proprio sito internet. Su di esso era presente un piano dettagliato degli investimenti sul settore pallavolo femminile che la società proponeva a eventuali clienti privati. Ora, dopo tutto questo rumore per nulla con la conseguente shistsorm, chi investirà più in pallavolo femminile? A riprova che il femminismo è il peggior nemico delle donne.