Thorstein Veblen (1857-1929) è stato un economista e sociologo statunitense. La sua opera principale, La teoria della classe agiata (1899), è una pietra miliare nella disciplina di sociologia. In questa opera Veblen sostiene che la proprietà privata non risponde solo a necessità di sussistenza, ma va interpretata come un segno di distinzione e di prestigio sociale. Per questo la ricchezza non viene solo accumulata, ma mostrata in società attraverso l’ostentazione di beni costosi. Ciò che è rilevante mettere in evidenza del pensiero di Veblen, per la tematica che a noi interessa, è l’accomodamento della narrazione femminista, accettata dall’autore, all’interno della sua tesi: gli uomini concepiscono le donne come oggetti di proprietà privata da ostentare, pari al bestiame o alle proprietà immobili. Nell’intervento precedente è stato spiegato il fenomeno del maschipentitismo, di cui oggigiorno il mondo è pieno di esempi. Seppur il trionfo e la diffusione nel mondo occidentale di questo fenomeno sia evidente, sarebbe un errore confinarlo soltanto all’attualità. Il maschipentitismo è nato contemporaneamente al femminismo, i primi uomini che hanno aderito acriticamente alle idee femministe sono stati i primi maschipentiti. E come è successo anche con il femminismo, si è trattato all’inizio di un fenomeno minoritario. Non guasta ricordare che sono principalmente degli uomini durante l’Ottocento (Stuart Mill, Engels, Bachofen…) a conferire al femminismo la sua attuale struttura teorica, i primi maschipentiti, alcuni di loro già approfonditi in interventi precedenti.
Ho scelto Thorstein Veblen come modello di maschipentitismo per due motivi: 1) si tratta di un eminente economista e sociologo che non mette al primo posto nel suo discorso accademico la condizione della donna (al contrario di quello che avviene ad esempio nelle opere di Stuart Mill o di Engels). La questione di genere viene inserita in maniera periferica all’interno del suo pensiero (a dimostrazione di come il punto di vista femminista possa essere inserito e “contaminare” qualsiasi disciplina di studio). 2) Veblen si muove tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, contemporaneo al femminismo della prima ondata (come Virginia Woolf, ad esempio), dunque molto lontano dall’influenza e dalla pressione del femminismo attuale. Nel suo discorso Veblen abbraccia la tesi di Friedrich Engels. Ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Engels aveva sostenuto che con la nascita della proprietà e della famiglia la donna era diventata schiava dell’uomo. Scrive Veblen: «Nelle prime fasi della civiltà di rapina la sola differenziazione economica è una profonda distinzione fra un’onorata classe superiore costituita dagli uomini capaci e un’ignobile classe inferiore di donne operaie. In armonia con lo schema ideale di vita in vigore a quel tempo, tocca agli uomini consumare quello che le donne producono. Quel consumo che tocca alle donne è puramente casuale per l’opera loro; è un mezzo di continuare il lavoro, non un consumo diretto al benessere e alla pienezza di vita. Il consumo improduttivo di beni è onorevole in primo luogo come segno di coraggio e come requisito di umana dignità; in secondo luogo esso diventa sostanzialmente onorevole in se stesso, specie il consumo delle cose più desiderabili. Il consumo di generi di cibo prelibati e spesso anche di articoli di abbigliamento rari diventa tabù per le donne e i bambini; e se c’è una classe ignobile (servile), il tabù vale anche per costoro».
La “schiavitù di lusso”…
Ad un certo punto però la situazione evolve, «…l’istituzione della proprietà [è] cominciata con la proprietà delle persone, principalmente delle donne. […] Donne e schiavi sono altamente quotati, sia come segno di ricchezza che come strumenti per accumulare ricchezza. Insieme al bestiame, se la tribù è di quelle dedite alla pastorizia, esse sono la forma usuale d’investimento a profitto. A tal punto le schiave possono dare un carattere alla vita economica nella cultura quasi pacifica, che la donna diventa perfino un’unità di scambio fra genti che si trovino in questo stadio culturale – per esempio, ai tempi di Omero. Dove così stanno le cose, è fuori questione che la base del sistema industriale è la riduzione a capo di bestiame e che le donne sono tutte quante schiave. Il grande rapporto umano che tutto assorbe, in tale sistema, è quello esistente fra padrone e servo. La prova di ricchezza riconosciuta valida è il possesso di molte donne, e ben presto anche di altri schiavi occupati a curare la persona del loro signore e a produrre per lui dei beni. Comincia ora una divisione del lavoro, in cui il servizio e la cura della persona del padrone diviene l’ufficio speciale di una parte dei servi, mentre quelli che sono interamente occupati in lavori industriali veri e propri vengono sempre più allontanati da ogni relazione immediata con la persona del proprietario. […] Questo processo di progressiva esenzione dalle comuni occupazioni industriali comincerà di regola con l’esenzione della moglie o della prima moglie». Dunque, in un primo momento le donne sono tutte schiave (vedasi come l’autore, così come fa il femminismo, spezza il concetto di umanità, quando elenca «donne e schiavi», termini non paragonabili, come se le donne fossero un gruppo sociale al di fuori dell’umanità e fosse implicito all’interno del termine «donne» il concetto di «schiavitù». In pratica quello che vuole intendere l’autore quando parla di schiavitù è «donne e alcuni uomini», ciò che esclude in automatico il termine «donne» tra i padroni). Dopodiché arriva la «divisione del lavoro», aumenta la ricchezza e la schiavitù non ha bisogno di essere unicamente di produzione, ma diventa anche schiavitù domestica, che pian piano esenta dal lavoro le donne di casa.
L’esenzione dal lavoro non libera però la donna dalla schiavitù. Si tratta di una schiavitù diversa. «L’agiatezza del servitore non è un’agiatezza veramente sua. […] la sua agiatezza è normalmente considerata un servizio […] diretto a favorire la pienezza di vita del padrone […] rapporto di sottomissione […] ciò che spesso è pure vero per quanto concerne la moglie nel prolungato stadio economico durante il quale essa è ancora principalmente una serva – vale a dire, per tutto il tempo che resta in vigore la famiglia con un maschio alla testa». «…mentre una parte della servitù produce per lui dei beni , un’altra parte, generalmente capeggiata dalla moglie, o dalla favorita, vive per lui in vistosa agiatezza; facendo con ciò vedere che egli può sostenere grandi spese senza tuttavia intaccare le sue grandi ricchezze». L’autore spiega il motivo del cambiamento, «… la tradizione patriarcale – la tradizione per cui la donna è un oggetto – ha conservato il suo massimo peso. […] questa tradizione dice che la donna, essendo un oggetto, dovrebbe consumare solo ciò che è necessario per il suo sostentamento – eccezion fatta per ciò che il suo più largo consumo giova al benessere e alla buona reputazione del padrone. Il consumo di generi di lusso, nel senso vero, è un consumo diretto al benessere del consumatore stesso, ed è perciò un segno di signoria. Un tale consumo fatto da altri può aver luogo soltanto per tolleranza».
Una teoria vaccinata.
La donna non è più schiava di produzione, che «dovrebbe consumare solo ciò che è necessario per il suo sostentamento» come qualsiasi schiavo di produzione, ma diventa una schiava di lusso. La vita agiata della donna è permessa e motivata dalla volontà di ostentazione dell’uomo, che fa sfoggio della sua ricchezza e del suo potere mediante le donne. «È uno spettacolo per nulla insolito quello di un uomo che lavora con la massima assiduità affinché sua moglie possa rappresentare per lui nella forma dovuta quel grado di agiatezza secondaria che il senso comune dell’epoca richiede». Qualsiasi altra spiegazione che possa illuminare sul comportamento maschile, come ad esempio l’amore per la propria donna e la propria famiglia, è esclusa. Veblen non considera il lavoro dell’uomo un sacrificio altruistico per qualcun altro, ma un’attività esercitata solo per tornaconto. L’ostentazione maschile è l’unico motivo. Motivo che non spiega il perché dell’esistenza di certe economie domestiche mandate in rovina dalle spese folli per l’abbigliamento o per gli ornamenti da certe donne di casa. In questi casi storici e reali non sembra che le spese fossero «tollerate» dall’uomo, in preda di un’esibizione affettata, ma al contrario sembra che il potere decisionale di spesa ricadesse unicamente sulle donne.
In conclusione, il pensiero principale di Veblen può essere riassunto da questo paragrafo dell’autore: «Cosicché, come estremo prodotto dell’evoluzione di un arcaico istituto, la moglie, che all’inizio era la serva e l’oggetto dell’uomo, sia in fatto che in teoria – la produttrice di beni che lui consumava – è diventata la consumatrice cerimoniale dei beni che lui produce. Essa, però, rimane ancora inequivocabilmente una sua proprietà in teoria; poiché rappresentare abitualmente agiatezza e consumo derivati è il segno permanente del servo non libero». Siamo di fronte a quello che il filosofo Karl Popper definiva una “teoria vaccinata”, non c’è via di scampo: ora perché produce e non consuma, ora perché consuma e non produce, non importa quale sia il comportamento messo in atto dalla donna, lei rimane la vittima, la schiava, la serva. Ragionamento speculare se l’applichiamo all’uomo: quando l’uomo consuma il frutto del lavoro della donna, allora è il padrone; quando invece deve produrre perché la donna possa consumare il frutto del suo lavoro, allora rimane pur sempre il padrone. Un ragionamento circolare al di là della logica, dei ruoli o della inversione dei ruoli dei due attori che trova nelle conclusioni conferma delle premesse : la donna è la vittima, l’uomo il colpevole. (Prosegue domenica prossima)