Di Zbigniew Ziobro, Ministro della Giustizia del governo di Polonia, ci siamo già occupati non molto tempo fa, sul blog che ha preceduto la nascita de “La Fionda” (qui e qui). In allora plaudevamo alla decisione polacca di portare il paese fuori dalla Convenzione di Istanbul in quanto contrastante con la Costituzione, e pare che il percorso polacco verso un ripristino di una normalità razionale non voglia fermarsi. Di nuovo Ziobro è al centro dell’attenzione per una proposta di legge indirizzata a regolamentare il web e i social media. “Un utente dei social media”, ha dichiarato, “deve sentire che i suoi diritti sono protetti. Non può esserci censura sulla libertà di espressione. La libertà di parola e di dibattito è l’essenza della democrazia”. Qualcuno, al di là dei posizionamenti politici, si sente di dargli torto? Noi no. Ma da dove nasce la riflessione del ministro Ziobro?
Tutti, in Polonia come in Italia, come ovunque, abbiamo sperimentato qualche volta le sanzioni dei social network a qualche nostro contenuto o a contenuti altrui. Post cancellati, quando non addirittura il ban di qualche account o, nei casi più gravi, la cancellazione dell’account stesso. Il tutto per volontà sovrana del gestore del social network, qualunque sia, sulla base delle proprie policy interne, sebbene il gestore stesso sia sottoposto alle leggi dello Stato. Qui sta l’anomalia: un doppio binario dove la grande corporate dovrebbe rispondere alla collettività, mentre la collettività (degli utenti) risponde soltanto alla corporate. Ecco allora la correzione proposta: l’utente che subisse sanzioni dal gestore social per contenuti che, pur violando la policy del social stesso, non violano la legge dello Stato, potrà denunciare il fatto. Un tribunale deciderà se si è trattato di censura illegale o no, e nel primo caso potrà emettere multe stellari (fino a 2,2 milioni di euro) per il social network.
Una misura efficace anche contro le fake news.
Termina così in Polonia il potere discrezionale delle grandi corporate di decidere cosa far apparire e cosa no sulle proprie pagine. Sono lo Stato e le sue leggi che prevalgono, non i regolamenti di un’azienda privata. Dunque un utente che postasse su Facebook foto pedopornografiche e vedesse i suoi contenuti rimossi non avrebbe speranza di poter ricorrere ai giudici gridando alla censura, perché la pedopornografia è reato per il codice polacco. Diversamente un utente convinto che le ultime elezioni americane siano state falsate da un gigantesco imbroglio, e vedesse i suoi post rimossi (come capitato a molti su Twitter), potrebbe fare ricorso: la sua è una libera opinione che partecipa a un dibattito, nel suo essere espressa non viola alcuna legge, dunque non è meritevole di rimozione, sanzioni o censura. Al di là dei casi singoli, la legge dà una soluzione d’autorità anche ai frequentissimi casi di sospensioni o cancellazioni immotivate degli account, spesso frutto di automatismi previsti dagli algoritmi che governano i social, per cui talvolta basta un’insistita serie di segnalazioni per far svaporare account con grande seguito e attivi da anni (come capitato al quotidiano online “Poland Daily”, ad esempio).
La Polonia così va a toccare un tema lasciato al dominio delle aziende private per tanto, troppo tempo. E lo fa con un piglio deciso e moderno: per regolamentare le cause di questo tipo è stato infatti creato un tribunale apposito, la “Corte per il Diritto di Parola”, che elaborerà le denunce in 48 ore e, in caso di procedimento, concluderà l’iter in 7 giorni lavorativi al massimo. Ogni caso sarà trattato in via telematica. Avveniristico, uno squarcio sul futuro, insomma, con una portata molto più ampia di quanto sembri. La legge infatti apre questi procedimenti anche ai casi di quello che, con grave banalizzazione, viene definito “bullismo online”: chiunque individui in rete contenuti che ledano i suoi diritti, come definiti dalla legge, potrà segnalarli, anche anonimamente se vuole, semplicemente fornendo il link del contenuto, la data di pubblicazione e il nome dell’utente accusato. Una misura che, ancorandosi strettamente ai codici delle leggi nazionali, intende in qualche modo iniziare a sanzionare anche il dilagante fenomeno delle fake news (su questa falsariga si sono mosse, anche se più timidamente, pure Germania e Francia, per altro).
Il diritto di parola e opinione sopra ogni cosa.
Può non sembrare, ma si tratta di un colpo duro, questo polacco, a una serie di soggetti che da tanto tempo avvelenano il dibattito pubblico, deviandolo o impedendolo. I primi a essere colpiti sono tutti coloro che operano censure proditorie appellandosi al “hate speech” e distorcendo il concetto di “violenza” all’inverosimile. Si tratta di quell’ammasso di snowflakes per i quali dire “sei grasso” è una violenza tanto quanto dire “sei bella” è una molestia, o di quelle femministe secondo cui sollevare il problema delle false denunce significa essere “misogini”, o ancora di quegli attivisti GLBT per i quali svelare le fake news delle aggressioni omofobe significa essere “omofobi”, o ancora di quegli immigrazionisti per cui sollevare dubbi sulla capacità d’accoglienza di un paese significa essere “razzisti”, e così via. Un ciarpame da Social Justice Warrior, da fascismo dipinto di rosa, arcobaleno o di altri colori piacevoli, che con una legge come quella polacca non troverebbe più spazio. Un dato contenuto viola una legge dello Stato? Bene, giusto rimuovere. Non la viola? È libertà d’espressione: se non vi va a genio, confrontatevi e smentite le opinioni altrui in un dibattito libero, altrimenti tacete.
Ma c’è anche un livello molto più profondo, e di fatto molto più importante, che questo tipo di regolamentazione va a toccare. Ed è l’infimo livello in cui da decenni è finito il primato della politica, dello Stato e della legge. Ovunque affossato, seppellito e superato dalle leggi economiche e dalle autoregolamentazioni arbitrarie che le grandi corporate private danno a se stesse, fingendo che la loro esistenza non abbia alcun impatto sulla realtà collettiva. Cosa che, come abbiamo avuto modo di dire di recente, non è. Anzi è sempre più evidente come il mondo del web sia in grado di prevedere e in molti casi di determinare gli orientamenti e le azioni dei suoi utenti. Che sono milioni e costituiscono un fenomeno di massa. Una massa che, nel sentirsi sottoposta all’illeggibile regolamento di questo o quel social, perde il contatto con la cogenza reale delle leggi del proprio Stato, oltre che ogni senso di appartenenza alla comunità nazionale che è alla base di quello Stato. Bene ha fatto la Polonia dunque, e bene faranno gli stati che la imiteranno, magari portando anche oltre il ragionamento. E il pensiero vola alle misere condizioni in cui languono in Italia la Polizia Postale, utilizzata sostanzialmente solo contro la pedopornografia (giustissimo, ovviamente, ma ci sarebbero moltissimi altri campi d’applicazione), le procure e i tribunali italiani, molti dei quali ancora non accettano documentazioni processuali nemmeno se inviate via PEC. Figuriamoci un processo esaurito in sette giorni ed esclusivamente per via telematica… Eppure è lì che ci si dovrà indirizzare, quando qualcuno avrà il coraggio di affrontare la questione con il piglio dovuto, ossia, come minimo, con il piglio della Polonia.