Per secoli il mondo occidentale ha cercato di uniformare la propria condotta a certe norme e concetti morali universalmente accettati, spesso senza riuscirci pienamente. Uno di questi era la “carità o pietà cristiana”, che rendeva tutti moralmente debitori, e tutti i bisognosi beneficiari, al di là della razza, il credo o il sesso. Tutta l’umanità era debitrice e nel contempo beneficiaria. Le beatitudini evangeliche parlano di “perseguitati”, gli emarginati e le vittime sono i carcerati, i poveri, gli esiliati, gli immigrati, i paria. Si tratta di una coscienza di specie dove, in linea teorica, ogni membro è un mio pari. Una coscienza che cerca il bene di tutta la specie e privilegia ogni membro su qualsiasi altro di qualsiasi altra specie, che diventa l’antagonista. L’arrivo del femminismo sostituisce la pietà “umana” per una pietà volta solo verso un sesso, le donne. Le vittime non bisogna più cercarle nelle miniere di carbone, nelle miniere di diamanti in Africa o di sale nell’impero romano, né in carcere, né tra quelle coscritte o forzate come mano d’opera o su una nave mercantile o su una baleniera. Nemmeno sul fronte di guerra, meglio cercarle nelle retrovie. I messaggi morali si trasformano, non si proclama più “no alla violenza”, “no allo sfruttamento”, “no alla povertà”, “no all’analfabetismo”, “no al cancro” ma “no alla violenza sulle donne”, “no allo sfruttamento delle donne”, “no alla povertà delle donne”, “no all’analfabetismo delle bambine”, “no al cancro al seno”. Il vantaggio è evidente: nella popolazione i destinatari delle nostre preoccupazioni e del nostro aiuto si sono ridotti della metà.
In questo modo la dottrina femminista s’oppone alla solidarietà umana, le donne costruiscono una coscienza di genere che cerca il bene solo all’interno del proprio genere e vede come naturale antagonista l’uomo. Il femminismo anestetizza quel sentimento che dovrebbe essere naturale e portare tutti a empatizzare per qualsiasi tipo di sofferenza al di là dell’essere umano che la soffre. Una capacità empatica che in molte donne è stata annientata fino all’assurdo, tanto è vero che capita di vedere miliardarie come Hillary Clinton, Ana Botín o Beyoncé lamentarsi della propria condizione e denunciare i privilegi degli uomini poveri e diseredati. Infatti, l’attenzione sociale che ricevono oggigiorno i senzatetto, che sono nella stragrande maggioranza uomini, le sovvenzioni, aiuti e campagne a loro favore pressoché inesistenti da parte delle istituzioni, sono un esempio palese di questa solidarietà umana mancante. Ma c’è di peggio. Per il femminismo l’uomo non è un antagonista neutro, un concorrente naturale ma leale in lotta per accaparrarsi le limitate risorse, che merita soltanto indifferenza. L’uomo è il colpevole, merita quindi ostilità. Per il femminismo l’uomo non ha problemi, l’uomo è il problema, è il «nemico», proclamato ufficialmente ed esplicitamente dal movimento, come fece la leader femminista Ti-Grace Atkinson. In Storia femminile del mondo si legge: «Per la prima volta un ampio numero di donne accetta l’idea che il nemico non è la chiesa, lo stato, la legge, il governo, loro insomma, bensì il diretto delegato e rappresentante di questi poteri, l’uomo che dorme nel nostro stesso letto, lui» (tratto da La grande menzogna del femminismo, p. 1082). Il nemico non merita né commiserazione né concessioni (diritti): «gli uomini non hanno bisogno di più diritti ma di più obblighi», ha dichiarato di recente la portavoce socialista in Spagna, Mar Espinar. È dunque normale che non ci siano obiettivi di sviluppo per gli uomini nell’Agenda 2030.
Il colpevole è solo uno.
«La gelosia non uccide, gli uomini sì», scrive in un post Instagram il giornale Repubblica. Si innesca un aspro dibattito e il giornale modifica il post: «La gelosia non uccide, alcuni uomini sì» (asserzione a mio avviso inutile, tanto vera e vana quanto la speculare “la gelosia non uccide, alcune donne sì”). Non tutti però sono d’accordo di questo dietro front. “Perché gli uomini dovrebbero smettere di dire #NotAllMen. Subito. Punto.”, intitola in maniera molto esplicita il magazine Elle: «Not all men, dunque, non sia mai che qualcuno si sia sentito offeso, esposto, in bilico, perché pure dopo millenni di privilegi, i ragazzi non sono ancora pronti, c’è da viziarli, rassicurarli, ancora un po’, e lodarli, sì lodarli, se non menano la fidanzata, se non molestano le sconosciute, se non si stupiscono di avere sul lavoro un capo donna». Il nemico deve arrendersi, deve pentirsi, deve sentirsi in colpa e fare quotidianamente un atto di contrizione. Sconfitto, non fisicamente – cosa del tutto improbabile tenuto conto delle differenze fisiche – ma nella psiche. Bisogna fabbricare nel nemico una coscienza di colpa collettiva. L’uomo deve sentirsi avvilito, mortificato, afflitto. Si deve vergognare. Tutti gli uomini. Evidentemente si tratta di un discorso unidirezionale, non deve essere ribaltato a danno delle donne.
È già stato segnalato nell’intervento precedente come non ci sia nell’immaginario femminile torto storico più evidente del divieto di voto alle donne, torto per il quale noi uomini dovremmo sentirci eternamente in colpa. Eppure nessuna donna, che in maniera così risoluta e indignata lancia tali accuse storiche, si sente in colpa per la coscrizione obbligatoria maschile, neppure in quegli anni nei quali le donne già potevano votare – ed essendo le donne una maggioranza nella maggior parte dei paesi del mondo, il solo voto femminile unanimemente indirizzato avrebbe potuto correggere questa scandalosa discriminazione. La coscrizione maschile obbligatoria è ancora vigente nella maggior parte dei paesi del mondo, oppure soltanto sospesa (come in Italia), non abrogata. E abbiamo tragica prova della sua letale efficacia nell’attuale guerra in Ucraina. Da notare che mai nessuna donna è morta, o è stata infortunata, a causa del divieto di voto. Migliaia e migliaia di giovani sono morti, non solo in tempo di guerra, anche in tempo di pace, da nonnismo, esercitazioni militari, marce forzate, incidenti, punizioni e pene massime militari, segnati da un destino inesorabilmente sessista per la sola colpa di essere maschi. Cadaveri per i quali nessuna donna si sente responsabile – e per i quali di solito gli uomini non chiedono alcuna responsabilità alle donne. Eppure la responsabilità storica è evidente. Il magazine Elle, che così severamente si esprime sulla colpa degli uomini, «dopo millenni di privilegi», sente il peso delle proprie colpe storiche per tutti quei cadaveri di uomini? Ha mai additato le donne per la loro indifferenza di fronte a questo loro privilegio? Ha mai pubblicato un post il giornale Repubblica a difesa degli uomini coscritti del tipo «L’indifferenza non uccide, le donne sì»? Se di colpa dobbiamo parlare, tutti dobbiamo intonare il mea culpa, e le donne sono tanto colpevoli quanto gli uomini. Ma questo è valido solo se possediamo una coscienza di specie. Per chi possiede una coscienza di genere il colpevole è solo uno: il nemico.