Expeditie Robinson (o Survivor, cioè sopravvissuto, come è denominato in alcuni paesi) è un reality show creato in Svezia (L’isola dei famosi è la versione italiana, che deriva da Celebrity Survivor, che a sua volta deriva dalla serie televisiva svedese Expedition Robinson). Nel 2002 l’emittente olandese ebbe la brillante idea di formare due squadre divise per sesso. Non lo fecero più. Il risultato fu un interessante esperimento antropologico accidentale di vaste conseguenze (link in inglese, video racconto in spagnolo, video interviste in olandese, sottotitoli in spagnolo). In pochi giorni il gruppo maschile era riuscito a costruire una parvenza di civiltà (capanna, tavolo, divisione di ruoli…). Il gruppo femminile, tra una discussione e l’altra, era riuscito a finire tutte le scorte di cibo, fornite all’inizio della gara, e non era riuscito a costruire nulla. L’emittente decise di intervenire e di scambiare alcuni dei partecipanti, di trasferire qualche uomo sull’isola delle donne e qualche donna sull’isola degli uomini. Tra gli uomini, tutti volevano essere tra i fortunati eletti, ma lo sconforto arrivò dopo, una volta arrivati sul “paradiso delle donne”. Questi sfortunati dovettero rimettersi a lavorare per ripristinare una situazione catastrofica. Al contrario, le donne arrivate sull’isola degli uomini, rimasero meravigliate da quello che avevano realizzato gli uomini, e poterono continuare a fare nulla e a prendere il sole, servite e riverite da tutti.
Insomma, una replica, a livello di gruppo e nella realtà, del capolavoro della regista Lina Wertmüller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974). Il film della Wertmüller, di sinistra, vuole inscenare una denuncia del conflitto di classe, e ci riesce benissimo, ma probabilmente, al di là delle proprie intenzioni, mette in scena anche, in maniera dissacrante per la dottrina femminista, una denuncia del conflitto dei sessi: una donna che, protetta dallo Stato del Welfare (cioè, da tutti gli uomini collettivamente), si può permettere di opprimere l’uomo; ma senza questa copertura, in un contesto selvaggio e paritario, si dimostra invece incapace di sopravvivere alla pari dell’uomo, cede allora volontariamente alcune delle sue prerogative, e sfrutta la sua arma migliore, il sesso, per farsi mantenere. Chi non ha guardato ancora questo film vada di corsa alla videoteca. In Expeditie Robinson, ogni partecipante si è messo a fare ciò che faceva meglio o sapeva fare, chi è andato a pesca, chi ha tagliato legna, chi ha costruito… e chi ha steso due corde tra un albero e l’altro e ha messo ad asciugare i vestiti, come hanno fatto le donne. I partecipanti del reality show hanno “inventato” da subito la divisione del lavoro.
Se si fermano gli uomini, si ferma il mondo.
La divisione del lavoro, o meglio, l’ottimizzazione del lavoro lungo la Storia, non è qualcosa inventata a tavolino dagli uomini patriarcali, come suggerirebbe la narrazione femminista. In linea di massima, l’uomo è sempre stato l’elemento più produttivo, con alcune differenze. Biologicamente era l’individuo predestinato a produrre, costruire e sostenere quelli meno produttivi di lui, a procacciare il sostentamento alla famiglia. Una verità mai messa in discussione fino all’arrivo del femminismo. Questa manifesta realtà è stata negata con il solito argomento, che tutto ingloba: l’oppressione maschile. Il patriarcato avrebbe impedito alle donne, confinate nei compiti domestici, di lavorare nei lavori produttivi, cosa che desideravano, e di poter provare dunque che erano brave, tanto quanto gli uomini. Per quanto assurdo possa sembrare questo argomento, vogliamo reputarlo degno e, con pazienza, confutarlo. È mai esistito nella Storia dell’umanità un mercato del lavoro paritario, non inquinato da sessismo, nel quale il valore degli individui veniva valutato unicamente per la loro prestazione, al di là del sesso? Un mercato guidato esclusivamente dall’interesse, il profitto e la produttività? Naturalmente, il mercato degli schiavi. La schiavitù di produzione (molto più numerosa della schiavitù sessuale), lungo i secoli e pressoché universale, è stata in prevalenza maschile, tanto numericamente come nel valore economico conferito. I padroni e le padrone di schiavi compravano soprattutto uomini, il valore dello schiavo maschio era più elevato di quello della schiava femmina, e questo avveniva ovunque, dall’Impero romano fino ai mercati di schiavi arabi o americani (per ulteriori approfondimenti su questa questione rimando alla lettura dell’opera La grande menzogna del femminismo, pp. 186-190, 283-291).
Nella schiavitù di produzione predominavano gli uomini, nella schiavitù sessuale predominavano le donne. In altre parole e in maniera generica, dei beni primari (mangiare, trasporto delle merci, protezione, riparo dal freddo…) si occupavano gli uomini, dei beni secondari (musica, lettura, sesso, attività ludiche…) si occupavano le donne. I beni primari soddisfano i bisogni primari; i bisogni secondari nascono soltanto dopo aver soddisfatto i bisogni primari. Beni primari e secondari si completano, ma senza i primi i secondi non servono, e non è vero il contrario. Oggigiorno nulla è cambiato. A livello collettivo, nella società attuale gli uomini continuano ad occuparsi dei beni primari, attività principali del settore primario (agricoltura, allevamento, ecc.) e secondario (manifattura), e le donne dei beni secondari, attività del settore terziario, per lo più servizi (servizi commerciali; gastronomia, turismo, ospitalità; servizi assicurativi e bancari; attività amministrativa e burocratica; industria ludica, musica, festival, cinema, disco, ecc.). La distribuzione degli uomini e delle donne nel mercato lavorativo riproduce curiosamente la piramide dei bisogni di Maslow, quasi esistessero tra di loro asimmetrici bisogni. Gli uomini si concentrano nei due gradini più in basso, garantiscono i bisogni fisiologici e di sicurezza (mangiare, casa, vestiti, riscaldamento, protezione…). Garantiti i beni primari dagli uomini, le donne intervengono in prevalenza nei due bisogni successivi di appartenenza e di stima (vita sociale e affettiva, valori estetici, attività ludiche, essere amato e amare, sesso…). Sono tutti bisogni importanti, ma senza soddisfare i primi, il mondo si ferma. “Se le donne si fermano, si ferma il mondo”, dice uno dei mantra femministi, ma è vero piuttosto il contrario.
La caduta dell’uomo, l’Afghanistan e le colpe dell’ONU.
Una prova di quanto questo sia vero, e dell’inefficienza femminile nel garantire i bisogni primari (nel caso specifico, la protezione), è avvenuta di recente a seguito della guerra di Afghanistan. Crollata la protezione maschile, tutte le attività delle donne afghane sono state compromesse. Non si può parlare di sorpresa, le donne afghane erano già preavvertite, molte di loro avevano vissuto di persona l’esperienza dei talebani al governo; erano a conoscenza dei continui combattimenti dell’esercito contro i talebani, e del pericolo che un giorno potessero tornare; hanno avuto venti anni per prepararsi a combattere; durante questi anni, nei media occidentali si sono succeduti articoli che celebravano le abilità e le competenze delle soldatesse nell’esercito afghano o curdo. Nulla di questo è servito. Le donne afghane si sono rifiutate di combattere, hanno preferito delegare la loro difesa agli uomini. Divisione del lavoro. E gli uomini? Perché si è persa la guerra in Afghanistan? Mentre i talebani si stavano riarmando nelle montagne, pronti alla riconquista, i governi occidentali si preoccupavano di «promuovere programmi e iniziative di genere in Afghanistan che includano attività per educare e coinvolgere i ragazzi e gli uomini afghani a combattere stereotipi e a ridurre l’ostilità verso i diritti delle donne e la loro partecipazione nella vita pubblica», citazione tratta dal Support for Gender Equality: Lessons fron the US Experience in Afghanistan, relazione dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction di 242 pagine (!) datata febbraio 2021 (!), sei mesi prima della completa disfatta.
E mentre ai ragazzi e agli uomini afghani veniva contestata la loro mascolinità tossica, le donne afghane e le donne occidentali interiorizzavano la convinzione di appartenere a un sesso pressoché divino: più brave, più capaci, più intelligenti, più combattive, più forti. Autonome, emancipate, libere. Quando la caduta di Kabul era quasi imminente, in data 15 agosto 2021 (!), invece di organizzare le truppe e la resistenza, o di predisporre nel mondo centri femminili di arruolamento per combattenti volontarie, o di far fuggire dal paese le persone compromesse con il regime, o di allestire campi di profughi, la filiale femminista dell’ONU, UN Women, si preoccupava di diffondere il femminismo per il mondo, con tweet che recitavano: «L’abbigliamento non ha genere. […] Stiamo sfidando la cultura patriarcale e richiediamo un mondo che rispetti le identità diverse»; «Le attività imprenditoriali delle donne non hanno le stesse performance di quelle guidate solo dagli uomini, ma una performance MIGLIORE» . Il mondo delle donne (e degli uomini) in Afghanistan stava crollando, ma nel contempo l’ONU era più preoccupata di diffondere che «i giocattoli non hanno genere». Il risultato della guerra era prevedibile. Nel mondo occidentale, i soldati hanno smesso di essere degli eroi quando la società, infetta da un infantilismo ipermoralista, ha dimenticato il mondo reale e li ha sostituiti con delle quindicenni femministe emancipate e rivoluzionarie su Twitter. La caduta dell’uomo, la caduta dell’eroe, la caduta del padre, la caduta del marito, infine la caduta del soldato. E di questo cambiamento ne ha una grande responsabilità l’ONU, così come la dottrina femminista e tutte le sue panzane.
Uomini “inutili” fino al momento in cui servono.
Oltre all’incapacità delle donne di difendersi, cioè di essere autosufficienti, il trionfo dei talebani in Afghanistan ha messo di rilievo un altro aspetto, a mio avviso, ancora più scandaloso a danno del femminismo. La sorellanza, proclamata dal movimento ai quattro venti, si è dimostrata un bluff, queste donne non si sono affatto preoccupate per le “sorelle” afghane, nessuna femminista è disposta a farsi uccidere o a sacrificarsi per un’altra donna. L’abbandono delle donne afghane da parte di tutte le truppe femministe, da Irene Montero, Kamala Harris, Laura Boldrini, Ocasio Cortez, Nancy Pelosi e le altre dive del movimento #MeToo, è stato totale. A parole, bravissime, nulla di più. Motti femministi del tipo “se toccano una toccano tutte”, “se toccano una rispondiamo tutte” (in spagnolo, molto popolare, “si tocan a una nos tocan a todas”) si sono rivelate delle grandissime ipocrisie. In Afghanistan hanno “toccato” più di una, ma qui, nel mondo occidentale, non si è mossa nessuna. Il bagno di realtà che ha dovuto subire il mondo occidentale, dopo la guerra in Afghanistan, non è servito a nulla. L’Occidente continua imperterrito sommerso dalla propria ideologia, con i diritti identitari, il femminismo e l’ideologia di genere. Per la maggior parte delle donne occidentali nulla è cambiato, in attesa della prossima catastrofe. Per l’immaginario di queste donne moderne, fiere femministe, emancipate e autoconvinte della propria autosufficienza, gli uomini continueranno ad essere “inutili” fintanto che non scoppia un incendio, una guerra o una centrale nucleare. Oppure il tubo di scarico sotto il lavandino di casa loro. Donne autosufficienti, molte di loro single o separate, che se hanno una perdita d’acqua chiamano l’idraulico, una lampadina bruciata chiamano l’elettricista, la macchina guasta chiamano il meccanico, se sentono paura chiamano il poliziotto, se hanno bisogno di soldi chiamano l’avvocato che minaccia l’ex. Fino allora, fino al momento della sua utilità, la caduta dell’uomo è, per tutti, inesorabile. È ora ormai di ricapitolare e trarre delle conclusioni, cosa che faremo domenica prossima.