Non è sicuramente questa la sede per complesse analisi geopolitiche e militari, del tutto fuori dall’oggetto di questo sito. Ci limiteremo quindi a qualche blanda osservazione di carattere generale, prima di centrare la questione di nostro interesse. Non si può fare a meno, allora, di constatare, alla luce degli eventi, che la democrazia liberale non è un prodotto esportabile. In Europa e in generale in Occidente ci sono voluti secoli di riflessioni filosofiche e politiche, guerre e conflitti con milioni di morti, ingiustizie a tonnellate e innumerevoli atti eroici perché potesse affermarsi come il meno peggio tra i modelli disponibili per il governo delle comunità. Non stupisce quindi che vent’anni di protettorato militare americano, per altro stabilito con un pretesto privo di fondamento, non siano bastati a radicarla in un contesto socio-culturale a cui è sconosciuta o dove per certi versi è addirittura mal vista. In questi due ultimi anni, poi, dalle nostre parti si è visto come la democrazia liberale sia qualcosa di fragilissimo, capace di sbriciolarsi rapidamente semplicemente terrorizzando chi dovrebbe esserne protagonista e fruitore: il δῆμος, cioè il popolo, la gente, quella semplice e ordinaria. Insomma abbiamo chiesto ad alcuni battaglioni di posare delle ali di farfalla su delle braci ardenti, pretendendo che non bruciassero. E, poco sorprendentemente, non ha funzionato.
Dopo vent’anni di addestramenti americani delle forze militari “regolari” in chiave anti-talebana, i talebani sono rientrati a Kabul con estrema facilità e oggi controllano l’intero paese. Nel frattempo gli occidentali, USA in testa (con il suo improponibile Presidente), scappano a gambe levate, in un’ulteriore umiliante riedizione di Saigon. Lasciano dietro le spalle una folla che si appende agli aerei sperando di arrivare incolume altrove; truppe “regolari” talmente ben addestrate e disposte a difendere il governo fantoccio in carica che cedono subito le armi davanti a una massa di “pastori in ciabatte e col kalashnikov”, come alcuni osservatori poco lucidi chiamano i talebani. Tutt’attorno c’è un popolo che non mostra la minima pulsione alla resistenza contro il ripristino di un regime che, viene da pensarlo, non dev’essere poi così sgradito. A un certo punto della Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, i napoletani, con tutto quello che di negativo (erroneamente) si dice di loro, rovesciarono l’inferno sulla testa dei nazisti, riuscendo a cacciarli a calci in culo dalla città, in una straordinaria forma di Resistenza prima della Resistenza. Se una comunità è satura di un regime o non vuole che se ne instauri uno foriero di ingiustizie, reagisce, anche a dispetto della paura, tutto insieme, uomini e donne come una cosa sola. Se non lo fa e anzi, come è accaduto a Kabul prima dell’arrivo dei talebani, prepara il terreno al nuovo regime, qualcosa vorrà pur dire.
La vita di un uomo non vale niente.
Al di là di queste considerazioni molto generali, tuttavia, c’è un aspetto specifico che è di nostro interesse, facilmente riscontrabile facendosi un giro su tutti i quotidiani mainstream e i profili social di opinionisti di varia caratura: quello del ritorno dei talebani in Afghanistan è rappresentato come un problema quasi esclusivamente femminile. Non perdiamo nemmeno tempo a postare qui esempi di queste prese di posizione, sono ovunque: politici, giornalisti, addirittura sacerdoti che declinano preoccupazione, indignazione o preghiere «per le donne afgane», per il fatto che stanno per perdere i loro diritti civili, politici e umani, perché verranno considerate “bottino di guerra” dai trionfatori, perché dovranno di nuovo indossare il burqa e sottostare alla Shari’a, perché i loro diritti arretreranno spaventosamente (sebbene non sia chiaro quanto siano avanzati durante il protettorato americano…). Ben intesi: è tutto vero, anzi verissimo. Il regime talebano ripristinerà per le donne tutte le regole rigidissime che abbiamo imparato a conoscere in passato, torneremo a vedere immagini di donne lapidate, prese a frustate o costrette a vedere il mondo attraverso una retina nera. Un po’ la stessa cosa, detto tra parentesi, che accade in Arabia Saudita e dintorni, contro la quale però nessuno dice niente, chissà perché. In ogni caso quello che attende le donne afgane è incontrovertibilmente un inferno in terra.
Il problema è che la narrazione pubblica in occidente finisce lì, sul problema delle donne afgane. Non si fa menzione alcuna, né si manifesta alcun tipo di solidarietà per gli uomini afgani. Quelli che in questi giorni, a centinaia, vengono passati per le armi dai talebani, o perché considerati collaborazionisti degli americani o perché hanno tentato una qualche forma di resistenza. Gole tagliate, teste mozzate, fucilazioni (per i più fortunati). I destinatari di cotante cure sono soltanto loro: gli uomini. Che non perdono diritti, non vengono stuprati né costretti a indossare abiti umilianti: muoiono ammazzati come cani. Certo non tutti, è ovvio. Chi rimarrà vivo, pur non riconoscendosi nel movimento talebano sarà costretto, tranne forse gli anziani, a imbracciare le armi, a difendere a costo della propria vita (e pena la vita se rifiuta) il regime rinato. Che riprenderà anche la sua vecchia abitudine di fare scorrerie armate nei villaggi oltre i confini tagiko, uzbeko e turkmeno per sequestrare giovani e giovanissimi, tutti maschi, da arruolare a forza nel loro esercito. Difficilmente questi uomini avranno tempo di “godersi” il ritorno dell’oppressione violenta delle donne, cui probabilmente non vorrebbero affatto partecipare: d’ora in poi il loro inferno consisterà nella preoccupazione di riuscire a portare a casa la pelle ogni giorno. Perché in situazioni come quelle afgane, ripetiamolo e non dimentichiamolo, la donna viene oppressa e umiliata, indubbiamente, ma la sua vita viene preservata, essendo preziosa per “produrre” nuovi combattenti. Di contro la vita di un uomo, che già di suo vale pochissimo, perde del tutto il suo valore. Abbiamo cercato in giro, anche sui media internazionali: l’operazione talebana al momento sembra aver prodotto soltanto vittime maschili e altre ne produrrà in maggioranza durante il suo dominio futuro. Ma questo sembra non importare assolutamente a nessuno. Anzi, il sottotesto è quasi che d’ora in poi gli uomini afgani, talebani o meno che siano, se la spasseranno alla grande. Non è una tragedia di popolo, ma solo femminile.
Siamo e resteremo gli unici a dirlo.
Ecco perché è già stato creato e messo in circolazione l’hashtag #womenforafghanwomen. Ecco perché preoccupazioni, invettive e preghiere vanno esclusivamente «per le donne afghane». A favore delle quali le femministe nostrane pronunciano frasi solenni a favor di telecamera e creano meme memorabili sui maggiori profili social, per poi tornare a sedere comodamente sulla loro poltrona. Non pare che vogliano organizzare una missione diplomatica, dalla Valente alla Carfagna, passando per la Boldrini (velata), la Fedeli, la Bongiorno e la Cirinnà, per andare a catechizzare i talebani sull’importanza della Convenzione di Istanbul o sul divario salariale di genere o sui diritti arcobaleno. No, restano qua a pontificare. Non pensano nemmeno di organizzare un contingente militare di sole donne che, come tali, potrebbero essere abbastanza accanite e arrabbiate per vincere la guerra contro l’oscurantismo patriarcale islamico. Niente da fare: pare che le donne nelle forze armate vadano bene se c’è da fare qualche articolo vetrina e niente di più. E forse è meglio così visto che, quando entrano in azione, non si fanno remore a commettere atroci crimini di guerra (chi ricorda Lynndie England e altre eroine della prigione afgana di Abu Grahib?). Meglio mandare gli uomini a combattere e a morire «per i diritti delle donne afgane», come i 54 militari italiani che hanno perso la vita durante l’occupazione in Afghanistan, e altri 700 rimasti più o meno gravemente feriti. Tutti uomini, manco a dirlo. Perché è così che funziona: se c’è da stare sulla linea del fuoco, si mandano avanti i maschi, a quel punto non più “tossici” ma provvidenziali. Vale il detto: non ci sono femministe su una nave che affonda.
E così la tragedia afgana prende le fattezze, sui media occidentali, della farsa, ad esempio con la polemica sul fatto che ad appendersi agli aerei americani in fuga (per poi morire precipitando, tra l’altro) fossero solo uomini. Una bugia: i video integrali mostrano chiaramente uomini e donne assieme. Ma l’occasione è comunque propizia per accusare i maschi afgani di codardia («devono combattere e morire per le loro famiglie», gridano in molte dai social, pronipoti insane e al sapor di caviale delle suffragette armate dell’infame penna bianca), dimenticando che, quand’anche fosse, quei fuggitivi cercavano di scappare dalla morte, cui invece le donne sono per lo più esentate. E dimenticando anche tutta la retorica sulle donne combattenti, valida fino al parossismo per le curde, ma improvvisamente dimenticata per le afgane. Un disastro diplomatico, militare e sociale di cui l’Occidente è oggettivamente concausa, viene dunque ridotto a un’ulteriore occasione per criminalizzare l’uomo o per sminuire, fino a dimenticarlo, il suo sacrificio, che è il sacrificio della vita e non, cosa pur grave e orribile, della libertà e dei diritti. Noi de “La Fionda” oggi abbiamo un altro motivo per cui vantarci: esprimiamo qui il nostro più profondo scoramento per il ritorno dei talebani e del loro regime teocratico, violento e oscurantista, ed esprimiamo la nostra più profonda solidarietà a quella parte del popolo afgano che non si riconosce nel fanatismo religioso ora al potere. E la nostra preoccupazione è trasversale ai generi, è diretta in egual misura ai destini delle donne, oggi oppresse, stuprate e private di diritti, e degli uomini, oggi scannati e decollati come maiali o ammazzati ferocemente, domani ugualmente privati di diritti e libertà e in più costretti a imbracciare le armi e magari a morire per un potere in cui non si riconoscono. Il dramma afgano, per noi, non è un dramma femminile, ma un dramma umano. Siamo e resteremo gli unici a dirlo. E ne andiamo fieri.