Durante una delle mie assidue letture di testi femministi mi imbatto in questo enunciato: «Per secoli le donne hanno lottato per poter essere riconosciute come soggetti all’interno della società, con gli stessi diritti di qualsiasi altro uomo» (La Pluma Violeta, Revista de Género y Crítica de las Ideologías, Universidad Pablo de Olavide, n. 1, 2017, p. 138). Il concetto non è nuovo. All’Università di Roma Tor Vergata un’epigrafe marmorea celebrativa del sessantesimo anniversario del voto alle donne, inaugurata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, recita così: «…per la prima volta le donne votarono anch’esse, perché finalmente trovasse pienezza la libertà della nazione intera, dopo secoli di sofferta discriminazione». Di pari avviso anche l’ONU, nell’anniversario della Giornata internazionale della donna, 8 marzo, sostiene: «Il Giorno Internazionale della Donna fonda le sue radici nella lotta plurisecolare della donna per partecipare nella società alla pari dell’uomo». Altre citazioni simili possono essere trovate lungo il libro La grande menzogna del femminismo, da dove sono tratte le due ultime citate a pagina 575. Il concetto è molto semplice, e qualsiasi femminista – o forse sarebbe meglio dire “qualsiasi persona”, talmente è ormai diffusa questa idea nella società – vi può dare conferma: l’oppressione della donna e l’opposizione della donna a questo sistema oppressivo patriarcale perdurano dalla preistoria fino ai giorni nostri. Si tratta dunque di una lotta femminile plurisecolare. Per secoli le donne hanno lottato per poter diventare soggetti politici, votare ed essere rappresentate in Parlamento, istruirsi, esercitare qualsiasi mestiere o uscire da casa in sicurezza a qualsiasi ora, anche di sera. Per secoli.
Per secoli le condizioni di vita degli uomini sono state strettamente legate all’ambiente fisico, e anche quando il clima non era eccessivamente ostile (glaciazioni o clima torrido), il contesto era comunque ovviamente avverso: orografia accidentata, regioni montuose, paludose, zone desertiche, fitte foreste e animali feroci. Per secoli la natura è stata un incombente pericolo, i disastri naturali – terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, uragani, fulmini, siccità o incendi – erano una maledizione degli dèi che gli uomini non riuscivano a contrastare. Per secoli le scarse risorse disponibili per sfamare la popolazione, spesso dovute al deterioramento del clima, spingevano gli esseri umani al nomadismo, e i popoli nomadi alle conquiste, le razzie e lo sterminio di altri popoli. Per secoli i grandi predatori hanno costituito un grande pericolo per gli uomini. La storia più recente narra di tigri che hanno ucciso più di 400 persone e leopardi che hanno superato il centinaio di vittime. Il film Spiriti nelle Tenebre (1996) è basato sull’episodio realmente accaduto dei leoni “mangiatori di uomini” dello Tsavo: nel 1898, durante i lavori per la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi, una coppia di leoni maschi uccise e divorò quasi una trentina di lavoratori indiani ed un numero imprecisato di operai africani. Ancora nel Basso Medioevo, nelle grandi città di Europa, nelle sere d’inverno, poteva capitare di essere sbranati dai lupi se ci si azzardava a uscire dall’abitato.
Esposti a un ambiente estraneo, a rapporti con sconosciuti, alle insidie della natura.
Per secoli gli uomini sono stati sottoposti al flagello delle malattie – malaria, colera, vaiolo, rachitismo, peste bubbonica –, a una speranza di vita che fino al XVII secolo appena raggiungeva i 30 anni. Le malattie infettive, le epidemie cicliche e le cattive condizioni igieniche limitavano la crescita della popolazione, la peste nera nel XIV secolo ridusse la popolazione europea di un terzo. Ecco la testimonianza storica di Agnolo di Tura, di Siena: «Il padre abbandonava il figlio, la moglie il marito, un fratello l’altro fratello; perché questa malattia sembrava togliere il respiro e la vista. E così essi morivano. E non si trovava nessuno per seppellire i morti né per denaro né per amicizia. I membri di una stessa famiglia nel migliore dei casi portavano i loro morti in una fossa, senza prete, senza preghiere […] venivano scavati profondi pozzi e riempiti con una moltitudine di morti. E morivano a centinaia sia di notte che di giorno. […] E io, Agnolo di Tura, chiamato il Ciccio, ho sepolto i miei cinque figli con le mie mani. E ce ne erano anche di quelli che erano così poco coperti di terra che i cani li trascinavano fuori e divoravano i corpi lungo le strade della città». In America le malattie importate dagli europei sterminarono in un secolo circa il 95% della popolazione indigena precolombiana, una vera catastrofe demografica: gli indios morivano per vaiolo, morbillo, influenza, tifo, difterite, malaria, orecchioni, pertosse, peste e tubercolosi. Alcune malattie erano figlie della malnutrizione cronica. Nel nord d’Italia nel XIX secolo i contadini erano figli della pellagra e la pellagra era la figlia della fame. La pellagra mangiava le mani e il cervello dei contadini, le mani contadine si corrompevano fino all’osso. In Inghilterra e Francia, non più di due secoli fa, circa il 20 per cento degli abitanti non aveva la forza per lavorare e a malapena riusciva a camminare lentamente per un paio d’ore al giorno, motivo che conduceva molti di loro all’accattonaggio e alla povertà estrema. In queste regioni, tra le più ricche del mondo, la maggior parte delle persone possedeva solo oggetti di poco valore: sedie o sgabelli, panche, botti che fungevano da tavoli… e poco più.
Per secoli guerra, violenza, peste e carestia, denominati i quattro cavalieri dell’Apocalisse, sono stati flagelli dell’umanità. Guerre e incursioni hanno distrutto i raccolti, devastato i campi e raso al suolo i villaggi. La popolazione soffriva il flagello della fame e le epidemie che ne seguivano. Per secoli le grandi carestie sono state cicliche e hanno falciato milioni di vite (ad esempio la carestia irlandese 1845-1849, circa un milione di vittime; quelle indiane di Orissa 1866, più di un milione o di Madras 1876-1878, tra 4 e 5 milioni; o quella russa 1921-1923, circa 2 milioni). Per secoli la violenza fisica è stata una presenza quotidiana in ogni angolo del mondo. I gruppi di briganti infestavano le strade e i pirati il mare. Nell’impero romano, periodo che si presuppone più sicuro e ordinato di altri, la campagna che circondava la città era considerata essenzialmente una zona pericolosa. Ogni sera le porte delle mura cittadine si chiudevano per isolare il centro urbano dal circostante mare dei pericoli, particolarmente minaccioso durante la notte; dentro le mura, poi, in ogni casa le porte venivano serrate e sprangate per premunirsi dagli assalti dei banditi. Uscire volontariamente dalla città di notte era considerato pazzia o peggio. Nell’Alto Medioevo i monasteri erano un rifugio e protezione contro la brutalità della vita. Per secoli la persona che abbandonava il proprio ambiente naturale si esponeva ai pericoli di un ambiente estraneo, a rapporti con sconosciuti, alle insidie della natura.
Il limitatissimo scenario intellettuale e concreto.
Per secoli le ore buie del giorno si sono presentate intrise di pericoli e insidie. Nell’immaginario degli uomini la notte era associata all’esistenza di un universo popolato di creature misteriose e paurose, di lupi mannari, spiriti, demoni, streghe e stregoni. Per i cristiani la notte diventava il tempo di Satana, il maligno e i suoi demoni imperversano per tentare gli animi. Come le cittadine romane, le città medievali erano circondate dalle mura le cui porte, alla sera, venivano chiuse. Il suono delle campane serali annunciavano il coprifuoco. Le grandi città romane e medievali erano quasi completamente buie durante le ore notturne, non c’erano persone che osavano uscire di sera, o, se ne erano costrette, lo facevano sempre accompagnate da seguiti numerosi. Non possiamo manco immaginare quanto l’invenzione della lampadina e dell’illuminazione artificiale abbiano rivoluzionato il modo di vivere la notte, un mondo popolato di creature pericolose e sataniche, di terrore atavico fino a qualche secolo fa.
Per secoli il fanatismo religioso, le superstizioni, il ritualismo e il timore del soprannaturale hanno colmato l’orizzonte del pensabile. La grande massa della popolazione, costituita da contadini, erano persone semplici e ignoranti. Per secoli in Europa, dall’Atlantico agli Urali, la parrocchia è stato il nucleo della vita rurale, che scorreva dura e monotona. Il pensiero magico-religioso e le credenze popolari più inverosimili, dal potere taumaturgico dei re capaci di guarire i sudditi dalla corruzione dell’aria originata dal passaggio delle scie delle comete che generavano grandi disgrazie e catastrofi per il genere umano, guerre, pestilenze o morte dei regnanti, erano le uniche riflessioni intellettuali che discorrevano nelle menti contadine. Come gli irriducibili Asterix e Obelix, una sola cosa turbava loro: che il cielo gli potesse cadere sulla testa. Per secoli le ordalie o giudizi di Dio accertavano l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato: se dopo tre giorni dopo aver portato un ferro rovente tra le mani per pochi passi, o dopo aver messo il braccio in acqua bollente, l’ustione guariva, il giudizio di Dio si dimostrava dunque favorevole. Oppure si gettava in acqua il presunto colpevole legato e se galleggiava era innocente.
L’esodo rurale verso città sporche e insalubri.
Per secoli la giustizia umana ha dispensato punizioni e castighi in maniera arbitraria e completamente sproporzionata. Tutte le civiltà dell’antichità hanno fatto ricorso alla tortura e alla pena di morte. Gli egizi gettavano il condannato, ancora vivo e chiuso in un sacco, nel Nilo, per chi si macchiava di reati quali offendere il faraone, l’omicidio, il sacrilegio, il furto, lo spionaggio e le infrazioni fiscali. I popoli precolombiani infliggevano la schiavitù a chi si macchiava di furto e la morte a chi commetteva omicidio o adulterio, questo ultimo considerato come un reato contro la proprietà, motivo che spiega perché non veniva punita la moglie, bensì il suo seduttore, il quale, una volta consegnato al marito, veniva trucidato da quest’ultimo, gettandogli, dall’alto, un grande masso sul capo. Gli antichi greci e romani applicarono la pena capitale in modo costante, non solo per il tradimento della patria o per la rivolta contro l’autorità, ma pure per lo spostare un cippo che delimitava il confine di un campo, il rubare il bestiame o il raccolto altrui, il violare una promessa, il dare falsa testimonianza, il rubare di notte, il rubare al padrone, l’ingannare un cliente, ecc. Tra i “metodi di morte” utilizzati nell’antichità e nel Medioevo, troviamo quelli più semplici – impiccagione, decapitazione, annegamento, lancio da un dirupo, lapidazione, crocifissione, rogo, sbranamento, sotterramento, trafissione con frecce, impalamento, morte per fame e sete, sparo di cannone – e quelli più complessi – allungamento, bollitura, garrota, metodo del cavallo, letto incandescente, pressatura, posa del calderone, morte da insetti, metodo del pendolo, scorticamento, ruota. Per secoli lo scopo della pena è stata quella di far soffrire lo sfortunato condannato, valga come semplice esempio la spiegazione della morte con il metodo del calderone: si poneva sullo stomaco del reo un recipiente di ferro con l’apertura in basso e pieno di topi, quindi era riscaldato e i roditori, per uscire, non potevano far altro che rosicchiare lo stomaco del condannato.
Per secoli l’insicurezza, la paura e la scarsità di risorse hanno creato, all’interno delle famiglie, dei clan o dei gruppi sociali, vincoli di subordinazione e dipendenza personale. Per sfuggire alle violenze ormai diffuse, i cittadini liberi dopo la caduta dell’Impero romano sceglievano volontariamente di cedere i propri diritti in cambio di protezione con questa formula: «Poiché si sa benissimo da parte di tutti che io non ho di che nutrirmi o vestirmi, ho chiesto alla pietà vostra, e la vostra benevolenza me lo ha concesso, di potermi affidare e accomodare al vostro mundio, e così ho fatto; cioè che tu debba aiutarmi e sostenermi, tanto per il vitto quanto per il vestiario, secondo quanto potrò servire e bene meritare; e, finché vivrò, debbo prestarti il servizio ed ossequio dovuti ad un uomo libero e non potrò sottrarmi per tutta la vita alla vostra potestà e mundio, ma dovrò rimanere finché vivrò nella vostra potestà e protezione». Il termine tedesco “mundio” vuol dire protezione. Per secoli gli uomini sono stati schiavi, oppure rischiavano di diventarlo. In Europa, servi della gleba, in stato di semi-schiavitù legati ereditariamente a un fondo agricolo, in alcuni paesi fino al secolo XIX. L’unica via d’uscita da questa grave situazione di ingiustizia sociale era l’esodo rurale verso città sporche e insalubri, ciò comportava spesso un peggioramento della qualità di vita. L’unico servizio di nettezza urbana delle strade nelle città del medioevo erano i maiali.
Una guerra ideologica senza senso.
Per secoli non è esistito il diritto alla vita, la vita dei sudditi in molte regioni del mondo è dipesa dall’arbitraria volontà del signore di turno, e anche un semplice sguardo, in alcuni casi vietato, poteva comportare la pena massima. Molti dei diritti che oggi riteniamo scontati e inalienabili, come il suffragio universale, la libera scelta di un mestiere o del tipo di istruzione, o il diritto a fare in sicurezza una passeggiata serale, sono stati per secoli inconcepibili. Tranne che per qualche pia e isolata eccezione di qualche filosofo, per secoli l’orizzonte del pensabile è rimasto confinato nei limiti della religione, della superstizione e del regime di sudditanza. Le donne e gli uomini volevano un tetto, sicurezza e pane, volevano sopravvivere e lenire le proprie sofferenze di una vita miserabile segnata dalla fame, le malattie, il terrore e la violenza. Bisogna aspettare l’Umanesimo in Europa, e sempre a livello minoritario, per veder proclamare la centralità della persona, il riconoscimento dell’individuo. Ci vorrà ancora qualche secolo per rendere possibile mentalmente la trasformazione dell’individuo da “suddito” a “cittadino”, portatore di diritti inalienabili.
A partire del XIX secolo, la sicurezza alimentare, la tecnologia, la liberazione dello sforzo umano grazie all’automazione e il progresso spirituale dell’umanità renderanno possibile, in un processo progressivo e molto lento, l’esportazione di questa straordinaria rivoluzione mentale a quasi tutte le regioni del mondo: basti pensare che solo nove anni prima di una pietra miliare della narrazione femminista (e istituzionale!) come è quella di Seneca Falls nel 1848 – sessantotto donne (68!) americane che richiesero il suffragio per le donne –, nel 1839, mediante il “Nobile Editto della Camera Rosa”, milioni (milioni!) di sudditi (la metà donne!) del vasto Impero turco riuscivano a conquistare il semplice diritto alla vita, evento storico che evidentemente non ha la stessa importanza né per la narrazione femminista né per le istituzioni. Sostenere che le donne abbiano lottato per secoli contro un presunto patriarcato per conquistare gli stessi diritti degli uomini – che nel frattempo morivano nelle guerre, nelle camere di torture, nelle galee e nelle miniere –, è una solenne cretinata. Per secoli nelle menti femminili non è mai esistita una parvenza di qualcosa di simile agli attuali “diritti delle donne”. Si tratta di un’assurda falsità storica, un giudizio anacronistico proclamato dalla narrazione storica femminista e ripetuto irresponsabilmente da governi occidentali (il governo italiano) e dall’ONU al solo scopo di promuovere una guerra ideologica senza senso.