«I figli sono un intralcio alla vita da televisione che voglio». Questo è uno dei messaggi inviati dalla madre di Diana Pifferi che esprime apertamente un concetto ormai parte dell’immaginario sociale – e dunque anche femminile: la maternità non è più concepita come una fortuna, un miracolo, ma come un «intralcio», un «peso», una schiavitù. Questo messaggio, che trova la sua fonte ideologica nei testi femministi della seconda ondata, aleggia in ogni luogo, nelle istituzioni, nelle scuole, sui media, in un tamtam quotidiano. La maternità è connotata sempre in maniera negativa, anche quando il tema di discussione è un altro. Valga come semplice esempio questo articolo della Repubblica che parla della «discriminazione del “single shaming”», che «spesso a patire sono soprattutto le donne» (per curiosità, c’è qualcosa in questo mondo che patiscano di più gli uomini?). Scrivono sulla maternità: «Resta viva l’idea che la realizzazione personale di una donna debba passare necessariamente per la costruzione di una famiglia, e diventare moglie e madre. […] Molte donne, una volta sposate e con i figli, sembrerebbero rinunciare a spazi personali e all’espressione della propria individualità. […] Molte donne poi hanno assorbito questo modo di pensare e soffrono […] si perde di vista quella che è la priorità personale dell’individuo: il realizzarsi al di là dei ruoli sociali imposti». Questa «idea», secondo il giornale, sarebbe pericolosa e resterebbe «viva» tra le donne, in una società che da decenni è affetta da una profonda denatalità! Secondo il mio umile parere, le conclusioni dovrebbero essere ribaltate, oggigiorno tra le donne “resta viva l’idea che la realizzazione personale di una donna debba passare per il suo sviluppo professionale rinunciando a una famiglia, e a diventare madre”. Comunque sia, la maternità è connotata negativamente, non arricchisce la realizzazione personale, ma la ostacola.
Il femminismo ha ucciso il padre, e non manca molto perché uccida definitivamente anche la madre. Ma la denatalità, la distruzione della famiglia, la demonizzazione della maternità, non ci devono sviare da quello che è il cuore del problema, che non è la maternità ma i valori. La cultura della sterilità, che regna oggigiorno nel mondo occidentale, è il risultato della perdita della capacità di amare. L’amore è un sentimento che antepone gli altri a se stessi e diventa norma di vita. I nostri avi, le nostre madri, nonne, bisnonne, possedevano questo stato psicologico della coscienza. Le rinunce e il sacrificio, che comportavano inevitabilmente l’arrivo di un figlio, venivano vissuti in maniera naturale, per amore. Era sì un peso, ma anche un miracolo, una felicità, una fortuna. Oggi amiamo molto noi stessi ma ci siamo disabituati ad amare il prossimo. L’essere umano ha bisogno di ri-apprendere a donarsi a quelli che ci circondano. La maternità e la paternità consistevano in questo, nello spendersi per gli altri, nell’investire nell’amore. Quali sono invece i valori che trasmette la società occidentale, soprattutto ai più giovani? Lo spiega molto bene la citazione summenzionata della madre killer: i figli sono un intralcio per la vita. Ma quale vita? Non per prodigarsi per aiutare gli altri, per «una vita da televisione», la regina perenne della Celebrità, bella, magnifica, senza un’età, su Facebook o Onlyfans, vestita da modella con sguardo da star. «Sali sul palco senza paura. Siamo qui per applaudire», meglio se «sola e ubriaca», recitano le campagne del Ministero delle Pari Opportunità spagnolo.
Rifiuto di valori e modelli.
«Meglio stare soli», afferma dalla discoteca Chanel, figlia di Francesco Totti e Ilary Blasi. «Non c’è cosa più bella di essere indifferente». Dopo aver letto la notizia sugli “insegnamenti” di Chanel, il primo pensiero che dovrebbe venire in mente, a chiunque, dovrebbe essere: questa è una notizia? Sul serio è importante per il mondo sapere cosa ha da dire una quindicenne? Da quando i media, tutti i media, hanno iniziato a elevare ragazzini di quindici anni, tipo Chanel, Justin Bieber o Greta Thunberg, a maestri e riferimenti morali di tutta la società? I media e le nuove tecnologie hanno inflazionato il numero di maestri bambini, tipo Gesù dodicenne con i dottori della Legge perso nel Tempio; ormai gli insegnamenti morali non viaggiano più dai più anziani verso i più giovani, ma al contrario. L’indifferenza è un atteggiamento biasimevole, chi vive nell’indifferenza vive nell’apatia e nella mediocrità: non fa del male a nessuno ma neppure si prodiga nel bene, non arreca fastidio a chi gli sta intorno, ma neppure offre agli altri le risorse che possiede in sé. Si tratta di un soggetto vacuo e banale, paragonabile al sale che ha perso il suo sapore e che a nulla serve se non ad essere gettato. Una comunità di persone indifferenti, anaffettive, tiepida e amorfa, che si contenta della propria autosufficienza e banalità, è una comunità che, pur senza partecipare attivamente, permette tutto, qualsiasi ingiustizia: dalle leggi razziali fino a quelle femministe attuali che discriminano gli uomini.
Se Chanel fosse stata una persona più grande e più istruita, prima di esprimere il suo pensiero sulla bontà dell’indifferenza, magari avrebbe riflettuto sul versetto della Bibbia, nel libro dell’Apocalisse: «Tu non sei né freddo né caldo! Oh fossi almeno tu freddo o caldo. Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né caldo io ti vomiterò dalla mia bocca» (Ap 3, 15-16). Un soggetto che non è “né carne né pesce”, “né caldo, né freddo”, quindi inutile a se stesso e al mondo, che si trova nelle condizioni di “tiepidezza”, ossia di mediocrità vana e melensa, è incapace di amare e di contribuire al bene della collettività, si accontenta di sopravvivere. Nella cultura dell’individualismo sfrenato, oggigiorno l’incapacità di amare è un’epidemia che dilaga per la società occidentale, una rivoluzione dei valori che ha investito tutti, uomini e donne. Ma ho la netta impressione che questa rivoluzione abbia segnato di più l’universo femminile di quello maschile, e questo è chiaramente dovuto all’influenza del femminismo. Le donne moderne si muovono in un ambito principalmente autoreferenziale, sono di frequente donne emancipate, donne del computer, donne del cellulare, donne dell’agenda, anaffettive, che hanno rinunciato spesso alla maternità e rincorrono la propria vita lavorativa stressate dalla propria immagine, soggette a nuove e insidiose schiavitù. A un certo punto ormai, a età inoltrata, sentendo un vuoto che vogliono riempire, possono decidere di vivere una gravidanza ad alto rischio o scelgono la compagnia di un gatto, autonomo e indipendente, piuttosto che la cura di un figlio. Per queste donne, le donne del passato non rappresentano alcun riferimento, non vogliono essere come le loro madri o le loro nonne.
Esiste solo il “dovere verso se stesse”.
Nessuna femminista vuole essere Madre Teresa di Calcutta. Potrebbe essere un bello slogan, è anche una santissima realtà. La dottrina femminista ha demolito esplicitamente i valori femminili del passato e nel contempo ha spazzato via i modelli femminili dell’antichità. Nessun rispetto per le donne del passato. Fatima per gli islamici, Cornelia per i romani, Maria per i cristiani e così tutte, una per una, i modelli civici e religiosi femminili di ogni civiltà e religione dell’antichità sono stati abiurati dal femminismo e dalle donne. Per le femministe, Madre Teresa di Calcutta e tutte le altre sante donne sono l’esempio di quello che una donna non dovrebbe mai diventare. Al contrario, le donne storiche che per secoli non rappresentavano per nessuno un modello virtuoso da imitare, magari cattive e perverse, come Agrippina o Cleopatra, meglio ancora se assassine di un uomo, sono ora figure rivalutate dai testi femministi. Se i ragazzi oggi fanno fatica a riconoscere l’autorevolezza delle figure maschili del passato – in maniera semplicistica “io non voglio essere come mio padre” –, le ragazze non vogliono assolutamente per nulla assomigliarsi alle loro predecessore, denigrate e giudicate come cretine – ai loro occhi, donne che sprecavano le loro vite a cucinare, ricamare, pregare e ad andare in chiesa e a servire i loro mariti e figli.
La spaccatura tra le generazioni femminili è nettamente molto più marcata che tra le generazioni maschili. Cristo uomo, riferimento morale maschile per secoli nel mondo occidentale, seppur sbiadito, resta in qualche modo attuale per le più giovani generazioni maschili, assieme ad altri, santi (come può essere San Francesco d’Assisi) o padri della patria, eroi, anche attuali (come possono essere Ghandi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Einstein o Superman). Tutti questi modelli di riferimento hanno in comune una cosa: hanno anteposto il “dovere verso gli altri” al “dovere verso se stessi”. Questa è stata la loro norma di condotta. Cristo è morto per tutti noi, come morirebbe qualsiasi madre o padre per i propri figli. I monumenti ai caduti in ogni luogo sono pieni di eroi maschili che hanno seguito questa condotta, condotta che Simone de Beauvoir nega esplicitamente che gli uomini seguano. Ancora oggi molti giovani – non tanti come una volta – sono disposti a spendersi per gli altri, quante giovani donne sono disposte a fare parimenti? Il femminismo ha decretato, esplicitamente, per le donne il “dovere verso se stesse”, prima in qualsiasi caso del dovere verso gli altri. E allora, perché una madre dovrebbe avere dei figli e prendersi cura di loro? Se le donne rispettassero alla lettera in ogni momento questo comandamento, come ha fatto la madre di Diana Pifferi, allora non esisterebbero madri. Se Madre Teresa di Calcutta avesse messo prima di tutto il sacro dovere verso se stessa al dovere verso gli altri, Madre Teresa di Calcutta non sarebbe mai esistita.
Chi è il modello femminile oggi?
Cristo è stato per secoli il riferimento morale per gli uomini da emulare nel mondo occidentale, la Vergine Maria lo è stato per le donne. Conoscete qualche giovane donna nel mondo occidentale che voglia emulare la vita di Maria? Per la dottrina femminista, chi è un modello morale femminile di riferimento per le donne? Nora, la protagonista di Casa di bambola, che come la madre di Diana Pifferi abbandona i figli? Qualche eroina femminista? Simone de Beauvoir, “madre del femminismo”, indifferente alle persecuzioni naziste? La scrittrice Virginia Woolf, figura divinizzata dal movimento, due tentativi di suicidio e un terzo riuscito, indifferente alla sofferenza dei soldati e degli operai, che vive una vita mondana? Oppure eroine femministe attuali e riferimenti mondiali dell’ONU? Hillary Clinton, portavoce dei diritti delle donne nella Conferenza ONU 1995, che afferma boiate del tipo che la guerra colpisce di più le donne perché vedono morire i loro mariti e figli, che manifesta l’empatia per la sofferenza altrui con celebrazioni e risate per la tortura e la morte di Gheddafi, che promuove i bombardamenti in Serbia e Libia? Angelina Jolie, nominata Inviata Speciale dell’Agenzia Onu, Ambasciatrice di Buona Volontà e collaboratrice di Amnesty, che cerca di distruggere in tutti i modi suo ex marito, sottrae i figli e ostacola la loro frequentazione al padre e lo accusa pubblicamente di violenza vicaria? Amber Heard, «come Campione dei diritti umani dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Heard continua a usare la voce acquisita come attrice per difendere i diritti umani per tutti. Heard è stata recentemente nominata Ambasciatrice Aclu per i diritti delle donne, con particolare attenzione alla violenza di genere. Inoltre, è ambasciatrice di Cyber Civil Rights Initiative»? Lorena Bobbit, eroina femminista contro la violenza maschile? Per il femminismo, chi è il modello morale femminile di riferimento? La questione è dirimente. Chi? Chi era il modello morale di riferimento per la madre di Diana Pifferi? Rula Jebreal, volto mainstream del neofemminismo, Islam, yacht, jet set e MeToo, con arroganza e glamour? Chiara Ferragni? Sul serio? CHI? La verità è che il femminismo ha inquinato l’anima delle donne – tra le quali anche quella della madre della povera Diana Pifferi –, come vedremo nel prossimo intervento. Nessuna femminista vuole essere Madre Teresa di Calcutta. (segue domenica prossima)