Durante le mie letture sulla storia del movimento femminista mi ha sempre stupito il fatto che, malgrado le numerose tipologie di femminismi elencati, non ci fosse mai un femminismo fascista, o femminismo nazista, o nazifemminismo, o come lo si voglia chiamare. Il femminismo, ideologia fondata sulla presunta innocenza e vittimizzazione della donna e sulla colpevolizzazione dell’uomo, così come il maschilismo, atteggiamento fondato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna, propongono visioni del mondo che sono perfettamente compatibili con pressoché qualsiasi altra ideologia, sono visioni del mondo che lasciano spazio alla trasversalità. Ci sono maschilisti comunisti, socialisti, fascisti, liberali, capitalisti, cristiani, buddisti, ecc. Parimenti esiste un femminismo proletario, un femminismo borghese, femminismo liberale, femminismo socialista, anarcofemminismo, femminismo coloniale, femminismo marxista, femminismo cristiano, femminismo islamico, ecc., ma non esiste un femminismo fascista. Eppure la fotografia della femminista Margherita Sarfatti (1880-1961) facendo il saluto romano sulla scaletta dell’aeroplano è inequivocabile. Come definire le note femministe Mary Richardson o Mary Allen affiliate al partito fascista britannico o la nota femminista spagnola Mercedes Formica, inserita dalla prima ora nei quadri del movimento franchista?
I movimenti di estrema destra furono sempre molto femministi. Si presentavano come garanti dei diritti delle donne e custodi di valori condivisi dal femminismo conservatore (tutela economica e protezione). Assieme alla corrente principale del femminismo dell’epoca, celebravano la maternità come il più alto compito femminile, dovere naturale che avrebbe risvegliato il “cuore materno” per la gente del popolo, «nobile dovere» che secondo la femminista svedese Ellen Key doveva essere sostenuto tramite un pagamento statale. Infatti, «il fascismo» fu il «primo movimento a creare un apparato assistenziale e previdenziale a favore delle donne, identificate come un gruppo sociale al quale andavano indirizzate specifiche misure e azioni politiche di tutela» (La grande menzogna del femminismo, p. 617). Inoltre promuovevano il diritto di voto delle donne. In Italia il voto femminile faceva parte del programma fascista. Nel 1923 Mussolini introdusse il voto amministrativo femminile. Già prima di lui, durante l’occupazione della città di Fiume, D’Annunzio aveva dichiarato «la parità tra i sessi». In Spagna fu il dittatore Primo de Rivera a introdurre il voto femminile amministrativo nel 1924. Finita la dittatura, con l’avvio della Repubblica, di nuovo la Falange (i fascisti spagnoli) e il suo leader José Antonio Primo de Rivera chiedevano il voto per le donne. C’è una linea di continuità tra i gruppi fascisti e i gruppi più ultraconservatori sudisti degli Stati Uniti che rivendicavano il diritto di voto delle donne nel XIX secolo.
La pretesa superiorità morale.
«Chiunque non capisca la natura intrinsecamente femminile delle masse non sarà un efficace oratore. Prova a chiederti che cosa si aspetta una donna da un uomo: chiarezza, decisione, energia ed azione. […] le donne costituiscono l’elemento più importante in un pubblico. Di solito sono le donne che guidano, poi seguono i bambini e per ultimo… seguono i padri», queste erano le parole con le quali Hitler si rivolgeva al suo pubblico. E le donne risposero favorevolmente. Le donne erano le principali partecipanti agli incontri nazisti, sedevano in prima fila, e alle elezioni lo votarono in maggior numero degli uomini. Se prima della Depressione il partito nazista era votato prevalentemente da uomini, questa situazione mutò completamente dopo il 1930. In un periodo di depressione economica, per la maggior parte delle donne l’aspirazione al raggiungimento dell’indipendenza economica dimorava molto più lontana dal desiderio di sottrarsi alla povertà e al lavoro in fabbrica, incombenze che venivano cedute molto volentieri agli uomini. Integrate nel nazismo, molte di queste donne erano convinte di lavorare per i diritti delle donne e di nobilitare le virtù femminili, che risiedevano per loro stesse nella maternità, nella protezione della famiglia e della casa e nella moralità. In un’intervista nel 1981, la leader della NSF, Gertrud Scholtz-Klink, investita all’epoca del titolo di Reichsführerin, dichiarava: « creò un ministero per i diritti delle donne. La mia divisione femminile era responsabile delle decisioni che riguardavano le donne. Eravamo quasi uno Stato nello Stato. Nel mio ministero dirigevo dipartimenti di economia, educazione, questioni coloniali, consumo e salute, istruzione e welfare. Nessun uomo interferì mai sulle nostre decisioni; facevamo quello che volevamo.»
La prima ondata femminista è stata popolata da donne economicamente benestanti, aristocratiche e borghesi, e, soprattutto, da donne figlie del loro tempo: colonialiste, nazionaliste, razziste, antisemite, eugeniste… L’adesione all’ideologia femminista, all’idea che la donna è la vittima e l’uomo colpevole, non rende le persone migliori né le isola da altre visioni del mondo in quel momento socialmente dominanti. La partecipazione di queste donne all’idea di una presunta superiorità della razza bianca o ariana non precludeva loro l’idea che, all’interno della propria razza, le donne fossero “schiave” degli uomini. La pretesa superiorità morale, che queste donne si attribuivano, si giudicava in funzione alla moralità dell’epoca: allora per loro i vizi “maschili” erano l’alcool o la prostituzione; la “sana schiavitù” o il “sano antisemitismo” o il disprezzo per le classi sociali inferiori non meritavano per la società lo stesso biasimo morale. Finita la Seconda guerra mondiale, questi valori – colonialismo, razzismo, eugenetica… –, prima accettati e tollerati, divennero moralmente inammissibili, e questo tipo di femminismo svanì. L’opera di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, pubblicata nel 1949, non si accontentò di bandire definitivamente questo modo di pensare all’interno del femminismo, criticò ferocemente molti dei valori retrivi che questo femminismo rappresentava: la famiglia, la maternità e i figli.
Gli imbarazzi della storiografia femminista.
Il femminismo si autodichiara un movimento redentore, le femministe sarebbero pervase da un aura salvifica. Inoltre la stessa ideologia dichiara l’innocenza della donna per ogni male del mondo, generato dal Patriarcato, ciò che tende per forza a divinizzare la figura femminile. È inevitabile che di fronte a un bagno di realtà la Storiografia di genere faccia fatica a riportare integramente il pensiero e l’agire di molte di queste figure storiche del movimento. Queste donne non erano delle sante immacolate da peccato, erano anche loro degli esseri umani, con il proprio lato oscuro. Per questo motivo in nessun momento la Storiografia di genere si preoccupa di informare se le domestiche, le cameriere, le inservienti, che lavoravano nelle case di queste femministe benestanti, di queste eroiche pioniere, o se le serve e le schiave nere che vestivano Rossella O’Hara, erano anche loro femministe. Le loro risposte sarebbero forse fin troppo imbarazzanti. Concludo con le parole del noto abolizionista Frederick Douglass (1818-1895), durante la conferenza dell’American Equal Rights Association (AERA) di 1868, che sintetizzano molto bene gli sforzi e le difficoltà di questo periodo storico: le campagne per il voto femminile «rischiano al massimo il ridicolo», invece un uomo di colore che richiede il suo diritto di voto «rischia il Ku Klux Klan e le autorità che lo cacciano e lo uccidono».
P.S.: Mi è stata sollevata gentilmente una critica ai miei interventi sulla prima ondata femminista. Nei miei interventi mi sarei occupato unicamente del femminismo borghese, ignorando altri tipi di femminismo contemporanei esistenti. È vero. Nel prossimo intervento cercherò di spiegare la mia scelta e di analizzare brevemente gli altri tipi di femminismo.