In passato, sulla piattaforma che ha preceduto questo sito, ci siamo occupati più volte della vicenda che ha coinvolto Juana Rivas e Francesco Arcuri. Chi volesse approfondire la vicenda può leggersi gli articoli con il tag dedicato nel vecchio sito (qui). In questa sede ci limiteremo a riassumere la vicenda per sommi capi. Rivas, spagnola, e Arcuri, genovese, fanno coppia per diversi anni, stabilendosi in Italia dove hanno due figli. Scontenta della vita matrimoniale, che dal 2009 era diventata conflittuale, e per la lontananza dalla madrepatria, nel 2016 lei si allontana con i minori, assicurando al marito che sarebbe tornata di lì a poco. Passano i mesi e la promessa viene disattesa: anzi la Rivas, su consiglio di un centro antiviolenza di Grenada, presenta una denuncia per violenze e maltrattamenti a carico del compagno, annunciando allo stesso che non sarebbe più tornata. Arcuri comprende la trappola e si muove presentando denuncia per sottrazione internazionale di minori, oltre che ovviamente avviando le pratiche per la separazione.
La donna sa a quel punto di essere due volte in torto: è scappata sottraendo i minori e ha avanzato una montagna di false accuse, riversate in una sequenza di denunce che la procura italiana archivia una dietro l’altra. Cosa che non accade, invece, per il reato di cui è accusata, trasmessa ai magistrati spagnoli, che a quel punto aprono un procedimento nei suoi confronti, ordinando il rimpatrio immediato in Italia dei due figli. La Rivas non ci sta, non intende attenersi alle decisioni dei giudici e sparisce dalla circolazione insieme ai figli, con la copertura di diversi centri antiviolenza e associazioni femministe, che nel frattempo hanno fiutato “il caso” come una preziosa occasione per fare baccano ideologico e avere un po’ di visibilità. Magistrati spagnoli e italiani sono d’accordo nel non avere dubbi: le denunce della donna contro l’ex sono «poco plausibili e inconsistenti», ma soprattutto la Rivas sta utilizzando i due figli come «scudi umani», dopo averli ampiamente e profondamente manipolati dal lato psicologico orientandoli contro la figura paterna. Alienazione parentale, sì, proprio quella.
La grazia per acclamazione mediatica.
Durante la latitanza, la Rivas sfrutta l’attenzione che si è intanto coagulata attorno alla sua vicenda. In breve il clamore mediatico generato intorno al caso diventa enorme, con l’ausilio cruciale delle associazioni femministe e antiviolenza, sostenute dai partiti di opposizione spagnoli (in allora il Partito Socialista), che insieme hanno reso famoso lo slogan provocatorio: “Juana è a casa mia”. Per non perdere l’onda, addirittura l’allora primo ministro Mariano Rajoy ebbe parole indulgenti e chiese di essere comprensivi verso il comportamento di Juana. Nel 2019 la Rivas torna allo scoperto, protetta dall’apparato mediatico che la invita un po’ ovunque per interviste, ospitate, speciali e sit-in. In quell’anno però arriva la sentenza: curiosamente i giudici della femministissima Spagna fanno il loro lavoro e condannano la donna a due anni e mezzo di carcere con il decadimento della potestà genitoriale per sei anni per sottrazione internazionale di minore. A quel punto si scatena il putiferio. Opinionisti, ministri, politici, associazioni gridano a gran voce che la versione della donna sulle violenze subite da Arcuri è del tutto credibile (anzi è proprio in quel frangente che nasce il famoso slogan “hermana yo sì te creo”, sorella io ti credo) e che dunque la condanna vada ritirata: ha agito per proteggere se stessa e i figli. E poco importa che le denunce contro l’ex siano tutte cadute nel nulla: se Juana lo dice, allora è vero.
I legali della donna, legati a doppio filo con la complessa rete di potere e connivenze del potentissimo femminismo spagnolo, fanno ricorsi su ricorsi per evitare il carcere alla propria assistita o per lo meno per mitigare la pena fino ad annullarla. Nel frattempo Arcuri, silenzioso e sottotraccia, aspetta l’esecuzione delle varie sentenze e dei vari decreti relativi alla separazione che, alla luce delle azioni dell’ex compagna, gli sono valsi un più che scontato affido superesclusivo. Ci vorranno mesi, ma alla fine riuscirà a riabbracciare i suoi figli e a dar loro una vita normale, fuori dall’influenza nefasta della madre alienante. Per la Rivas e per il femminismo iberico (ma in buona parte anche per quello italiano) è una sconfitta tremenda. Non tanto per il vissuto della donna, di cui alle ideologhe in rosa in realtà importa poco, quanto per un fatto di principio: l’esito della vicenda dimostra, come se ce ne fosse bisogno, che il dettato della Convenzione di Istanbul vale meno della carta su cui è scritto, nel momento in cui così automatiche e diffuse sono le denunce basate su false accuse. Serve dunque un modo per recuperare terreno dal lato dell’immagine e del rafforzamento dei teoremi di base. Ed è così che nasce l’idea di chiedere la grazia per Juana.
Il sistema Juana Rivas importato in Italia.
La Rivas non mostrerà mai il minimo segno di pentimento per ciò che ha fatto. È pienamente convinta di aver agito per il meglio, secondo un meccanismo usuale per cui si finisce per credere nella rappresentazione della realtà che in una modalità vicina al delirio ci si forma nella mente. Nonostante questo, è addirittura il governo spagnolo a presentare istanza di grazia per lei, mettendo in grave imbarazzo la Corte Costituzionale iberica, che alla fine dice no: la grazia totale è esclusa, ma lo è anche una forma di “grazia parziale”, non giustificata dal fatto che l’idea della madre in carcere potrebbe essere turbativa per i figli. Chi sbaglia, paga, e i cocci sono suoi. Ed è così che arriviamo all’oggi, al governo socialista di Pedro Sanchez che, ignorando il parere contrario della suprema Corte spagnola, riduce la carcerazione della Rivas a un anno e tre mesi e commuta l’interdizione all’esercizio della potestà genitoriale in 180 giorni di lavori socialmente utili. In altre parole la donna viene graziata, cioè la sua condotta di fatto non viene sanzionata. Il tutto viene sancito sul piano istituzionale, con il Ministro per l’Uguaglianza (!!!) spagnolo, l’invasata e pericolosissima Irene Montero, che senza alcun imbarazzo dichiara sui social: «La grazia parziale di Juana Rivas approvata oggi dal Consiglio dei Ministri è un atto di giustizia e riparazione e la chiusura di una frattura tra una legislazione senza una prospettiva di genere e una madre che ha protetto i suoi figli dalla violenza maschile».
Perché raccontiamo proprio oggi la vicenda di Juana Rivas, Francesco Arcuri e dei loro figli? Al di là dell’impressionante somiglianza con un noto caso italiano ancora aperto, si tratta di una sorta di prototipo, di apripista per tutti i paesi occidentali a trazione femminista, Italia inclusa. Le decisioni prese dalla Spagna nei confronti di una sua cittadina riconosciuta colpevole di un grave reato sono tali da configurare in modo ufficiale una nuova figura giuridica, quella della credibilità verso il singolo in ragione dei genitali posseduti, con ciò trasformando l’appartenenza a un genere specifico in sinonimo di impunità (o di colpevolezza se si appartiene all’altro genere). Una istituzionalizzazione del postulato femminista di base: solo gli uomini sono autori di violenze, di cui soltanto le donne sono sempre vittime. Raccontiamo proprio oggi l’epilogo di questa vicenda, con la grazia de facto concessa alla Rivas, per segnalare come quel meccanismo, che sta suscitando discussioni e sdegno perfino in Spagna, sia il traguardo a cui mirano coloro che oggi manifestano e celebrano la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Ascoltate i loro slogan, analizzate i dati che diffondono, guardate in volto loro ma soprattutto le loro mandanti politiche e ideologiche. Non troverete traccia di aspirazione alla parità, alla giustizia o all’uguaglianza, ma un desiderio bruciante a che il sistema Juana Rivas, dopo tanti esperimenti e piccoli passi, venga rapidamente importato e finalmente istituzionalizzato anche in Italia.