«Se l’intelligenza, la giustizia e la moralità devono avere la precedenza nel governo della nazione, sia sollevata per prima la questione delle donne e per ultima quella dei negri», proclamò Susan B. Anthony alla conferenza di American Equal Rights Association (AERA) a New York nel 1869. Credo che queste parole sintetizzino molto bene il pensiero del movimento suffragista americano, approfondito negli interventi precedenti. Superiorità e razzismo. Razzismo e superiorità. Nella stessa conferenza la suffragetta Paulina Wright Davis (1813-1876) chiamò gli uomini neri del sud «una razza di tiranni» e sostenne che «le donne nere sono più intelligenti degli uomini perché hanno imparato qualcosa dalle loro padrone». Infatti, cosa avrebbero potuto imparare gli uomini neri dai loro padroni, se anche loro erano maschi? Come Anna Howard Shaw, Elizabeth Cady Stanton e tante altre suffragette, anche Paulina Wright Davis è stata inserita nel 2002 nella National Women’s Hall of Fame. Devo riconoscere che questi americani hanno una bella collezione di donne nella loro galleria della fama.
Fortunatamente le femministe inglesi non ebbero bisogno di esternare il proprio razzismo. La “questione dei neri” e degli immigrati non esisteva sull’altra sponda dell’oceano. Le suffragette inglesi si accontentarono di rendere manifesta la loro superiorità morale non solo con le parole, come avevano fatto le loro consorelle americane, ma anche con i fatti: collocarono ordigni esplosivi, appiccarono il fuoco alle case, a due stazioni di treni, a due chiese, a due alberghi, infransero le vetrine dei negozi delle più grande arterie, distrussero nel giro di pochi mesi decine e decine di edifici e interruppero le comunicazioni facendo saltar per aria le cassette postali e tagliando i fili del telegrafo. Contro la polizia, come se fossero vetrine, scagliavano pietre – per inciso, molti di quei poliziotti, come le suffragette, non godevano del diritto di voto. Dalla furia pacifica del movimento suffragista inglese non sfuggì nemmeno l’arte: il dipinto Venere e Cupido di Velázquez fu gravemente danneggiato con un’accetta dalla suffragetta Mary Richardson per vendicare l’arresto, avvenuto il giorno prima, di un’altra attivista. La Richardson non sopportava «la maniera con la quale i visitatori maschili guardavano rimbecilliti tutto il giorno» l’immagine di Venere. Sono comunque fatti noti, non penso ci sia bisogno di ulteriore approfondimento.
Il fenomeno delle piume bianche.
Come sarebbe avvenuto nella storia del movimento suffragista americano, con la scissione nel 1869 dell’American Equal Rights Association (AERA) in due nuovi enti, l’American Woman Suffrage Association (AWSA) e la National Woman Suffrage Association (NWSA), anche il suffragismo britannico ebbe una storia travagliata, segnata da lotte e dissidi che misero a repentaglio la tante volte proclamata “sorellanza femminile”. Una sorellanza che non riuscì a far andare d’accordo nemmeno tre vere sorelle, Christabel, Sylvia e Adela Pankhurst. La figura preminente del suffragismo britannico è senza dubbio la madre, Emmeline Pankhurst (1858-1928). Nel 1889 fondò la Women’s Franchise League, ma le divisioni interne del partito provocarono la sua sparizione un anno più tardi. Nel 1903 fondò la Women’s Social and Political Union (WSPU). Sotto la guida della figlia più grande, Christabel, si verificarono continue espulsioni ed emarginazioni, tra le quali le espulsioni nel 1913 della sorella Sylvia e delle ELFS (East London Federation of Suffragettes). Un po’ prima l’altra sorella, Adela, in disaccordo, aveva abbandonato la WSPU. Con l’introduzione del suffragio femminile, nel 1917 la WSPU fu sciolta e si trasformò in un partito politico: Il Partito delle Donne (Women’s Party). Il Partito durò due anni, fino a giugno 1919.
Il Women’s Party, così come era avvenuto prima per la WSPU, era aperto unicamente alle donne, uomini esclusi. Lo slogan del partito, “Victory, National Security and Progress” (Vittoria, Sicurezza Nazionale e Progresso), rivendicava valori fortemente sentiti all’epoca, nello stato di guerra nel quale si trovava ancora il Regno Unito (1917). Stranamente questi valori, come la “Vittoria” o la “Sicurezza Nazionale”, dovevano essere garantiti prevalentemente dagli uomini, gli stessi uomini che questo partito escludeva dalle loro fila (!?). Ed è proprio qui che troviamo uno dei più noti cortocircuiti avvenuti nella storia del femminismo, espresso nel fenomeno delle piume bianche: le femministe porgevano piume bianche a tutti gli uomini giovani che non erano in divisa (simbolo di vigliaccheria, usato per indurre alla vergogna gli uomini che non erano soldati).
La propaganda bellica delle femministe all’estero.
All’avvento della guerra, The Suffragette, il giornale dell’Unione Sociale e Politica delle Donne (WSPU), fu ribattezzato Britannia e dedicato al re e alla patria. Emmeline Pankhurst dichiarò: «La guerra del nostro paese sarà la nostra guerra». Le Pankhurst si trasformarono in veri e propri sergenti reclutatori, l’uomo doveva compiere il proprio dovere per poter guardare a viso aperto le donne; sui loro manifesti scrissero “Women of Britain say Go!”. L’adesione entusiasta della maggior parte delle femministe alla chiamata bellica non si limitò al movimento delle donne britannico. La sorellanza universale femminista divenne ad un tratto nazionalfemminismo. In La grande menzogna del femminismo a pag. 1081, tra le diverse citazioni si può leggere: : «Jessie Pope, nel suo sciovinistico The Call, esclamava: “Chi è per la trincea / Tu, ragazzo mio?”. Mary Sinclair descriveva “l’estasi” della battaglia in The Tree of Heaven. Rose Macaulay, nella sua poesia Many Sisters To Many Brothers, esprimeva invidia per la possibilità data ai soldati di evadere dallo squallore del fronte interno: “Oh, sei tu ad essere fortunato, laggiù nel sangue e nel fango”». : «L’Associazione Nazionale Americana per il Suffragio Femminile (NAWSA) si preparò nel 1914 alla guerra […].Carrie Chapman Catt, presidentessa della NAWSA, “ci opponiamo a qualsiasi cosa conduca verso una pace […]”. Le donne – sosteneva la Catt – sono coraggiose, animate da spirito patriottico e votate al servizio del paese».
: «“In questa guerra che noi approviamo con tutta l’anima – scriveva Helene Lange – le donne devono formare un solo corpo con la loro nazione”. Ina Seidel scriveva poemi come Seguendo i tamburi; Isolda Kurz titola i suoi: Sguainate la spada». «In Italia le più note femministe (Anna Maria Mozzoni, Margherita Sarfatti) erano interventiste». Secondo Rose Macaulay, il soldato era “fortunato”, l’uomo era un essere privilegiato che aveva la fortuna di poter combattere sul fronte. Un pensiero condiviso da Virginia Woolf, già analizzato in un altro intervento. Nel 1917 Emmeline Pankhurst viaggiò in Russia per fare campagna contro la firma del trattato di pace tra la Germania e la Russia e a favore del proseguimento dei combattimenti dell’armata russa. Disse alla folla radunata: «Sono venuta a Pietrogrado con una preghiera dalla nazione inglese alla nazione russa, affinché la nazione russa continui la guerra». Ripeto, perché forse non mi sono spiegato bene: le femministe, rappresentate da Emmeline Pankhurst, che si autodichiarano vittime innocenti e passive della storia, condizionate da una personalità modellata dal patriarcato attraverso l’eterno femminino, non contente di rimanere “passivamente” in patria (distribuzione di piume bianche), si spostarono ad un altro paese (!) per esortare gli uomini (russi) a fare la guerra e a morire (eterno mascolino?). Queste donne si comportavano come agenti passivi o attivi? Se il “femminismo è parità”, come ci viene detto continuamente, queste iniziative femministe cercavano la parità? In quale parte, di preciso, si trova la “parità” in tutto questo?
Woodrow Wilson, il presidente iperfemminista.
Lo spirito guerrafondaio delle femministe della prima ondata non riguardò unicamente la Prima guerra mondiale. Durante la Guerra di Secessione americana, le suffragette facevano campagna attiva per il Nord. Ai preludi e durante la Seconda Guerra Mondiale le militanti femministe ebree furono escluse dai gruppi di cui facevano parte, o silenziosamente abbandonate alla loro sorte. Elizabeth Cady Stanton, dichiarò di essere «lieta» che si fosse giunti alla Guerra ispano-americana (1898), ed esortò di «spazzare via dalla faccia della terra» gli spagnoli. Al congresso della National American Woman Suffrage Association (NAWSA) del 1899, la suffragetta Anna Garlin Spencer lesse un discorso dal titolo: «Doveri delle donne dei nostri nuovi possedimenti». Dei loro nuovi possedimenti?! Cioè, le recenti conquiste coloniali dopo la guerra ispano-americana: le Filippine, le Hawaii, Cuba e Porto Rico. I loro possedimenti! Guerrafondaie e colonialiste, figlie del loro tempo.
A questo punto, credo che la persona che rappresenta in maniera più fedele la disconnessione tra gli ideali proclamati e la realtà di questo periodo, tra il buonismo e l’idiozia sociale, non è una donna squisitamente femminista, ma il presidente degli Stati Uniti. Se oggi questo titolo può essere concesso senza paura di sbagliare al presidente Obama, femminista e politicamente corretto, Premio Nobel della Pace, divenuto il primo presidente della storia degli Stati Uniti che è riuscito a completare due mandati quotidianamente in guerra, senza un giorno di Pace (Iraq, Siria, Afghanistan, Libia, Pakistan, Somalia e Yemen) – un bel primato! –, il titolo nei primi decenni del Novecento lo merita il presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), femminista e politicamente corretto. Anche lui Premio Nobel della Pace (1919), autorizzò interventi militari in Cuba, Panama e Honduras, nel 1914 invase il Messico, nel 1915 Haiti, nel 1916 la Repubblica domenicana, nel 1917 fece entrare gli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. Una ogni anno, quasi meglio di Obama. Nel 1917 fece approvare dal Congresso la legge sullo spionaggio e nel 1918 la legge sulla sedizione per combattere le opinioni contro la guerra. Divieto di campagne pacifiste e antibelliciste.
Lo stesso razzismo delle suffragette.
Grazie al presidente Wilson le femministe baciarono la terra promessa: nel 1920 ottennero l’agognato diritto di voto femminile. Tre anni prima, nel 1917, Wilson aveva promulgato la coscrizione obbligatoria maschile, naturalmente con la corrispettiva legislazione punitiva per gli obiettori. Per gli uomini il suffragio e la leva erano inesorabilmente legate uno l’altra, come stabilì nel 1918 la Corte Suprema Americana. Le donne sono state le prime cittadine dell’umanità ad ottenere il diritto di voto senza dover fornire alcuna controprestazione obbligatoria alla società. Infatti, uno degli argomenti principali dopo la Guerra di Secessione a favore della concessione della cittadinanza e del suffragio agli uomini neri risiedeva nel fatto che se li fossero guadagnati attraverso la loro partecipazione all’esercito dell’Unione (E. Forner, Short History, 50-51). Purtroppo Wilson, come le suffragette, non era un appassionato sostenitore né degli immigrati né dei neri. Durante il suo mandato, nel 1913 si promulgò in California il Webb–Haney Act (la Legge sulla terra aliena), che in linea di massima impediva gli asiatici di diventare proprietari di terre. La amministrazione di Wilson istituì la segregazione razziale nel governo federale, per la prima volta da quando Abraham Lincoln iniziò la desegregazione nel 1863, e richiese fotografie dai candidati per posti di lavoro, per determinare la loro razza. Durante il suo mandato ebbe luogo la riorganizzazione del Ku Klux Klan, che era stato silente dalla sua messa fuorilegge negli anni settanta dell’Ottocento. «I bianchi vennero ridotti al mero istinto di conservazione… finché, alla fine, nacque il Ku Klux Klan, un vero e proprio impero del Sud col compito di proteggere la nazione sudista» (Woodrow Wilson, History of the American People, citato nel film La nascita di una Nazione, 1915). Insomma, Wilson, Premio Nobel della Pace, un presidente degno delle sue ammiratrici. Continuate a tenervi forti, stanno per arrivare le ultime curve, le più pericolose, i tornanti.