Ci viene segnalato questo documento (inquadrato in rosso da noi nelle parti salienti) diffuso recentemente dall’INPS. Vi si elencano i bonus e le corsie preferenziali riservati alle donne (e solo alle donne) vittime di violenza. Oltre a un sostegno a tutto campo da parte dell’Istituto a tutto il tessuto di tutela delle donne vittime di violenza, con accordi e collegamenti con il 1522 e i centri antiviolenza, l’INPS garantisce l’applicazione di una misura orientata a coloro che subiscono molestie, stalking o stupro sul posto di lavoro: la donna vittima può dunque ottenere una sospensione dal lavoro di 90 giorni, mantenendo il 100% della retribuzione. Non solo: colei che avesse bisogno della certificazione ISEE per accedere ai vari benefici offerti dallo Stato (ad esempio l’assegno unico per i figli a carico), potrà ottenerlo con lo storno del reddito dell’altro genitore che sia stato denunciato per violenza. Ancora: se l’omicida di una donna ha dei debiti nei confronti dell’Istituto, essi vengono considerati inesigibili verso i figli rimasti orfani di madre. Di più: le donne vittime di violenza che si trovino in condizioni di bisogno (attestate proprio dall’ISEE), possono ottenere un contributo di 400 euro al mese per la durata di un anno. Infine: i figli delle donne vittime di violenza hanno la priorità nella concessione dell’ospitalità in convitti di proprietà dell’INPS.
Un bel pacchetto di vantaggi, indubbiamente, che nel caso di una persona vittima di violenza potrebbero essere davvero di sostegno. Il problema è che, come sempre, non si tratta di misure destinate a qualunque persona, ma a un genere specifico. E ciò accade sebbene la legge che istituisce questi benefici si esprima in termini neutri. Ne abbiamo avuto prova tempo fa relativamente alla misura della sospensione dal lavoro: chiedemmo al sindacato che gestisce i relativi fondi (la UIL), se il beneficio era applicabile anche gli agli uomini e la risposta fu chiara e netta: no. D’altra parte si sa: gli uomini vittime di violenza, in generale, e quelli vittime della violenza femminile non esistono, e se anche esistono non contano nulla. Il punto dunque non è, nel merito, quanti e quali tipi di benefici e privilegi vengono concessi dall’INPS: fossero rivolti a chiunque, sarebbero perfettamente accettabili. Il punto è la modalità apertamente discriminatoria con cui vengono concepiti ed erogati. Perché accade? O meglio: qual è la ratio, la giustificazione di fondo per cui lo Stato italiano, attraverso una sua istituzione, attua questo tipo di ingiustizia pudicamente definita “discriminazione positiva”? Per capirlo è sufficiente vedere le parti che abbiamo evidenziato nel testo relativamente al punto 1, il più retorico, quello introduttivo, messo lì proprio per giustificare l’esclusione dai benefici di chiunque subisca violenza senza però essere donna.
L’INPS vi dice quanto conviene essere vittime.
«La violenza sulle donne è un problema culturale», si dichiara subito. Non sociale o criminologico, ma “culturale”. Ovvero: gli uomini picchiano e uccidono perché sono intrinsecamente malvagi e votati all’oppressione delle donne, che dunque sono intrinsecamente tutte vittime a prescindere. La giustificazione a monte è il postulato femminista per eccellenza, insomma: un falso assoluto, come mostrano i numeri delle condanne fornite dal Ministero della Giustizia, che ammontano a una media di 5.000 uomini ogni anno, pari allo 0,02% dell’intera popolazione maschile adulta in Italia. Di contro, il conteggio degli uomini che rispettano, sostengono, stimano, aiutano, salvano donne ogni anno ovviamente non è tenuto da nessuno. In ogni caso è per quel postulato, continua il documento, che (corsivi nostri) «Non si contano le donne che ogni giorno subiscono violenza», con un grido esclamativo successivo: «troppe quelle assassinate!». Non un numero a sostegno di queste asserzioni, non un dato. Non servono: la narrazione dominante (“una donna uccisa ogni tre giorni”) è stata ormai perfettamente interiorizzata dalla maggioranza, quindi non solo non c’è più bisogno di comprovare nulla, ma anche le prove che smontano alla radice falsità del genere, per esempio il fatto che siamo il paese con meno omicidi in Europa (vedasi il grafico sopra) e nel mondo e con il più alto tasso (in media il 90%) di denunce archiviate o esitate in assoluzione, semplicemente non vengono considerate. Anche perché se venissero considerate, cadrebbe la base ideologica che sostiene misure discriminatorie come quelle illustrate dall’INPS.
Le parole sono importanti. E quando c’è la necessità di far passare messaggi propagandistici sottili, lo sono ancora di più. C’è da sostenere tutto intero un sistema che fa girare milioni di euro ed è direttamente connesso con il potere politico, dunque ogni mezzo è consentito. Ecco allora che non ci si risparmia con la retorica: negli uffici INPS, spiega la brochure, oltre all’abbondante cartellonistica relativa alla violenza “di genere” (= solo quella contro le donne), ci sarà sempre una sedia in sala d’attesa riservata a una donna vittima “virtuale”, il tutto (corsivo nostro) «nell’intento di risvegliare la consapevolezza di tutti […] e in particolare delle donne che dovessero riconoscersi nella condizione di inconsapevoli o vittime di violenza». Grammaticalmente quel “inconsapevoli” non c’entra nulla, ma psico-propagandisticamente è cruciale. Quell’aggettivo collocato in modo così sgangherato nella frase, giusto nei pressi della parola “vittime”, ha una funzione comunicativa precisa, dà un messaggio chiaro: «sei anche tu vittima di violenza, anche se non te ne rendi conto». Un centro antiviolenza può aiutare a prendere consapevolezza: quel rimbrotto del marito, quella scarsità di complimenti del coniuge, quel malumore del fidanzato, quel cuoricino spezzato mandato dall’ex via WhatsApp, quel mazzo di rose inviato dal corteggiatore, quel no alla promozione da parte del capufficio, sono tutte componenti di un’inaccettabile violenza subita. Siete tutte vittime, o donne, dovete solo rendervene conto e denunciare, denunciare, denunciare. Per aiutarvi a capirlo, l’INPS vi elenca i possibili benefici dell’essere classificate come “vittime” tramite una denuncia, vera ma soprattutto falsa che sia.
Le “discriminazioni positive” come segno del degrado.
Tuttavia, lo si è detto, una vera vittima, di qualunque genere, avrebbe pieno diritto a quel tipo di facilitazioni. Il problema sorge quando ci si chiede chi può distribuire il sacramento, chi può ungere un individuo con l’olio sacro della vittimizzazione. Nella normalità delle cose, che ormai non esiste più, si è colpevoli di una violenza quando un giudice, dopo un giusto processo, emette una sentenza in quel senso. In quello stesso istante, la vittima querelante o denunciante da presunta diventa vittima a tutti gli effetti. Di norma, dunque, i privilegi dell’INPS (e i tanti altri concessi da altri soggetti) dovrebbero scattare a seguito di una sentenza della magistratura. Se non che, se così fosse, le beneficiarie sarebbero una risibile minoranza. Lo si è detto: circa 5.000 in media all’anno, più, a buon peso, altre 5.000 vere vittime che non vengono riconosciute perché la loro querela si perde sui tavoli delle procure, seppellita da una montagna di altre accuse false o strumentali (circa 70 mila in media ogni anno), in buona parte indotte proprio dai centri antiviolenza. Diecimila vere vittime di violenza però resterebbero un’inezia per la voracità dell’industria dell’antiviolenza, che ha bisogno di grandi numeri per giustificare la propria esistenza, le proprie relazioni di potere e i relativi milioni di denaro pubblico che riceve periodicamente. Ecco allora che la prassi normale che abbiamo profilato devia verso l’anomalia.
L’opuscolo dell’INPS lo dice chiaramente, ed è qualcosa che oggi è perfettamente a norma di legge: l’olio santo della vittimizzazione che dà accesso a tutti i benefici è uno strumento sacramentale nelle mani esclusive della rete dei centri antiviolenza. Sono loro, associazioni o cooperative a carattere informale, investite di ruoli pubblici e finanziate da soldi pubblici senza alcun obbligo di rendicontazione o di dimostrare reale efficacia, a decidere se una donna è vittima di violenza o no. Sono dunque loro a stabilire chi ha diritto o meno al “Reddito di libertà”, basta chiamare il 1522 per ottenere la sospensione dal lavoro per tre mesi a stipendio pieno o altro. E se per caso alla fine, dopo una sentenza, la beneficiata risulta non essere stata affatto vittima, come capita nella maggioranza dei casi, costei non è tenuta a restituire i benefici goduti. Ci mancherebbe. Si dirà però: la legge è legge e deve essere neutrale, anche per coerenza con l’Art.3 della Costituzione, quindi il tutto dovrebbe valere anche per gli uomini. Peccato che, per l’impegno italiano con la Convenzione d’Istanbul, l’accesso ai centri antiviolenza e alla loro certificazione sacramentale di “vittima” sia riservata soltanto alle donne. Poco conta che la Costituzione sia di rango superiore rispetto alla Convenzione: così è, nella logica occidentale delle “discriminazioni positive”. Di consolante c’è almeno una nota tragicomica, sempre presente quando si tratta di disposizioni prodotte da un sistema in pieno degrado, e che dà la misura dello sbilancio etico in cui siamo costretti a vivere: nell’elencare le sale riunioni dell’INPS dedicate alle “donne uccise”, il documento dell’Istituto annuncia l’imminente intitolazione di una sala «anche ad Eleonora Manta, la giovane collega in servizio a Brindisi, uccisa il 21/9/2020 insieme al suo fidanzato». Che ovviamente, in quanto uomo, non solo non merita l’intitolazione di una sala, ma nemmeno di essere indicato per nome in un opuscolo.