Molte persone associano in maniera spontanea l’eugenetica al nazismo. Questa associazione non risulta così immediata quando si parla di femminismo, eppure la relazione tra l’eugenetica e il femminismo fu di amore a prima vista. La storiografia di genere la menziona en passant oppure la sorvola, quasi fosse un tentativo d’occultamento, un’onta da cancellare, un’eccezionale circostanza. Si trattò invece di una deriva logica, la naturale conseguenza del pensiero suprematista razziale: se la maggior parte delle suffragiste sosteneva la tesi dell’estensione del voto alle donne come arma per la salvaguardia della supremazia bianca, nulla di strano se le fautrici della contraccezione difendessero il controllo delle nascite come mezzo per prevenire la proliferazione delle “classi inferiori” e come antidoto al suicidio della razza, che poteva essere evitato attraverso l’introduzione del controllo delle nascite tra le persone nere, immigrate o povere in generale.
Il concetto di “Razza” si manifestò con forza nel 1901, durante il convegno della National American Woman Suffrage Association (NAWSA). Susan B. Anthony sosteneva che in passato le donne erano state corrotte «dai desideri e dalle passioni degli uomini», quindi era arrivato il momento di diventare le salvatrici della Razza: «…la razza sarà purificata . Attraverso la donna la razza sarà redenta. Per questa ragione chiedo l’immediata e incondizionata emancipazione da ogni soggezione politica, industriale e religiosa». Parimenti Carrie Chapman Catt nel suo discorso metteva in evidenza il pericolo delle razze “inferiori”: «l’inerzia nella crescita della democrazia che è arrivata in conseguenza dei movimenti aggressivi che, forse mal consigliati, volevano concedere in tutta fretta il diritto di voto allo straniero, al negro e all’indiano. Condizioni rischiose, conseguenti all’introduzione nel corpo politico di un vasto numero di cittadini irresponsabili, hanno reso timida la nazione». Alcune di loro, come Julia Ward Howe o Ida Husted Harper, difesero la tesi del suicidio della razza. Il «controllo di massa delle nascite», cioè la sterilizzazione forzata degli inadatti – ergo “inferiori” –, era il modo più semplice per far sì che le fertili bianche potessero conservare la superiorità numerica della loro sana stirpe Yankee.
Tenne una serie di conferenze per il Ku Klux Klan.
L’icona femminista di questo movimento eugenetico è Margaret Sanger (1879-1966), fondatrice di Planned Parenthood. In un articolo pubblicato nel 1919 nel giornale dell’American Birth Control League, sostenne che «l’obiettivo principale» fosse di avere «più bambini da chi è adatto, meno da chi è inadatto». In un programma radiofonico sostenne che «menomati psichici, ritardati mentali, epilettici, analfabeti, poveri, disoccupati, criminali, prostitute e tossici» dovessero essere sterilizzati chirurgicamente, oppure, se lo desideravano, avrebbero potuto optare per la segregazione a vita nei campi di lavoro. Nel 1932 negli Stati Uniti c’erano già ventisei stati che avevano passato la legge sulla sterilizzazione, cioè avevano impedito chirurgicamente a migliaia di persone “inadatte” di riprodursi. Nel 1939 venne messo a punto il “Negro Project”: «la massa di negri, soprattutto nel sud, si riproduce ancora senza limiti né preoccupazioni, col risultato che l’aumento, superiore a quello dei bianchi, proviene da quella porzione di popolazione meno adatta e meno in grado di allevare bambini».
Si domandò il reclutamento di sacerdoti neri perché dirigessero i comitati locali per il controllo delle nascite e svolgessero la campagna di sensibilizzazione dei neri. A questo proposito Margaret scrisse in una lettera a una collega: «Non deve uscir fuori una parola sul fatto che vogliamo lo sterminio della popolazione negra. I pastori sono gli unici che possano eventualmente far rientrare la situazione se mai dovesse sorgere il dubbio tra i più ribelli». Nel 1926 tenne una serie di conferenze sul controllo delle nascite per le ausiliarie del Ku Klux Klan a Silver Lake in New Jersey. Pubblicò diversi libri, forse il più noto Woman and the New Race (La donna e la nuova razza) (1920), che già dal titolo è una vera dichiarazione di intenti. Tra le sue perle di saggezza, nel capitolo V, The Wickedness of Creating Large Families (La malvagità del generare famiglie numerose): «La cosa più misericordiosa che una famiglia numerosa possa fare a uno dei suoi bambini più piccoli è ucciderlo»
La progressiva eliminazione del genere maschile.
Il sostegno delle tesi eugenetiche tra le file femministe non si limitò agli Stati Uniti, ebbe un carattere internazionale. Paulina Luisi, leader femminista e primo medico uruguaiano, presentò l’eugenetica come una nuova scienza, in grado di procurare «la felicità della razza umana». In Germania Helene Stöcker e Henriette Fürth patrocinarono la causa della sterilizzazione obbligatoria per gli “inadatti”. Fu favorevole anche Marie Stopes (1880-1958), una femminista visionaria che aprì la prima clinica di controllo della natalità nel Regno Unito e trattò suo figlio, oltre che con crudeltà, come un esperimento sociale, vestendolo per altro con abiti femminili. Inoltre fu antisemita e entusiasta sostenitrice di Hitler, al quale spedì poemi d’amore.
Se le teorie eugenetiche furono la logica evoluzione del suprematismo razziale del movimento delle donne, un altro concetto, la partenogenesi (la riproduzione senza la fecondazione del maschio), fu la logica conseguenza del suprematismo sessuale. L’esclusione dell’uomo dagli ambienti femministi, o persino l’auspicio del totale o parziale sterminio degli uomini non nasce, come molti credono, durante gli anni ’70, con slogan del tipo «l’utero è mio e lo gestisco io» o «dito dito orgasmo garantito, cazzo cazzo orgasmo da strapazzo», che lasciano pochi dubbi sulle intenzioni, né dalle teorie o dai gesti estremi di femministe radicali successive (ad esempio, il manifesto scritto da Sally Miller Gearhart nel 1981 intitolato Il futuro – se ce n’è uno – è femmina, in cui teorizzava l’evoluzione dell’umanità basandosi sulla presenza di solo un 10 per cento di uomini o la docente Mary Daly, che nel 1999 nell’Università di Boston si rifiutava d’accettare studenti maschi nel suo corso di Women studies). L’esclusione maschile, o l’auspicio di sterminio parziale o totale maschile, nasce in contemporanea alla nascita del femminismo, è la sua essenza, in quanto per l’ideologia femminista il problema della donna è l’uomo. Da subito dunque il concetto di “emancipazione” si trasforma in “liberazione” dall’uomo: non libere insieme col “maschio”, ma senza e contro. Si parte dalla teoria della supremazia della donna per poi predicare la necessità di una “decontaminazione” del pianeta Terra attraverso la progressiva eliminazione del genere maschile.
Manca l’ultimo tratto: il nazifemminismo.
Già dal primo proto-femminismo, Christine de Pizan nel suo romanzo La Città delle Dame (1405), immagina una città abitata solo da donne “virtuose”, uomini esclusi. Durante la prima ondata, come avverrà durante le ondate successive, gli uomini sono esclusi da organizzazioni femministe, come avveniva ad esempio nella WSPU o nel Partito delle Donne britannico. Nel 1886 l’aristocratica svizzera Meta von Salis-Marschlins (1855-1929) compone un opuscolo lirico, Die Zukunft der Frau, dove tratteggia l’utopia di una umanità-donna. L’esempio forse più celebre è il lavoro della femminista americana Charlotte Perkins Gilman, che nel 1915 scrisse il romanzo utopico Herland (Terra di Lei), una terra popolata da donne bianche. Una splendida utopia: pulita e ordinata, collaborativa, pacifica – perfino i gatti hanno smesso di uccidere gli uccellini –, perfettamente organizzata in tutto, dall’agricoltura sostenibile all’ottimo cibo, dai servizi sociali alla scuola. Tutto grazie a un’innovazione miracolosa: le madri fondatrici della nazione sono riuscite a perfezionare la tecnica della partenogenesi, le donne danno alla luce solo altre femmine, senza l’intervento degli uomini. Superiorità ed esclusione. Nella sua essenza, e dal primo istante della sua nascita, il femminismo è sempre stato questo, un grido di “liberazione” della donna, essere superiore, da qualsiasi cosa abbia a che fare col “maschio”, essere inferiore: via dal marito, dai figli, dal padre, dalla casa, dal rapporto eterosessuale, dalla competitività, dalla famiglia, dal Dio maschio e dalle religioni patriarcali… In sintesi, via dall’uomo. Decontaminazione. Partenogenesi. Ormai stiamo arrivando alla fine del nostro viaggio lungo la prima ondata femminista, manca l’ultimo tratto: il nazifemminismo.