Vi sarà forse capitato nei giorni scorsi di intercettare, sui social o su qualche media mainstream, di sentire parlare di stalking e di leggere reazioni spettinate e deliranti simili a queste due:
Un gran numero di politici, opinionisti e giornali si sono così sollevati in massa contro una sentenza della Cassazione che, a loro dire, eliminerebbe lo stalking (art.612 bis del Codice Penale) dalle aggravanti del “femminicidio”. «Un passo indietro di almeno 12 anni sulla difesa delle donne», ha titolato con grande originalità La Repubblica, abituata a criticare o esaltare la Cassazione a seconda delle convenienze. Si tratta di reazioni davvero emblematiche su un numero impressionante di fronti. Vediamoli uno ad uno, perché da subito la situazione è parsa tragica e comica allo stesso tempo. Anzitutto i commenti danno per scontato che gli atti persecutori siano perpetrati solo da uomini a danno di donne. Il che è falsissimo, tanto quanto asserire che si tratta di un reato maggioritariamente maschile. Non ci credete? Guardate quanti casi di stalking “in rosa” abbiamo già conteggiato quest’anno e date un’occhiata alle statistiche reali (fonte ISTAT) che abbiamo illustrato settimana scorsa e vedrete che la “maschilità” degli atti persecutori altro non è che il frutto di una propaganda femminista tanto mirata quanto destituita di ogni fondamento. Eppure da sempre, e ancora oggi, le poche volte che i media danno notizia di una donna accusata o colpevole di atti persecutori non mancano di parlare ipocritamente di “stalking al contrario”.
Ma non c’è soltanto questo. Nel dire che la Cassazione avrebbe escluso lo stalking come aggravante del “femminicidio” si cerca di far passare il messaggio che il “femminicidio” stesso sia un reato definito e incluso nel Codice Penale. Cosa che ovviamente è ben lontana dall’essere vera. Ad oggi, com’è noto, non c’è una definizione stabile e circostanziata di quella fattispecie e nemmeno la commissione parlamentare d’inchiesta che dovrebbe occuparsene è stata ancora in grado di darne una, nonostante le richieste esplicite. E con ciò siamo già a due mistificazioni politico-mediatiche a carattere apertamente antimaschile. Non male… Purtroppo però non è finita qui: a peggiorare le cose c’è la profondissima ignoranza giuridica e fattuale dei commentatori. Il che non stupisce per i due soggetti qui sopra riportati, essendo gente della Lega di Salvini. Rimane però indispensabile andare a vedere nel dettaglio il pronunciamento degli ermellini per capire meglio di cosa si tratta. Ebbene la Cassazione non ha fatto altro che richiamarsi alla legge. Il caso in questione era un omicidio come esito di persecuzione. L’art.612 bis comincia con la formula «salvo che il fatto costituisca più grave reato», una clausola di salvaguardia per dire: se si sta trattando un delitto più grave dello stalking, esso assorbe lo stalking stesso, comportando un aggravio di pena. Nel caso in questione invece la persona colpevole di omicidio è stata condannata separatamente per i due reati: omicidio doloso aggravato e stalking, 15 anni di reclusione circa. Se le due accuse fossero state accorpate nella forma del “reato complesso” (art. 84 del Codice Penale), la persona colpevole avrebbe rischiato l’ergastolo. La Cassazione quindi non ha eliminato lo stalking come aggravante: anzi ha richiamato al fatto che un omicidio preceduto da persecuzione configura un delitto punibile con il carcere a vita. Ma vallo a spiegare a leghisti teste di legno o a media sempre troppo interessati a cavalcare il vittimismo femminista e la connessa criminalizzazione maschile.
Una tempesta mediatica che ha stracciato il velo dell’ipocrisia generale.
Pensate che sia finita qui? Niente affatto. Nel sollevare il polverone parlando di “abolizione dello stalking come aggravante del femminicidio”, tutti hanno fatto finta di non conoscere i dettagli della vicenda su cui la Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi. Una vicenda che non era “femminicidio”. Era la brutta storia di una donna, Anna Lucia Coviello, perseguitata per anni dalla collega Arianna Magistri che poi, nel 2016, scaraventa la vittima da un parcheggio multipiano di Sperlonga, in provincia di Latina, uccidendola. Omicidio di donna su donna, senza alcun movente passionale. Femminicidio un paio di palle, quindi. Eppure se provate a scrivere su Google il nome della vittima, vi apparirà una lista infinita di articoli che in questi giorni hanno protestato per la sentenza di Cassazione, con firme anche “eccellenti”, tipo la femministissima Concita De Gregorio, proprio parlando di “femminicidio”. Falsari, mistificatori, ipnotizzatori di massa e bugiardi seriali. E in questo senso va aggiunta la ciliegina sulla torta, anche se si tratta di un aspetto meramente tecnico. Tutte le ricerche psichiatriche e criminologiche dagli anni ’90 ad oggi hanno dimostrato che soltanto una infinitesimale percentuale di persone affette dalla sindrome da molestie assillanti (volgarmente detta “stalking”) arriva a uccidere la propria vittima, e quando lo fa è perché la pulsione persecutoria è accessoria ad altre ben più gravi. Il motivo è semplice: quel tipo di spinta criminale si nutre di un amore deviato verso la vittima, che si concretizza nel suo controllo. Lo stalker vero vuole che la sua vittima resti viva per poter continuare a perseguitarla: la sua morte è anzi forse l’unica cosa che non vuole. Il vero problema è che, com’è noto, tutto oggi è classificato o classificabile come stalking, e quindi come aggravante di omicidio, da un mazzo di cinquanta rose rosse al parcheggio selvaggio, grazie a quella iattura dell’art.612 bis del nostro Codice Penale, voluto ai suoi tempi (2009) da Carfagna e Bongiorno, poi peggiorato ulteriormente dalla sinistra. La cosa bella di questa tempesta mediatica è insomma che in un colpo solo ha tolto il velo a tutto il marciume connesso al regime del vittimismo femminista, dai media servili alla truffa del reato di stalking, passando per la presa in giro del “femminicidio”.