In “Into the forest” la società è tornata indietro. Da sei mesi non c’è elettricità, la benzina scarseggia. Due giovani sorelle si rifugiano nella loro baita in montagna. Il padre è morto ferendosi con la motosega mentre tagliava un albero. Una delle due ragazze, con vestito largo e leggero, vagamente sexy e completamente inadatto a ciò che sta facendo, con un’ascia taglia la legna per la stufa da vero esperto taglialegna. Arriva un tizio, un’ombra, dall’atteggiamento equivoco. Si conoscevano, con un po’ di imbarazzo saluta, chiede informazioni, chiede del loro padre, lei risponde che sta arrivando, allora pretende di aspettarlo, poi all’improvviso la attacca. Lei reagisce ma lui è più forte, la colpisce in viso, la sbatte per terra e la stupra, poi la lascia lì, sanguinate in viso e tra le gambe, ruba una tanica di benzina e scappa via col suo pick-up. Sembra una delle tante scene prodotte da questo schifo di filmografia che si nasconde sotto gli splendori del cinema hollywoodiano. Film di cassetta che fanno cassa su Amazon Prime e altri distributori, ma che contribuiscono anche a tenere in piedi il nuovo mondo dominato da un immaginario che si regge sulla distruzione della fiducia nell’altro, perché nella solitudine e nel sospetto s’insinua la menzogna dei grandi manipolatori delle coscienze.
Il messaggio di “Into the forest” è sempre lo stesso: ogni donna sola è sempre oggetto delle mire predatorie di un uomo. Se crolla la civiltà, le donne rimangono se stesse: morali, empatiche, solidali, virtuose come sempre secondo la loro natura angelica. Gli uomini invece regrediscono allo stato bestiale, viene fuori la loro natura violenta, assassina e stuprativa. L’uomo è sempre pronto a tornare vandalo, vichingo, saraceno: stupra, ruba, uccide e fugge via a festeggiare il bottino nella sua tana di animali feroci come lui. Nei film spazzatura lo stupro in genere è il motore di tutta la vicenda, il punto di svolta da cui comincia il seguito che finisce nella spietata vendetta contro il reo. Ma questo non è un film come gli altri, cerca di dare un messaggio diverso. Non c’è un uomo col compito del vendicatore né una wonderwoman che ne prenda il posto, qui ci sono due donne dalla coscienza pulita, dai sentimenti elevati. Lei rimane incinta e non ha nessuna voglia di abortire perché “nessun bambino deve sentirsi indesiderato”. Ma il punto è: a cosa servono questi film? Abbiamo ancora bisogno dell’immagine cupa dello stupratore che ruba l’amore come si rapina una banca, una gioielleria, un furgone portavalori? Nella mente di chi la donna è una fortezza che si assalta con l’ariete e non una persona che direbbe di sì a un gesto d’amore? Non è più vero che “a cor gentil rempaira sempre amore”?
Si diffonde sublime la divina indifferenza.
La violenza gratuita è ormai il filo conduttore di troppi film d’oltreoceano. Il nuovo matriarcato ha bisogno di rinnegare il passato, il selvaggio west, la libertà dei campi, la conquista, l’assenza di leggi, i miti dei film della frontiera e la stessa filosofia del progresso. Necessita di andare oltre le regole, valicare le frontiere, spostare il limite all’infinito. Glorie del passato che forse oggi rappresentano il fascino e l’incubo del nuovo matriarcato. Il passato è lo zombi, il terrorista che vuole distruggere l’umanità, l’extraterrestre che odia l’uomo perché rovina l’ambiente, il robot umanizzato che si rivolta contro il suo creatore. La filmografia americana continua a rivoltarsi nel fango della creazione del nemico, del male assoluto, di qualcuno da condannare senza appello. Ma “Into the forest” non è nato ad Hollywood, è un film canadese diretto da Patricia Rozema, regista, scrittrice e produttrice canadese, un altro tipo di civiltà ormai completamente femministizzato, che non ha bisogno della vendetta atroce dei film americani: la sua vendetta è una lezione morale. Come reagiscono infatti le ragazze al vile stupro? Nella maniera più nobile possibile, lei rimane incinta, la sorella fa ricerche per farla abortire, ma Eva, la ragazza abusata, rifiuta sdegnata perché nessun bambino deve sentirsi rifiutato. La violenza è finita, ciò che è stato è stato.
Ma la casa non dà sicurezza, è il simbolo della società decadente e “patriarcale”. Si torna allora alla natura e lei preferisce partorire nell’incavo di un grande albero. Il bambino nasce, è bellissimo. Un pezzo di tetto della casa però crolla sotto il peso della pioggia, non è più affidabile, le due ragazze prendono le provviste accumulate, danno fuoco alla baita e si rifugiano serene nella rassicurante foresta. Se la civiltà crolla – sembra suggerire l’autrice di “Into the forest” -, madre natura rimane quale ultima salvezza. Le donne lo sanno, lo hanno sempre saputo: la civiltà è effimera. Guerre, pestilenze e cambiamenti climatici possono annientare in pochi anni il lavoro di secoli, ma la natura rimane, calma, serena e sublime pronta ad accogliere la vita. Gli uomini non lo capiscono: loro rubano l’amore e scappano via, si aggrappano all’auto e alla benzina, ritornano conquistadores senza coscienza e senza fortuna. Che dire? Chapeau, M.me Rozema, ma che bel messaggio! Le donne non si vendicano, c’è un bambino da crescere e tutto il resto non conta, lo spirito della madre dispiega le sue ali e si eleva su mondo barbaro degli uomini, dall’alto della sua saggezza si diffonde sublime la divina indifferenza.
Forse arriverà un messaggero e ci donerà una nuova visione.
Sul lato oscuro della luna, però, c’è la realtà: una donna uccide 5 figli perché il marito, rimasto senza auto, era rimasto a dormire da suo padre più vicino al lavoro; una donna delle pulizie si impossessa del preservativo usato di un milionario per farsi mettere incinta e farsi mantenere a vita e il tribunale le dà ragione; la moglie dice al marito “non ti amo più” e lui deve rinunciare ai figli, lasciare la casa anche se di sua proprietà, pagare il mutuo, versare mantenimento e ridursi in miseria; tra l’85 e il 90% delle accuse femminili di violenza in famiglia sono false… Ma nessun film racconta queste storie. All’arte la realtà non interessa: l’arte è trasfigurazione, la donna angelo e l’uomo bestia non si incontrano più, forse non si sono mai incontrati, forse è stata tutta un’illusione in realtà era solo convenienza.
Alcuni dicono che l’arte è anticipazione. Se questo film è anticipazione, come “Lei” o altri film, il futuro è la conquista dell’autonomia affettiva, la costruzione di mondi separati, la “razza superiore” si costruisce altrove un altro mondo, mentre noi “maschi in via di rottamazione” dovremmo regredire, rubare l’amore e provare a scomparire dalla scena della storia, oppure partire per un nuovo viaggio di Ulisse alla scoperta del mondo e di se stessi. Oppure ancora semplicemente vivere ed amare malgrado tutto, affrontare impavidi i rischi del matrimonio, procreare, mandare avanti il mondo e lottare, prendere coscienza del danno che stiamo subendo, costituirci come resistenza, aprire gli occhi perché la consapevolezza rende liberi. In futuro, chissà, forse arriverà un messaggero e ci donerà una nuova visione.