Essendo nuovamente assurto agli onori della cronaca il caso Massaro-Apadula, ripubblichiamo qui un articolo pubblicato nel precedente blog in data 29 gennaio 2020. Ai tempi, esattamente come oggi, la nostra intenzione era far parlare le carte processuali disponibili (e poste in allegato in fondo all’articolo), da cui sono tratti tutti i virgolettati, integrando pochi commenti, essenzialmente per ricostruire la vicenda. Lo ripubblichiamo pressoché uguale, salvo qualche correzione e una revisione delle osservazioni finali, qui di seguito, ignari degli sviluppi successivi di cui probabilmente avremo notizia nelle prossime settimane. Oggi come allora restiamo aperti a repliche o smentite, nel caso avessimo pubblicato qualcosa di errato, cosa per la quale ci scusiamo in anticipo.
INIZIO (2007 / 2012)
Giuseppe e Laura si conoscono e si innamorano nel 2007. Iniziano a convivere in casa di Laura nel 2008. L. nasce nel 2010. «Un’inefficienza del metodo contraccettivo», dichiarerà poi Laura durante una CTU. Giuseppe invece dichiara un’altra cosa: «abbiamo deciso insieme di avere un figlio». Una divaricazione nelle rispettive narrazioni che già dice molto sull’esito della loro relazione. Che termina in modo conflittuale nel 2012, dunque quando L. ha due anni.
Sarebbe importante, per comprendere ciò che accade dopo la separazione, capire cosa non ha funzionato nella loro relazione. Niente capita per caso, tutto ha una causa e una preparazione. Dai documenti giudiziari non è possibile comprenderlo, mentre qualcosa, non molto in realtà, trapela dalle CTU. Si ha la sensazione che ci siano state alcune aspettative deluse, specie da parte di Laura. L’entusiasmo iniziale sembra essere evoluto col tempo in una forma di insoddisfazione. Giuseppe descrive se stesso come innamoratissimo quasi fino alla devozione per Laura, ma una delle CTU non manca di sottolineare che sia un uomo con «valori che si potrebbero definire in positivo come tradizionali». Sul lungo periodo questo probabilmente ha finito per pesare su una donna come Laura, che viene descritta come ancora molto dipendente dalla famiglia di origine e con significativi tratti di inquietudine e irrisoluzione interiori, per altro comuni a tantissime persone. Alla fine della storia, quali che siano i motivi, Laura «manifesta un profondo rancore nei confronti del sig. A., che lei stessa riconduce alle modalità con le quali si è strutturata la relazione di coppia ed alle frustrazioni conseguenti ai comportamenti del compagno non rispondenti alle sue aspettative» (Decreto Tribunale Ordinario 2014). Nel 2012, dunque, si separano. Giuseppe, così dichiara, cerca una chiusura concorde, proponendo un affido condiviso del figlio L. Laura no, vuole la giudiziale. Ma soprattutto vuole l’affido esclusivo del bambino. Quella è la scintilla che fa scoccare l’incendio.
CONFLITTO (2012 / 2015)
Di più non è dato ipotizzare sui motivi della rottura della relazione tra i due. Nel lungo percorso giudiziario che si innesca nel 2012 si presentano scenari diversificati. Laura infatti metterà Giuseppe in una situazione paradossale in cui, se il padre fa qualcosa per vedere L., viene accusato di atteggiamenti oppressivi, aggressivi, persecutori e talora violenti, arrivando a denunciarlo più volte in sede penale (denunce sempre archiviate perché prive di riscontro); se non fa nulla, viene accusato di disinteresse verso il bambino. Basta questo a qualificare la dinamica differente rispetto al puro e semplice concetto di conflitto genitoriale. Giuseppe decide in ogni caso di non restare con le mani in mano: preso atto che non fosse possibile concludere il rapporto in modo concorde, senza urti che ricadessero sulla vita di L., fin dall’inizio non esita a utilizzare le carte bollate. E fin dall’inizio è stata una deflagrazione, tanto che da subito il tribunale ordinario di Roma (decreto del 24/04/2014), a seguito di una CTU, decide che L. vada affidato ai servizi sociali, con collocazione presso Laura e diritto di visita per Giuseppe, e con una limitazione delle responsabilità genitoriali per entrambi, invitati a seguire un percorso di sostegno psicologico, che veniva suggerito anche per il bambino.
La CTU viene ferocemente contestata da Laura. Secondo lei la consulente ha interpretato l’intera situazione secondo la controversa teoria della Sindrome da Alienazione Parentale (PAS), dunque attribuendo al lato materno condotte manipolative. Per questo presenta istanza di ricusazione. I giudici però rigettano la sua richiesta senza mezzi termini, non perché sposino la teoria della PAS ma perché, dichiarano, «la CTU non ha preso alcuna posizione sulla validità o meno della tesi scientifica che accredita la sindrome da alienazione genitoriale». In effetti è così, la PAS non viene nominata da nessuno, è solo un’asserzione di Laura, una sua ipotesi, di fatto una formula che per qualche motivo le fa paura e che decide di usare come arma preventiva per far sentire consulenti e magistrati sotto accusa e sotto pressione. Un’arma che userà così tanto e così spesso da costringere i giudici della Corte d’Appello, nel successivo decreto del 2015, a specificare a chiare lettere, quasi a rassicurarla, che di PAS nessuno ha mai parlato se non Laura stessa, ma che di fatto il suo comportamento ostativo dei rapporti tra L. e suo padre «possono comportare disturbi che impediranno a L. di crescere e svilupparsi in modo sano», mentre occorrerebbe «evitare che attraverso il rifiuto del padre si vada strutturando una personalità disturbata».
Si decide di non decidere.
E Giuseppe? Ancora il decreto del 2014: «il padre, da parte sua, mantiene un atteggiamento sereno e collaborativo, sottolineando più volte alla madre che “non gli sembra il caso di parlare così davanti al bambino” e che “non è la situazione adeguata per fare polemica”». E così, in modo indifferenziato, si esprimeranno tutti gli altri decreti a riguardo, quello del 2015 come quello del 2019 e del 2020. Giuseppe mantiene toni bassi, conciliativi, si adegua a tutto ciò che le autorità preposte consigliano o dispongono con più o meno buona volontà. Trasversalmente in tutte le sentenze e CTU gli vengono rimproverate essenzialmente due cose: di aver ecceduto nelle segnalazioni, istanze e denunce, una pioggia di carte bollate che ha facilitato l’innescarsi di una spirale sempre più inestricabile di procedure e conflitti; e di aver una volta chiamato i Carabinieri perché da alcuni giorni non aveva notizie di L. L’ingresso dell’Arma in casa aveva profondamente turbato il bambino, alimentando una paura del papà che già gli era stata impiantata nel profondo. Al di là di queste criticità, però, Giuseppe è il padre che fa tutto ciò che è in suo potere per ripristinare un rapporto con suo figlio, senza eccedere o perdere la pazienza, ingoiando rospi anche importanti, come quando si prende 15 giorni di prognosi per un pugno ricevuto dall’ex suocero, che poi querela, ritirando però la denuncia per non esacerbare i conflitti.
Dunque Giuseppe è “buono” e Laura è “cattiva”, o viceversa? Teoricamente i giudici, per mestiere, dovrebbero decidere l’una o l’altra cosa. E come sempre in questi casi vanno in crisi. Sono consapevoli che non c’è una soluzione bianco/nero, ma un’unica necessità, ossia che Laura e Giuseppe assumano «un comportamento che favorisca l’accesso del figlio ad entrambi i genitori» (decreto 2014). Per raggiungere l’obiettivo fanno come tutti i giudici d’Italia in queste situazioni: dichiarano sussistere un conflitto troppo aspro tra i genitori e fanno intervenire terzi, i servizi sociali, come “cuscinetto” per dare un minimo di protezione al minore. Saranno i servizi sociali a provare a fare ciò che i due genitori, troppo compresi dalle loro strategie di guerra reciproca, non sono in grado di fare: proteggere il bambino e prendere le migliori scelte per lui, a partire da una terapia di sostegno psicologico. Quello dei giudici appare un atteggiamento ingiusto, da un certo punto di vista, perché è individuato chiaramente in tutti i decreti chi stia alimentando il conflitto in modo pressoché esclusivo, ma loro devono applicare la legge e quella vigente impone che al centro di tutto stia il minore e il suo diritto ad avere due genitori, a meno che uno dei due o entrambi non siano indegni o pericolosi per lui. Dunque fuori dai giochi i due litiganti, si decide di non decidere, se non tutto quello che serve e che si può fare per il piccolo L.
Assecondare i sentimenti positivi del bambino verso la figura paterna.
Laura non accetta queste disposizioni e fa ricorso alla Corte d’Appello, chiedendo anche un aumento dell’assegno di mantenimento da parte di Giuseppe. Il relativo decreto arriva nel luglio 2015, sono altri giudici a esprimersi rispetto ai precedenti e sono durissimi con lei. Come detto, sgombrano il campo dalle accuse che lei ha avanzato di applicazione della PAS nel caso in questione, dopo di che, sulla base delle risultanze dei servizi sociali, affermano con nettezza che «il diritto di visita e di frequentazione del padre con il figlio disposto con decreto dal Tribunale non è stato rispettato» e Laura, «strumentalizzando le condizioni cliniche del minore, non ha favorito i suoi incontri con il padre, sul rigido presupposto che, dovendo salvaguardare la salute del figlio, non possa forzarlo ad incontrare il padre, in quanto ciò scatenerebbe crisi di pianto nocive per il benessere fisico del bambino, iperteso e tachicardico». In effetti Giuseppe incontra con sempre maggiore fatica e sempre più raramente il proprio figlio. Ma perché si parla di “condizioni cliniche” per L.?
Il bambino non sta bene: dal 2014 ha sviluppato una patologia autoimmune detta “porpora di Schonlein-Enoch” per la quale ha subito alcuni ricoveri e deve seguire precise terapie contro l’ipertensione. Si tratta di una malattia rara ma non gravissima: va tenuta sotto osservazione con attenzione, ma è qualcosa che con la crescita e con una vita priva di stress è destinata a risolversi da sé. Così infatti accadrà nel corso degli anni. Ma in allora, dicono i giudici, la patologia è per Laura uno strumento per negare a suo figlio una relazione normale col padre, per lo meno secondo i dettami dei decreti del tribunale. Ma L. ha voglia di vedere suo padre? Ci sta bene insieme? Il suo approccio viene registrato durante gli incontri e riversato in sentenza: «l’incontro è terminato con fatica perché il bambino avrebbe voluto continuare a giocare con il padre e anche il momento del saluto è stato carico di affettuosità (il bambino ha salutato il padre con un bacio e con un abbraccio)». Tutto cambia quando L. vede la madre. Allora diventa ostile verso Giuseppe. «Nessuna colpa può essere addebitata al padre in relazione al comportamento del figlio», scrivono i giudici. E ancora: «il problema centrale non è quindi nella relazione tra L. e il padre, ma tra la madre e il figlio». Osservazioni così, anche più severe, sono innumerevoli nel decreto di Corte d’Appello del 2015. Ed è tutto questo che fa osservare agli analisti (citato in successiva sentenza Tribunale dei Minori del 11/10/2019): «negli anni L. ha subito pressioni psicologiche per rifiutare e rinnegare il padre, ma – nonostante questo lungo lasso di tempo vissuto in questa condizione psicologica coartante e restrittiva – la figura paterna è ancora in parte introiettata in L. e in questo si ravvede un valore prognostico positivo». Cioè a quel punto, nel 2015, sottraendo il bambino alle pressioni di Laura, è ancora possibile assecondare i sentimenti positivi che il bambino mostra verso la figura paterna.
L’ex compagno come l’incarnazione del Male.
Tutta la parte che precede le decisioni della Corte d’Appello è talmente dura da far presagire un disastro per Laura. Che in effetti alla fine si vede rigettato il proprio ricorso, negato un aumento dell’assegno di mantenimento, più un’ammonizione per non aver seguito le indicazioni del tribunale ordinario e aver negato a L. la possibilità di assecondare il proprio desiderio positivo verso il padre. Non solo: i giudici dicono a chiare lettere che, per come stanno le cose, il bambino dovrebbe essere subito allontanato da Laura e collocato presso il padre, previo periodo in casa-famiglia, garantendo poi alla madre un diritto di visita. Un vero e proprio ribaltamento della situazione, una decisione potenzialmente sconvolgente per Laura, che però non si realizza. Lo stato di salute di L. lascia la decisione della Corte d’Appello in sospeso: il cambio di fronte, per quanto indispensabile e urgente, non è possibile, dunque viene riconfermato quanto già deciso in precedenza, compresa la necessità per tutti gli attori di seguire un percorso psicologico di sostegno, atto a ottenere quel cessate il fuoco così necessario per il benessere di L.
PRECIPIZIO (2015 / 2018)
Laura ha rischiato grosso, dunque, e lo sa. Il problema di salute di L. l’ha salvata da un allontanamento da suo figlio, che i giudici hanno però apertamente auspicato usando argomentazioni basate su dati di fatto davvero difficili da smentire. Giuseppe ha avuto una tirata d’orecchi per la frequenza con cui si affida alle carte bollate, ma ha dalla sua l’evidenza dei numeri, quelli esigui con cui riesce a incontrare L., e che in parte giustificano il suo accanimento giudiziario. L., per parte sua, non mostra (ancora) una radicale ostilità verso il padre, anzi resisterà a lungo nel manifestargli aperture affettuose. Chiunque, al posto di Laura, di fronte a tutto ciò si sarebbe fermato un secondo a riflettere e a tentare di rivolgere le proprie sensazioni da se stessa al figlio, al suo benessere e alle indicazioni provenienti da un numero di soggetti troppo ampio e diversificato per poter realisticamente ipotizzare una congiura contro di lei. Alla fine del primo periodo di conflitti c’era insomma ancora spazio per un recupero che non mettesse a rischio la salute e il futuro di L. Sui piatti della bilancia c’erano un rospo da ingoiare, ossia mettersi d’accordo pacificamente con Giuseppe superando il passato e un risentimento inestinguibile, ormai così profondamente radicato da farle rappresentare l’ex compagno come l’incarnazione del Male. Qualcosa da cui lei e L. avrebbero dovuto stare lontani anni luce. Qualcosa accade in questo periodo, nelle riflessioni di Laura, che fa pendere la bilancia verso quest’ultima direzione.
Ecco allora che gli incontri tra Giuseppe e L. continuano a venire ostacolati con ogni mezzo, nonostante una serie di decreti del Tribunale per i Minorenni, tra il 2015 ed il 2019, in cui Laura viene ammonita a collaborare fattivamente ai programmi di riavvicinamento di L. al padre, fino a decidere di non farla più partecipare agli stessi incontri. Lei si appella ai problemi di salute, al rifiuto sempre più netto che il bambino, crescendo, oppone alla presenza del padre e che secondo lei è causata dalla «disfunzionalità della relazione padre-figlio», non da altro. Eccepisce poi sulla competenza dei giudici, contesta i risultati delle CTU (brandendo l’onnipresente PAS di cui nessuno fino a quel momento ha mai parlato), critica aspramente gli operatori e prende tempo presentando diverse denunce penali contro Giuseppe, che vengono tutte archiviate. «Le relazioni sugli incontri in spazio neutro tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016», registrerà poi un decreto successivo (Tribunale dei Minori, 11/10/2019), «evidenziano come il minore in alcuni incontri sia riuscito a giocare e a relazionarsi con il padre richiedendo peraltro la presenza della madre dalla quale si distacca difficilmente, ma gradatamente il minore ha assunto un atteggiamento oppositivo e di rifiuto verso la figura paterna dimostratasi sempre tranquilla, affettuosa, paziente, propositiva nelle attività di gioco da proporre». Insomma L. si allontana inspiegabilmente sempre di più da quella figura paterna che fino ai cinque anni veniva rilevata come “introiettata” e positivamente presente. E non pare che ciò gli giovi: «il minore manifesta una notevole sofferenza emotiva, appare bloccato nell’esprimere le proprie sensazioni positive/negative nei confronti della figura paterna». Vuole ancora un papà, ma il patto di lealtà che lo lega a Laura lo ostacola sempre di più. Trapela chiaramente dalle parole dei giudici: «Gli incontri proseguivano con il minore che non si staccava dalla madre pur accogliendo con lo sguardo il padre e rispondendo alle sue domande; quando andava via, anche dopo aver detto alla madre di voler tornare a casa, il minore manteneva lo sguardo basso, ma prima di andare via rivolgeva sempre uno sguardo al padre». Pur nel linguaggio da tribunale, è una scena che commuove: L. sembra chiedere aiuto a papà. O forse gli dà l’addio.
Verbali che suscitano rabbia, ma anche solidarietà.
A partire dal 2017 Laura aggredisce, denuncia e ricusa chiunque: giudici, assistenti sociali, CTU, operatori e ogni soggetto che non la assecondi nella versione dei fatti passati e presenti che più la convince. I giudici registreranno poi, tramite i servizi sociali, «il comportamento solo formalmente collaborativo della Massaro, che più volte ha evidenziato la sua sfiducia nei percorsi in atto manifestando la convinzione che non fosse necessario un accesso del minore ad entrambi i genitori, tanto da interrompere arbitrariamente i rapporti tra il minore ed il padre, attribuendo tale interruzione a problemi di salute del minore, adducendo quindi una pericolosità del padre non supportata da alcun reale elemento». Laura, dicono ancora i magistrati, pone in essere «condotte a più livelli di ostacolo all’accesso del minore alla figura paterna che viene proposta al figlio, da lei e dal suo contesto familiare, con messaggi svalutanti e denigratori, determinando inoltre un legame fusionale del minore alla madre alla quale è legato da un vincolo di lealtà». Ancora: nessuno parla di PAS, semplicemente si registrano dei fatti. La realtà è che in questa fase Laura non fa tesoro della batosta rischiata nel 2015, anzi spinge inspiegabilmente sull’acceleratore del conflitto. La sua guerra non è più solo contro Giuseppe e ogni possibile ipotesi che possa esercitare il proprio ruolo di padre, ma verso il sistema tutto intero. Non è casuale che proprio in questo periodo avvengano, su consiglio di un’assistente sociale, i suoi primi contatti con un centro antiviolenza di Roma. Numerosi giudici, consulenti e operatori l’avevano consigliata di far scendere il livello dello scontro, per il bene di L. Rivolgersi a entità che, come i centri antiviolenza, sui conflitti vivono e prosperano, non è stata una scelta saggia né coerente. Gli atteggiamenti di Laura, il suo approccio alla situazione, tutto quanto infatti si radicalizza e ideologizza, la querela (o la sua minaccia) diventa parte integrante del suo lessico, così come tanti altri slogan preconfezionati, tutti registrati nelle CTU più recenti. Insomma già l’incendio divampava: l’entrata in scena di un centro antiviolenza e di associazioni femministe attorno a Laura è stata una tonnellata di benzina gettata sulle fiamme.
Forse così è spiegabile l’accanimento di Laura in questo periodo. In questo senso è facile condannare lei e chi l’ha attorniata e consigliata per l’estremizzazione delle condotte che ha messo in atto, ma una lettura attenta ed empatica degli atti mostra anche un altro scenario. Quanto segue sono nostre osservazioni, quindi sicuramente opinabili, e come tali vanno prese. Pare che trapeli in modo netto dai documenti (poco da quelli giudiziari, moltissimo dalle CTU) una feroce lotta interiore in Laura. Psicologi e giudici diranno che «non è riuscita a mentalizzare la distinzione tra il ruolo di coppia ed il ruolo genitoriale sicché le valutazioni negative sull’ex compagno si riflettono sul predetto come padre». Può darsi, ma può esserci qualcosa di ancora più profondo. Da come parla, da come reagisce, si vede, anzi si sente che lei sa di essersi spinta ormai troppo oltre. Il meccanismo che ha innescato all’inizio, a partire dall’ormai lontano 2012, a ferite ancora aperte, l’ha agganciata e l’ha tirata dentro una corsa infernale che non riesce più a fermare. Sa che è tutto sbagliato e vede con i suoi occhi il proprio figlio annaspare stretto in una spirale che lei stessa ha annodato e alimentato sulla spinta di sentimenti di rivalsa la cui forza propulsiva è in realtà ormai spenta. Prevalgono in lei stanchezza e frustrazione. Non ne può più ed è affranta da ciò che vive e vede. Vorrebbe fermare tutto e scendere, ma sa che non può. Sia perché il mero conflitto di coppia è ormai diventato un mostro gigantesco e vorace fatto di toghe, consulenti, consigliere, suggeritrici, mass-media, sia perché per fermare le macchine le sarebbe indispensabile anzitutto ammettere (con se stessa e con gli altri) di aver ecceduto. Al di là del destino di L., si tratterebbe di accettare di aver sbagliato, ossia di veder crollare tutto intero il castello che si è costruita addosso. Si tratterebbe di svuotarsi di un ruolo più o meno artefatto che lei stessa e altri hanno costruito sulla sua persona e sulla sua vicenda. Significherebbe radere al suolo tutto e ricominciare da zero. Ci vuole coraggio per farlo e tanto amore generoso verso L. Laura non ha quel coraggio. Ha un amore sconfinato per L., questo è certo, ma non pare essere generoso quanto servirebbe per spingerla oltre. Ed è così che si percepisce, pur nella fredda narrazione dei verbali, quanto Laura stia male quando aggredisce la CTP di Giuseppe durante i colloqui. È esasperata dalla parte che deve recitare e che si è cucita addosso, con l’aiuto di un entourage dotato di un’assenza di scrupoli maggiore di quanta cattiva coscienza abbia (e ne ha moltissima). Leggere quei verbali suscita nell’immediato tantissima rabbia verso Laura, pensando alle conseguenze su L. Più profondamente, però, suscita anche molta solidarietà e vicinanza.
Tutti coalizzati contro di lei, pensa la Massaro.
Ma al di là delle empatie, occorre restare ai fatti. E i fatti di questo periodo descrivono un vero e proprio precipizio. È pienamente evidente che Laura persegue in modo implacabile la propria missione di creare una voragine non più superabile tra L. e Giuseppe. Perciò cerca di spianare come un caterpillar chiunque le si frapponga, e dove può allea a sé chiunque possa, anche oltre il lecito. È in questa fase che Giuseppe coglie una delle assistenti sociali incaricate di seguire il loro caso mettersi d’accordo con Laura per ostacolare gli incontri programmati con L. «Se non deve vedere il papà, non lo vedrà», scrive l’assistente sociale a Laura, modificando con lei il calendario degli incontri. Giuseppe segnalerà l’assistente sociale al suo Ordine di competenza, che la sanzionerà con un’ammonizione nel gennaio 2017. Forse anche questo frangente indurrà i giudici poi a togliere l’affido di L. ai servizi sociali per attribuirlo a un tutore unico. E L. in tutto questo come procede, come sta? Apparentemente bene. A scuola è un “secchione” con tendenze da leader, è educato e fantasioso. Ma in ogni circostanza in cui gli si nomina o gli si profila la figura del padre, crolla in crisi di pianto e a sconcertanti manifestazioni infantili di stress. Quell’immagine paterna che era stata vista “introiettata” in lui a 5 anni, verso i 7-8 anni è sempre più sbiadita. I giudici registrano così il dato di fatto: «emerge dagli atti la grave condizione di pregiudizio psicologico del minore, incastrato in un rapporto di lealtà con la madre che non gli permette di autodeterminarsi ed esprimere la sua volontà senza coercizioni, attesa la condotta della madre che volontariamente ed involontariamente non gli permette l’accesso alla figura paterna, dalla stessa – e dal suo contesto familiare – svalutata e ritenuta pericolosa. Anche nel corso della CTU la madre ha chiaramente espresso la sua rabbia ed il suo disprezzo per l’ex compagno. Tale condizione espone il minore al rischio di scissione psicologica – meccanismo presente nelle personalità borderline – allo sviluppo di un falso sé e di bassa autostima, alla sostituzione della figura patema. Il minore esprime il suo rifiuto verso la figura patema senza saperne indicare reali motivazioni nel corso del colloquio presso il TM evidenzierà di ritenere che il padre. non gli vuole bene, anche in tal caso senza saperne fornire le motivazioni». La condotta di Laura sta insomma devastando L., secondo i giudici. Quella discesa rapida intrapresa a partire dal 2015 ha portato a un precipizio. Sull’orlo del quale però non stanno né Laura né Giuseppe, ma solo ed esclusivamente il piccolo L.
RIBALTAMENTO (2019)
Giuseppe percepisce che la cancellazione della sua immagine dalla vita di L. è quasi ormai compiuta. Lo vede ormai occasionalmente, al telefono gli parla, sempre in vivavoce, ma lui non risponde, nonostante le sollecitazioni. Laura non fa nulla per facilitare la ripresa di una relazione normale con lui, e anche questo le verrà poi rimproverato. A ottobre 2018, nel corso di una CTU attivata tempo prima da Giuseppe in seno al Tribunale dei Minori, uno specialista gli legge quali danni potrebbe avere L. in futuro se la situazione non si risolve. Giuseppe a quelle parole scoppia a piangere e il suo scoramento viene registrato a verbale. Le ha provate tutte e sa che tanto tempo è passato dall’inizio di quel conflitto. L. ha quasi dieci anni ormai e da tanti non ha una relazione continuativa con lui. Oltre a essere orfano di padre, in molti sono convinti che il bambino sia ormai vittima di violenza psicologica da parte di Laura. E l’unica speranza che questa ipotesi venga smentita o confermata è proprio il procedimento in atto presso il Tribunale dei Minori. Durante il quale Laura dà il meglio di sé: nei colloqui in CTU si esibisce in scenate parossistiche, frasette smozzicate buttate lì con sarcasmo, provocazioni violente verso tutto e tutti. Appare come una furia, una donna estremizzata e fanatizzata, e l’assistenza dei centri antiviolenza e associazioni femministe ha certamente un ruolo in questo. Vede complotti e connivenze ovunque. Diffida di chiunque le faccia una domanda che non le piace e non riesce a non interpretare in modo sospettoso qualunque osservazione. Oppure, a seconda delle circostanze, fa la vittima, come se a creare tutta la situazione non fossero stati inizialmente proprio lei e Giuseppe, poi in via preponderante solo lei, ma i più di quaranta tra magistrati, specialisti, consulenti e assistenti sociali che si sono alternati a valutare la situazione. Tutti coalizzati contro di lei, pensa. Tutti corrotti da Giuseppe, tutti seguaci della PAS, e così via.
Atteggiamenti che non passano inosservati e vanno ad aggiungersi al peso di otto anni di procedimenti, a una malattia, quella di L., che è in via di risoluzione, sostituita da alcuni fenomeni ipertensivi durante il sonno tenuti sotto controllo dai farmaci, e a un feroce decreto di Corte d’Appello, quello del 2015, non applicato proprio per il problema patologico di L. Un decreto che resta lì, sospeso come una spada di Damocle sopra la sua testa. E che, lo si è detto, invece di suggerirle più miti consigli, l’ha indotta a intraprendere un conflitto a tutto campo. Il Tribunale dei Minori vede tutto questo, legge la relazione della CTU richiesta da Giuseppe, che risulta se possibile ancora più devastante per Laura. Tra le misure consigliate dalla CTU per risolvere la situazione c’è un punto che fa impressione a leggersi: «Affidamento super esclusivo al Sig. A.». È un consiglio tecnico, non una sentenza. Quella la emette il Tribunale dei Minori l’11 ottobre del 2019, disponendo «l’allontanamento del minore dalla madre e il suo collocamento presso il padre». Gli assistenti sociali forniranno personale specializzato per meglio inserire il minore nel nuovo contesto e per facilitare il recupero del rapporto tra padre e figlio. Il tutore si assicurerà che L. segua un percorso di recupero psicologico. Laura potrà incontrare L. una volta ogni 15 giorni in uno spazio neutro. Se necessario, prima di trasferirsi da papà, L. dovrà stare per almeno tre mesi in una casa famiglia, sempre assistito sul piano psicologico. Questo dice il decreto del Tribunale dei Minori. E poco dopo Laura finisce per strada armata di cartelli allarmanti, il suo volto va su tutti i media, così come la sua storia, narrata però dopo essere passata al filtro di chi l’ha affiancata e consigliata fino a quel momento. «”Vogliono togliermi mio figlio”. La battaglia di Laura Massaro», titola “Il Messaggero” il 29 ottobre 2019. Della battaglia di Giuseppe per rivedere suo figlio non si fa menzione. Del diritto di L. di avere un padre, oltre che una madre, nemmeno.
Nessuno ha mai parlato di PAS.
E mentre Laura porta una guerra che palesemente non è più sua, ma in cui è talmente invischiata da non potersene più tirar fuori, sui media, sui social e in TV, L. non va più a scuola. Mamma ha paura che glielo sottraggano all’improvviso, quindi rischia l’incriminazione penale conseguente all’elusione dell’obbligo scolastico. L’opinione pubblica interessata a queste vicende si informa come può, cioè sui media e sui social, e inevitabilmente si schiera, creando due fazioni che combattono aspramente. Gli inquinamenti così non mancano: entrano in gioco gli abusologi da strapazzo, gli anti-PAS, i pro-PAS, i No-Pillon, i sì-Pillon, tutto si radicalizza e ideologizza e pochi, tranne chi ha vissuto la vicenda o ha letto le carte, sa la verità delle cose. Il precipizio insomma è ormai ampiamente superato e tutto è in caduta libera. L’unico a rimanere defilato è Giuseppe, che rimane a lungo irreperibile sui social. La figura di Laura Massaro, l’eroina che lotta contro la sottrazione del proprio figlio, sovrasta tutto. Solo nel gennaio 2020 Giuseppe farà capolino su Facebook, da dove diramerà pochi e misurati comunicati stampa, ignorati da tutti. Così come i media che danno conto della vicenda ignorano che nel dicembre 2019 Giuseppe ha un colloquio programmato con gli assistenti sociali, che alla fine verbalizzano così: «nel secondo incontro col padre, nel suo domicilio, lo stesso ha affermato di essere disponibile a fare in modo che, se il bambino stesse con lui, possa incontrare la madre molto più spesso di quanto previsto dal Decreto del Tribunale per i Minorenni». Così Giuseppe rende visibile un solco rimasto nell’ombra per otto lunghi anni di guerra ferocissima. Laura non vuole che L. abbia un padre. Giuseppe, anche dopo il trionfo ottenuto presso il Tribunale dei Minori, vuole che L. abbia un padre e una madre.
RESTAURAZIONE (2020)
Solo il 12 dicembre 2019 si prova a prendere L. e portarlo da Giuseppe, ma in casa non c’è nessuno. Nel frattempo Laura, con i suoi legali, ha fatto ricorso alla Corte d’Appello contro la decisione del Tribunale dei Minori. L’udienza si tiene il 17 dicembre 2019, secondo una procedura che non prevede altre partecipazioni se non quelle delle parti in causa. Lì avviene qualcosa che apparentemente sembra un siparietto, ma in realtà è qualcosa di molto più grave. A un certo punto durante l’udienza si palesa Veronica Giannone, parlamentare alla Camera dei Deputati eletta nel Movimento 5 Stelle, da cui poi è stata espulsa. Si era già distinta, la Giannone, per le sue posizioni anti-PAS e per essersi interessata attivamente alla vicenda di Laura Massaro, fino a spingersi a chiedere al Ministero della Giustizia, quale membro della Commissione Bicamerale per la tutela dell’Infanzia e dell’Adolescenza, l’invio di ispettori per verificare le condotte, a suo dire irregolari, dei magistrati di Roma che ne seguivano il procedimento. Il Ministero non l’aveva assecondata, e ugualmente il collegio della Corte d’Appello, preso atto della non liceità della sua presenza, la invita a uscire dalla stanza dove si stava discutendo il caso. Cosa è stata quell’entrata in scena? C’è chi ritiene si sia trattato di un grave tentativo di ingerenza. E se davvero di un’invasione di campo si è trattato, essa è derivata direttamente dal clima iper-ideologizzato e radicalizzato determinato dalla mediatizzazione spinta della vicenda voluta da Laura. Uno di quei contesti dove la peggiore politica sguazza allegramente, e infatti non è solo la Giannone ad appigliarsi a Laura per avere visibilità. Molte altre si sbilanciano, pur senza arrivare al coinvolgimento personale ma limitandosi a intossicare ulteriormente il clima con dichiarazioni sui media: Valeria Valente e Valeria Fedeli del PD, e Laura Boldrini (LEU) tra le prime, che colgono l’occasione per tuonare contro la PAS, sebbene nessuno nei processi e nelle consulenze del caso Massaro ne avesse mai parlato.
Un’ulteriore possibilità per Laura.
In questo clima matura il decreto d’appello, salutata da Laura Massaro e dal suo ormai folto entourage come una sua “vittoria” e una sconfitta del concetto di “PAS”. E davvero di vittoria si tratta se così si vuole interpretare il fatto che L., così decidono i giudici, rimarrà con Laura. E i giudici lo decidono in un decreto che è tutto da leggere. Perché è lunare. Nel ripercorrere la vicenda fino alla sentenza del Tribunale dei Minori di ottobre, i magistrati aderiscono a tutto quanto è stato elaborato e concluso fino a quel momento. Non possono fare altrimenti, trattandosi di fatti ormai verificati e accertati. Salvo poi, dalla pagina 15 del decreto, smontare pezzo per pezzo il cuore delle decisioni prese due mesi prima dal Tribunale dei Minori: l’allontanamento di L. dalla casa materna non si fa più, sarebbe troppo traumatico. E poi L. non si può spostare perché è ancora molto malato, e per dimostrarlo si cita una relazione di parte (materna). «Ne consegue», dice la sentenza, «che il provvedimento è viziato anche dal mancato bilanciamento tra il rischio psicopatologico e quello derivante dalla patologia fisica». Che però, lo si è detto, fatti salvi i fenomeni di ipertensione notturna, non esiste quasi più. Non solo: «Se, inoltre, è vero che la denuncia sporta dalla signora Massaro nei confronti del Sig. A. per condotte abusanti verso il figlio non è stata ritenuta fondata, la reclamante manifesta ancora oggi la soggettiva convinzione della fondatezza del contenuto della sua denuncia». Cioè le denunce di Laura sono state tutte archiviate, però lei crede ancora che gli abusi ci siano stati. Inserire in una sentenza questo fatto totalmente irrilevante in linea generale e in termini giuridici significa voler introdurre il principio, di per sé sovversivo, del “believe women”, tanto caro al femminismo. È qualcosa che lascia esterrefatti, oltre che indignati. Ancora i giudici d’Appello ammorbidiscono la durezza del decreto precedente in questo ugualmente incredibile passaggio: «ella agisce nella soggettiva convinzione di stare operando per il bene del figlio, e per questo si espone al rischio di conseguenze personali anche gravi, come evidente da ultimo dalla sottrazione del bambino dalla frequenza scolastica». Per il decreto Laura è quasi un’eroina, che rischia il penale, convinta com’è di fare il bene di L. Per questi motivi, dice il decreto, tutto resta come prima: il tutore, la sospensione delle responsabilità genitoriali, le visite del padre che, si raccomanda la sentenza, devono essere garantite, il percorso psicologico per L. e per Laura, ché ne hanno tanto bisogno ma… ma L. non si muove dalla casa materna. Se mai accadrà sarà tra molto molto tempo.
Che cos’è questo decreto? Bisogna leggerlo attentamente per dare una risposta. E bisogna leggerlo comparandolo a quelli precedenti. Non c’è pressoché nulla di giuridico in esso. Dispositivo a parte, sembra più una relazione da assistenti sociali, o sociologi, o psicologi. Nella parte finale immediatamente precedente al dispositivo prende addirittura i toni da predica edificante. Chi ha letto tutte le carte ritiene che non sia casuale. I giudici hanno, con questa sentenza, voluto dare un’ultima chance a Laura perché dia la possibilità a L. di avere un padre, senza pagare eccessive conseguenze per aver dato l’avvio e alimentato una guerra ferocissima durata otto anni e condotta proprio sull’anima del figlio. Un intento nobile quello dei magistrati, se davvero è così. Nobile ma tardivo. L. ha ormai dieci anni e recuperare i danni fatti è difficilissimo adesso. Il Tribunale dei Minori aveva già segnalato che si era ben oltre il tempo massimo e che occorreva sottrarre il bambino dall’influenza materna con grande urgenza. La CTU aveva parlato di “affido super esclusivo” al padre, addirittura. Invece si manifesta ancora la tendenza usuale: c’è conflitto tra i genitori, non si può decidere, dunque lo si collochi da mamma, il papà faccia il visitatore e per le cose importanti decida un tutore. Ma dopo otto anni, ancor più con le evidenze raccolte e l’urgenza di un bambino che giudici precedenti non esitano a definire vittima di violenza psicologica, un tribunale dovrebbe essere in condizione di fare il proprio mestiere e decidere in modo netto chi ha ragione e chi ha torto. Invece le due giudici d’Appello fanno raggiungere l’apoteosi a questa vicenda e danno un’ulteriore possibilità a Laura, anche se questo potrebbe comportare ulteriore danno per L.
La PAS inesistente e un padre sistematicamente diffamato.
Al momento si registra, dalle manifestazioni social di Laura Massaro (appelli, sciopero della fame, sostegno dei soliti politici), che qualcosa di nuovo dev’essere accaduto. Qualcosa finalizzato a restituire un padre a L. Non abbiamo dettagli in merito, ma il tipo di esposizione scelto nei giorni scorsi da Laura Massaro lo lascia concretamente pensare. Si può definire ormai come certificato che la personalità di L. è stata sbattuta a destra e a manca, schiacciata e stropicciata in una guerra non sua. Che il conflitto prosegua o meno ormai cambia davvero poco, bisogna solo augurarsi che Laura capisca ora ciò che avrebbe dovuto capire già nel 2015 e conceda a suo figlio il diritto ad avere un padre; che Giuseppe misuri le proprie iniziative future, se deciderà di prenderne, in modo da sottoporre suo figlio al minore stress possibile, e che L. abbia la forza, da solo o con l’aiuto di specialisti, per ricostruirsi una propria individualità il più possibile indipendente da tutto ciò che è stato costretto a vivere. Un disastro relazionale in cui le responsabilità sono da ogni parte, ma indubbiamente da un lato molto più che dall’altro. E non è un’opinione di chi scrive ma di tutti coloro che hanno messo ufficialmente e istituzionalmente mano a questa storia. Che, a dispetto degli strepiti di vittoria sbandierati ovunque, ha un solo grande sconfitto: un bambino, L., figlio di Giuseppe A. e Laura Massaro. Una sconfitta che va risarcita, restituendo al giovane ragazzo il suo diritto di avere vicino una figura materna e una figura paterna capaci di occuparsi con maturità e positivamente della costruzione del suo futuro.
OSSERVAZIONI (2021)
Sono numerosissimi gli aspetti anomali di questa vicenda, in proporzioni crescenti mano a mano che essa è andata politicizzandosi e mediatizzandosi. Sotto questo profilo il tutto è avvenuto sulla base di argomenti-perno collegati: la denuncia dell’uso della teoria della PAS come strumento per togliere i figli alle madri e consegnarli a padri ed ex mariti violenti. Il teorema è che l’uomo violento e maltrattante, dopo la separazione, riesca a danneggiare ulteriormente l’ex moglie “togliendole i figli” con il pretesto di una teoria psichiatrica ancora molto discussa e nonostante questo adottata da tribunali e CTU. Il teorema è letteralmente esploso nei giorni scorsi a seguito di un pronunciamento della Corte di Cassazione, di cui ci occuperemo nei prossimi giorni, che stroncherebbe l’utilizzo della PAS come parametro di valutazione all’interno delle separazioni conflittuali. Si vedrà che, in questo caso come nei precedenti, è in buona parte soltanto una montatura mediatica: la Cassazione non fa che fotografare un dato di fatto, ovvero che la teoria accademica della PAS è controversa e non andrebbe usata in ambito forense. I media, i politici e la stessa Massaro hanno esaltato questo aspetto, ignorando la realtà dei fatti: da molto tempo ormai nessuno più parla di PAS nei tribunali, né i giudici né le CTU. Nella stessa vicenda Massaro-Apadula, per lo meno nelle carta analizzate, non a caso non se ne fa mai menzione. Ma se da un lato l’aspetto “medico” è tramontato già da tempo, dal lato delle condotte pratiche censurabili resta più che possibile la registrazione di comportamenti atti a manipolare un minore addestrandolo a odiare l’altro genitore. Niente di più facile: in certi paesi i bambini vengono addestrati a farsi esplodere, ad uccidere, a prostituirsi, figuriamoci quanto può essere agevole persuaderli a odiare una determinata persona. Dal lato delle condotte rilevanti dal lato giudiziario, dunque, questo aspetto resta e la pronuncia della Cassazione non lo scalfisce minimamente. Applicato al caso in questione, per anni un alto numero di diversi magistrati e consulenti ha registrato gli impedimenti frapposti da Laura Massaro a un normale rapporto tra il figlio L. e l’ex marito nonché padre di L. Sindrome o no, anzi sicuramente no, si tratta di un comportamento scorretto, come tale riconosciuto da tutti.
C’è poi l’altro versante del teorema: l’uomo violento e maltrattante. Chi oggi strilla dai social e dai media pone un accento virulento su questo aspetto: la PAS favorisce padri che i figli non vogliono più vedere perché memori delle loro violenze. Nella schiacciante maggioranza dei casi però di quelle violenze non c’è mai traccia. In media ogni anno in Italia, da dieci anni, vengono condannati meno di 2.000 uomini per maltrattamenti in famiglia, su un totale di denunce di più di 14.000, ovvero l’85% di esse viene archiviato o finisce in assoluzione (dati Ministero della Giustizia, tramite ISTAT). Le percentuali non cambiano per altri reati simili (percosse, lesioni) ed è pressoché certo, anche se mai accertato dal lato statistico, che quello sproposito finito in nulla sia costituito da false denunce maturate in ambito separativo. Nel caso in questione, Giuseppe Apadula, ex marito di Laura Massaro e padre di L., è stato denunciato innumerevoli volte per una molteplicità di reati e non una volta le denunce a suo carico sono finite in procedimento. Tutte archiviate, sempre, dopo essere state esaminate da magistrati inquirenti diversi e dopo le indagini previste per legge. Giuseppe Apadula è pulito. Eppure se si va a leggere pressoché ogni articolo relativo alla vicenda qui sintetizzata, egli viene rappresentato, in modo implicito o esplicito, come violento o maltrattante. Che si tratti di interviste alla Massaro o di articoli pubblicati sotto la dettatura dei centri antiviolenza che la seguono, Giuseppe Apadula è sempre, per sentenza mediatica, colpevole di violenze, abusi sessuali su minore, maltrattamenti e quant’altro. Emerge da tutto questo la mostruosità della situazione, voi che leggete la riuscite a percepire? Mettetevi nei panni di Apadula: zero condanne giudiziarie, ma sistematicamente rappresentato come colpevole delle peggiori cose. È più grave e indegno di un paese civile questo o una sentenza di Cassazione che registra qualcosa di già ampiamente accettato? È accettabile che in Italia ci sia una persona che vive gran parte della sua vita chiedendo rettifiche ai vari media, qualche volta ottenendole ma il più delle volte no, con il connesso obbligo di presentare querela per diffamazione? Non è accettabile, ma accade perché è strumentale a una narrazione delirante, eversiva dei più normali intoccabili equilibri istituzionali, a partire dalla non interferenza tra politica e magistratura, oltre che dei diritti più basilari dell’individuo. A partire da quelli di un minorenne, da tempo privato proditoriamente dell’amore e della figura di un padre.
ALLEGATI