Titolo: «La moglie non pulisce e non cucina, il marito le fa causa. Il giudice rigetta le accuse: “È sottomissione”». Come capita sempre più spesso, l’interpretazione di una norma viene inquinata dal condizionamento ideologico. Di più: prima ancora dell’interpretazione è la lettura stessa della norma che subisce l’influenza tossica del politicamente corretto. Ad una parte i doveri, all’altra i diritti. Prima di entrare nel merito occorre riconoscere la debolezza delle motivazioni alla base della separazione citate nell’articolo: mettere nero su bianco che il matrimonio è naufragato perché la moglie non pulisce e non cucina presta oggettivamente il fianco a molte critiche. Meglio mettere la formula-standard «essendo venuta meno la comunione d’intenti alla base del matrimonio». È una formula ormai desueta da quando le separazioni viaggiano in parallelo con le denunce per maltrattamenti e violenze, ma prima dell’affidamento condiviso era molto frequente.
Quella che però appare inaccettabile è la motivazione del rigetto in finto giuridichese: anche il marito deve lavare e cucinare, altrimenti si deve parlare di sottomissione. Poi la citazione: «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia». Risulta difficile comprendere per quale motivo l’obbligo reciproco di collaborazione nell’interesse della famiglia riguarderebbe i lavori domestici ma non tutto il resto che serve a costituire e mantenere una famiglia.
Il doppio standard della sottomissione.
La coppia a cui si riferisce l’articolo ha contratto matrimonio nel 2006 e la separazione viene chiesta nel 2016. Per 10 anni la famiglia ha vissuto esclusivamente del lavoro di lui. Quindi la signora ha vissuto in una casa pagata col lavoro del marito, le utenze sono state pagate col lavoro del marito, la famiglia si è nutrita, vestita e svagata col lavoro del marito, è andata in vacanza, ha mantenuto i figli a scuola e nelle attività extrascolastiche, ha acquistato mobilio, lavatrice, televisore, frigorifero, lavastoviglie e microonde col lavoro del marito, ha acquistato e mantiene un’auto grazie al lavoro del marito. Non c’è un solo cucchiaino, un solo barattolo di fagioli o un solo paio di scarpe acquistato col lavoro di lei, non per tirchieria ma per il semplice fatto che lei non produce reddito. L’articolo non dice se si tratta di una scelta o della oggettiva impossibilità di chi cerca un lavoro ma non lo trova; resta il fatto che nel budget familiare convergono esclusivamente le entrate del marito, doverosamente utilizzate per far fronte alle esigenze di tutti.
Quindi il contributo economico è esclusivamente maschile, nessun giudice potrà imporre alla donna di produrre reddito da far confluire nel bilancio familiare, altrimenti sarebbe sottomissione sfruttare solo le fatiche maschili. Può invece imporre all’uomo di svolgere parte del lavoro domestico, che non deve essere appannaggio esclusivamente femminile altrimenti è sottomissione. Il tribunale di Foggia non considera sottomissione l’obbligo maschile di procacciatore di risorse, non è sottomissione fare il pendolare, non è sottomissione accettare lavori usuranti, faticosi o rischiosi pur di mantenere la famiglia, non è sottomissione fare gli straordinari per portare a casa 100 euro in più. È un dovere che ogni uomo conosce, dettato dal senso di responsabilità nei confronti di moglie e figli.
Non ho la necessità di lamentarmi.
Invece per l’altro coniuge non è un dovere contribuire secondo le proprie possibilità, che se non sono economiche almeno dovrebbero essere i compiti di cura. Ma, sia chiaro, non è un dovere: se vuole si occupa della casa, sennò il marito al ritorno dal lavoro può benissimo lavare, stirare, spolverare. Quindi, riassumendo: «Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia» a Foggia lo percepiscono così: il lavoro professionale del marito è un bene collettivo e la moglie ha pieno diritto di usufruirne; il lavoro casalingo della moglie non è un bene collettivo, è esercitato a discrezione della donna quando, come e se vuole svolgerlo. Se il marito si azzarda a chiederle di «contribuire ai bisogni della famiglia» occupandosi della casa, la sta sottomettendo.
Quindi è una cialtronata sostenere che «entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Entrambi un par de palle, direbbe il Marchese del Grillo. In realtà é a discrezione del singolo: se la signora vuole cucinare lo fa, se non ne ha voglia cucinasse il marito. Tuttavia il principio dovrebbe essere valido anche a ruoli invertiti: se lui vuole andare al cantiere ci va, se non ne ha voglia spetta alla moglie salire sulle impalcature. Solito doppio standard: uno dei coniugi ha degli innegabili doveri, l’altro ha il diritto di evitare qualsiasi dovere. Immagino che queste poche righe scateneranno l’ira di qualcuna pronta a gridare allo scandalo, sarebbe strano se le indignate professioniste qualche volta tacessero. Tengo però a precisare che l’analisi è circoscritta alla contraddizione giuridica nell’interpretazione della norma. Abitualmente faccio la spesa, cucino, lavo i piatti e stendo i panni in terrazza, e lo faccio con gioia dato che a beneficiarne è la mia famiglia e i miei cari, il tutto senza che un tribunale mi abbia obbligato a farlo e senza sentirmi sottomesso. Non ho la necessità di lamentarmi sempre e comunque di essere una vittima.