La storia è nota, tutti i media di massa e l’intero web italiano ne hanno parlato fino alla nausea. Una giovane maestra d’asilo a Torino manda proprie foto e un filmato “hot” a un ragazzo. Questi, non per vendetta né per cattiveria, ma per semplice idiozia, condivide il tutto con i compagni del calcetto. Uno di loro mostra il materiale alla moglie, che riconosce dalle immagini la maestra del figlio. La contatta, allora, e la ricatta: non denunciare il ragazzo (con cui nel frattempo la giovane maestra non si frequenta più), o le foto e i video finiscono alla direttrice dell’asilo. Un ricatto bislacco, che non regge per come viene raccontato dai media. In realtà pare che alcuni di loro all’inizio abbiano parlato di lui come di un “potenziale cliente”, alludendo al fatto che la maestra arrotondasse con il mestiere più antico del mondo. La qual cosa renderebbe il ricatto molto più sensato (e spiegherebbe perché i giornali hanno smesso di dare questa versione, in questo periodo di novembre non si deve “dir male” delle donne…). Per altri canali, in ogni caso, le immagini scottanti giungono ugualmente in mano alla direttrice stessa, che silura la maestra spiegando esplicitamente e pubblicamente la causa del licenziamento. La maestra si trova così senza lavoro, messa alla gogna e al top delle ricerche in Italia su “YouPorn”.
Questi i fatti nudi e crudi. Su di essi i media hanno ricamato abbondantemente, tanto da rendere impossibile linkare degli esempi (qui uno dei tanti, davvero preso nel mucchio): fate voi, prendete a caso facendo una ricerca su Google News con qualunque chiave di ricerca. Ogni articolo restituito seguirà la stessa identica falsariga, basata sui seguenti due pilastri. Primo: tutti stanno colpevolizzando la maestra sostenendo che avrebbe dovuto evitare di produrre quel materiale e di inviarlo all’uomo. Questa “vittimizzazione secondaria” è la prova provata del maschilismo imperante in Italia e della connessa “cultura dello stupro”. E per meglio sottolineare la cosa, oltre che per sciacallare la propria dose di visibilità, fameliche accolite di femministe compongono addirittura una lettera aperta di solidarietà alla vittima. Secondo: lui, il giovane che ha condiviso il materiale, è uno stronzo, un porco, il classico maschio tossico, insieme alla sua congrega di amici del calcetto, il tipico branco di maiali che considerano la donna un oggetto. Di quelli che insomma, volenti o nolenti, andrebbero resettati e rieducati al nuovo codice (rosso) cavalleresco femminista.
Caso strano proprio nei pressi del fatale 25 novembre.
Nessuna chiave di lettura alternativa a questa è reperibile, né sui media ufficiali né sui social. Ed è ovvio: siamo in zona 25 novembre e non è concesso dare ai fatti interpretazioni troppo oggettive. Dunque a guardare le cose come stanno e ad assumere una posizione scomoda dobbiamo essere noi, al solito. Cominciando col dire che, con l’eccezione forse di qualche irrilevante internauta (indifferentemente uomo o donna) sui social, nessuno sui media o tra gli opinionisti di rilievo ha colpevolizzato la maestra. Sono gli stessi articoli del circuito mainstream a farlo, semplicemente asserendo che tutti lo stiano facendo. Non registrano un fatto, ma lo creano loro stessi, a supporto di una chiave di lettura già decisa in precedenza. Un modo come un altro per condizionare le coscienze collettive. Secondo: l’utilizzo della fattispecie “revenge porn” è errata. Il giovane non ha diffuso le immagini per vendicarsi o fare del male alla maestra, ma per semplice dabbenaggine. Forse per vantarsi o per goliardia (o per valutare con gli amici la possibile fornitrice del servizio? Chissà…). Questo non lo rende meno colpevole, ma il “revenge porn” qui non sussiste. Si tratta piuttosto degli effetti collaterali di una civiltà plasmata dalla condivisione delle informazioni, anche e soprattutto quelle personali. Qualcosa di cui si dovrebbe essere consapevoli, sia nel momento in cui si invia materiale personale sia quando si decide di diffonderlo.
Non c’è dubbio che la maestra sia stata imprudente tanto quanto il suo amante un emerito imbecille, ma qui la maschilità tossica, la cultura dello stupro, il branco famelico, l’oggettificazione della donna non c’entrano un bel nulla. Anzi c’entra proprio il suo esatto contrario: la femminilità tossica. Il focus della questione, infatti, è proprio quello debitamente messo in ombra dalla narrazione dominante: il pallino del crimine in questa vicenda è in mano a due donne più forse una. Quest’ultima che forse si stava prostituendo (lo svelerà presumibilmente il procedimento giudiziario, ma la cosa non finirà sui media, nel caso) e pubblicizzava così i propri servizi. Se così non risultasse rimarrebbero le altre due: la prima che è corsa a ricattare la maestra e la seconda che l’ha prima licenziata e poi sputtanata. Tant’è che al giovane sportivo è stata comminata una pena risibile (servizi socialmente utili e un risarcimento), mentre le due sono sotto processo, una per estorsione e l’altra per diffamazione. Quale il loro movente profondo? Cattiveria forse, ma più probabilmente la maestra in questione è una donna bella e sexy e, si sa, l’invidia femminile non perdona (qualcuno ricorda “l’ira funesta delle cagnette” cantata da Fabrizio De Andrè? Nel caso, ci starebbe tutta…). Non è tutto, però: c’è un altro dettaglio omesso praticamente da tutti i media. Quella venuta fuori in questi giorni è in realtà una vicenda risalente al 2018, che però viene cinicamente e strumentalmente pompata proprio ora. Caso strano proprio nei pressi del 25 novembre, ovvero quando ogni occasione è ghiotta per dare legittimità e caricare di peso una versione della realtà che altrimenti, se analizzata anche solo superficialmente, renderebbe tutte le celebrazioni di domani assolutamente prive di senso e non meritevoli dell’attenzione dell’opinione pubblica.