Dopo gli eventi di Capitol Hill, con l’assalto-carnevalata di un manipolo di facinorosi conclusosi tragicamente con la morte di quattro civili, si è scatenata una discussione feroce sui media e sul web su un punto in particolare: hanno fatto bene i social network a chiudere i profili di Donald Trump? Naturalmente, perché così devono funzionare le cose per generare traffico e click, la questione è stata posta da tutti in modo tale da creare due fazioni polarizzate su posizioni estreme. Ecco così apparire e darsi battaglia aspra ovunque quelli che “sì, hanno fatto bene” e quelli che “no, è censura” (e l’hashtag “#censura” è finito così tra i trend topic di Twitter). Oltre a generare traffico utile alle “Big Tech” per grattarci quante più informazioni possono sul nostro conto, una discussione così impostata risulta utilissima per distrarre il discorso da quel punto centrale dove dovrebbe invece rimanere ben saldo: la supremazia della legge nel tutelare le libertà dei cittadini.
Ebbene, tutta l’assurdità della situazione è ben testimoniata dal fatto che mentre Facebook, Twitter, Instagram e YouTube rimuovevano i profili del presidente in carica degli Stati Uniti d’America Donald Trump, dalle loro comode poltrone continuavano a postare e twittare personaggi come l’Ayatollah iraniano Khamenei, non proprio un esempio di apertura mentale e democrazia. Ma anche ha continuato a twittare l’ambasciata cinese che, a nome del suo governo, non esattamente liberale, ci ha raccontato come Pechino abbia usato il femminismo (guarda caso) per distruggere le fondamenta comunitarie degli odiati Uiguri. E ancora Nicolas Maduro, Presidente di un paese che la democrazia non la vede da un po’, se mai l’ha vista, è lì con il suo bel profilo con tanto di bollino di certificazione. Per non parlare del “sultano”, Recep Tayyip Erdogan, anche lui non proprio un campione delle libertà civili, che addirittura dal suo account reclamava la calma a Washington durante il parapiglia al Campidoglio. Insieme a loro ha continuato a postare e twittare e condividere contenuti un esercito di neonazisti, comunisti, razzisti, antisemiti, pedofili, truffatori e chi più ne ha più ne metta.
Gli “standard della community” e le leggi dello Stato.
Il legittimo presidente in carica della più grande potenza mondiale no, lui era fuori dai giochi. Alla sua esclusione non si sa se abbia contribuito l’appello di Michelle Obama a che i social network appunto zittissero la voce di Trump per sempre. Di fatto questo è successo. Ma che stava facendo di male? Postava foto pedopornografiche? Caricava video di torture? Incitava all’assunzione di eroina? Faceva apologia dello stupro? No, mandava messaggi politici. Talvolta ambigui, sempre forti e provocatori, non di rado imprudenti e sopra le righe, ma comunque legittimi. Due volte legittimi: perché erano opinioni e perché provenivano da una carica istituzionale democraticamente eletta. Piaccia o no il personaggio, piacciano o no le sue politiche, quello era (ed è fino al 20 gennaio) e nulla giustifica quella che, a conti fatti, è stata una vera e propria censura. Chi sostiene che i social abbiano fatto bene, dice che i suoi anatemi dai social rischiavano di fomentare altre “rivolte” e generare altre vittime o altri disastri. E allora? Nel caso, ne avrebbe risposto davanti a un tribunale, oltre che davanti alla storia. Non sta certo nelle facoltà di piattaforme che si fingono ludiche ma sono pienamente editoriali decidere cosa sia appropriato o legale e cosa non lo sia. A meno di non voler consacrare definitivamente i social nel ruolo che da tempo tendono ad assumere, oltre a quello di strumenti di condizionamento di massa: quello di tribunali.
Tribunali che funzionano secondo regole proprie, i cosiddetti e tonanti “standard della community”. Gli stessi che lasciano pubblicare contenuti, spesso anche minacciosi, a Khamenei, Maduro, Erdogan e tutti gli altri mostri che si annidano sul web. Peccato che gli “standard della community” non siano affatto della community. O meglio lo sono per finta, solo di nome, essendo in realtà decisi unilateralmente dalla corporate che governa la piattaforma telematica. Soprattutto non sono fonti di diritto, per lo meno non ancora (per Zuckerberg e compagni si tratta di un sogno bagnato). Sono qualcosa di meno di una quisquilia rispetto alle leggi di uno Stato democratico. Trump di fatto non stava facendo nulla di illegale, ed è stato stroncato nella sua vita sul web, mentre altri che di reati ne commettono a bizzeffe sono ancora lì e difficilmente verranno rimossi. Il giochetto, l’abbiamo raccontato, l’ha capito la Polonia, e la Russia presto prenderà spunto, rendendo illegale e sottoponendo a sanzione l’eliminazione di contenuti o di profili che violino gli “standard della community” ma non le leggi dello Stato, gli uni insignificanti, le altri realmente cogenti.
Ecco, questo anche potrebbe capitare a voi.
Sarebbe facile a questo punto far partire il pistolotto usuale del “l’hanno fatto a Trump, potrebbero farlo anche a te”. È piuttosto evidente però che per la maggioranza delle persone la propria libertà personale (e quella associativa e collettiva) non è un gran valore da tutelare. Più importante per tutti e non aver paura, sentirsi protetti da qualsivoglia minaccia venga sventolata ed esibita con toni drammatici. Se per non avere più paura si tratta di cedere un po’ di libertà… e vabbè, che sarà mai. Si arretra un po’, si traccia per terra un altro “limite invalicabile” e ci si mette dietro. Se poi arriverà un’altra paura, si arretrerà ancora un po’, e così via. Peccato che alla fine, a forza di arretrare, ci si ritrova spalle al muro, senza più linee da tracciare e con tutto il territorio prima destinato alla libertà occupato da chi l’ha divorato. Pare che questa dinamica non interessi più molte persone, tranne qualche idealista che, come il villaggio gallico di Asterix, resiste ora e sempre all’invasore. Dunque serve fino a un certo punto alzare il ditino didattico e ammonire tutti che “potrebbero farlo anche con te”. Serve forse una riflessione ulteriore.
Come si identifica un “nemico”? In tanti modi. Diffamandolo, distorcendo le cose che dice e fa, applicandogli delle etichette universalmente riconosciute come esecrabili. Ma anche accanendosi sul suo cadavere, quando è morto, per fare in modo che non risorga e che ciò che ha rappresentato non torni più, in alcuna forma. Questo è l’effetto ultimo ottenuto con l’estromissione di Trump dai social. Il messaggio è chiaro: “quell’uomo e le sue idee sono talmente orride che non merita nemmeno il sacro diritto di parola in un ambiente informale come i social”. Pensateci un momento: un personaggio gigantesco, com’è il Presidente degli Stati Uniti, scacciato dal palcoscenico mondiale. Per arrivare a tanto, pensa la gente che ormai dipende da queste dinamiche, deve davvero averla fatta grossa, dev’essere davvero un mostro. Non è affatto così, in realtà, e i pupari dei social lo sanno bene. Ma ai loro affari e ai loro amici fa comodo che si pensi così, in modo che Trump stesso, o qualcuno che, come lui, si ponga in netta opposizione al sistema globalista, non torni più, non ci provi più, non s’azzardi più. Ecco, questo può capitare anche a voi: subire personalmente una pressione social (non sociale: social) tale da uscirne come mostri, esseri esecrabili, che è talmente giusto odiare da far apparire sacrosanto il bavaglio. Ma soprattutto vi potrà capitare di trovarvi a vivere in un mondo con una sola opinione, una sola cultura, un solo partito, un solo governo, dove chiunque esprima una visione politica diversa e voglia rappresentarvi viene semplicemente espulso. Con un click.