Ricorderete tutti la recente isteria mondiale conseguente al fenomeno dei “black lives matter” negli USA. Mentre in nome di un uomo di colore, George Floyd, ucciso dalla polizia, folle di saccheggiatori davano l’assalto a negozi e supermercati delle città americane, il resto del mondo si interrogava come mostrare la propria sottomissione a un movimento di rivendicazione dei diritti dei neri. Ci fu chi si inginocchiò e chi revisionò l’intera storia culturale recente per ripulirla da ogni sospetto razzista. Caddero sotto la falce film come “Via col vento”, cartoni animati come “Dumbo”, ma anche tante pubblicità e tanti prodotti popolari. Ovunque apparisse la parola “nero” ci si affrettava a chiedere scusa o a ritirare prodotti o a cancellare réclame, il tutto superando con un balzo plastico ogni senso del ridicolo. Ma il fenomeno “black” è soltanto il più recente e riguarda una delle tante tematiche “woke”, ovvero “risvegliate” ai temi di questa ossessiva ricerca della “giustizia sociale”. Tra di esse fanno spicco anche i “diritti delle donne”, che è la declinazione accettabile degli interessi delle lobby femministe, così come “i diritti delle persone queer“, altro eufemismo per coprire gli interessi delle lobby gender.
Neri-donne-gay è, semplificando, la trimurti che invade il libero pensiero, la libera parola, la creatività e la pacifica convivenza sociale, castrando tutto nel nome di una richiesta di rispetto e tutela che appare fuori tempo. È chiaro a tutti coloro che abbiano una visuale limpida dell’evoluzione storica che quei tre settori della società negli ultimi decenni abbiano raggiunto un livello di integrazione, di riconoscimento di diritti e rispetto tali da poter dichiarare pressoché conclusa la propria battaglia contro discriminazioni e oppressioni. Proprio quando si poteva cominciare a convivere serenamente da quel lato, magari concentrandosi sulle nuove esclusioni prodotte dalla contemporaneità, ecco che i gruppi organizzati di queste tre accolite rilanciano raddoppiando la posta sul tavolo del contratto sociale, rivendicando di più, ancora di più, sempre di più. Fino a porsi come un soggetto a sua volta oppressivo a caccia di privilegi. Tra questi c’è il privilegio di decidere come si può parlare, cosa si può scrivere, cosa si è autorizzati a dire. Il tribunale assoluto per queste decisioni non è il consesso comunitario né tanto meno i tribunali legittimi, ma essenzialmente i social network e il web. Lì si sentenziano la morte o la sopravvivenza di qualcosa o qualcuno, in base alla sua conformità al politicamente corretto, che è la filosofia di base di queste accolite.
Nasce così la logica “woke”: interi settori produttivi, per evitare problemi e contestazioni, si allineano al pensiero estremista di queste lobby. Nascono così gli inguardabili prodotti di intrattenimento di Hollywood o Netflix, l’informazione conformata spacciata da tutti i mass-media, la declinazione in salsa black-femminista-gender di qualunque prodotto o servizio. Banche, assicurazioni, produttori di automobili, società energetiche, è tutta una corsa a mostrare la propria attenzione e a pagare pegno verso il bullismo “woke”, sostenendo i costi di insuccessi consecutivi e della scontentezza strisciante da parte di tutte le società, frustrate e stanche di farsi tiranneggiare da minoranze rumorose e attive in un mondo che non esiste, quello dei social network. La buona notizia è che qualcosa sta cambiando: la necessità di ricominciare a fare profitti, unita probabilmente al desiderio di assecondare e risolvere questa frustrazione dilagante, sta inducendo un numero sempre maggiore di produttori di beni ed erogatori di servizio a fregarsene degli strilli telematici delle comunità “woke”. Due storie provenienti dagli USA sembrano promettere bene, in questo senso. La prima riguarda la catena commerciale “Target”, che a fronte della protesta di una manciata di utenti su Twitter aveva ritirato dal proprio catalogo il libro “Irreversible damage” (danno irreversibile) di Abigail Shrier, dedicato a raccontare quali danni concreti vengono arrecati ai bambini cui si consente di “transizionare” prima del tempo. Un manipolo di fanatici aveva etichettato il testo come “transofobo” e Target l’aveva ritirato subito, profondendosi in tante scuse. Lo stesso era accaduto alla catena “Trader Joe’s” per il libro “The end of gender” (la fine del gender), scritto da Debra Soh.
La notizia è che entrambi i soggetti commerciali, valutata la reale portata delle proteste e soprattutto la quota di perdite conseguenti al ritiro dei due prodotti, sono tornati sui propri passi. Da poco sia “Irreversible damage” che “The end of gender” sono rientrati a pieno titolo nei cataloghi delle due catene. La cosa ha scatenato nuove proteste, accuse di omofobia, razzismo, transfobia e tutta la solita paccottiglia piagnucolante di quattro gatti dotati di quaranta profili fake ciascuno, giusto per fare più rumore possibile sui social network. Sono fioccate subito le petizioni online, notoriamente utili come il fucile di Pierino caricato con tappi di sughero, e gli alti lai espressi su piattaforme di settore, che però hanno lasciato del tutto indifferenti sia Target che Trader Joe’s. Considerato che ogni fenomeno USA su queste tematiche tende poi a espandersi in tutto il mondo, questa opposizione da parte di alcuni colossi del retail contro le fastidiose formichine “woke” fa ben sperare che davvero si stia approssimando il tramonto definitivo di questa isteria che detta legge, al pari di un bulletto di quartiere da quattro soldi, a intere comunità. Tutte, per altro, già ampiamente evolute a sufficienza sulle tematiche sensibili, tutte inclini da tempo alla piena normalizzazione delle diversità razziali e sessuali del prossimo, ma desiderose di comprendere, attraverso la libera espressione del pensiero, il mondo che le circonda. Cominciano insomma a piovere colpi davvero duri contro l’uso politico e oppressivo del politicamente corretto e contro alle logiche “woke”. Non resta che gioirne e far arrivare ancora più chiaro il messaggio che questa inversione di tendenza è tanto gradita quanto può esserlo un processo di liberazione.