di Manuel Alonge – Il progetto “Ragazze Digitali ER“, come si legge dal sito web, è “un progetto per raccontare che il digitale è un ‘gioco da ragazze’, un’occasione per iniziare a creare nuove opportunità per il proprio futuro, un percorso per lo sviluppo di una società dell’informazione regionale più inclusiva e arricchita dal contributo delle ragazze e delle donne”. Il progetto offre “Summer camp gratuiti, per studentesse del terzo e quarto anno delle scuole superiori dell’Emilia-Romagna”. Si legge che il progetto è finanziato dalla Regione Emilia Romagna. Che sia un intervento riservato al solo sesso femminile trova conferma anche nella determinazione 3185 del responsabile area interventi formativi e per l’occupazione del 22 aprile 2024, che esplicita appunto che la Regione Emilia Romagna destinerà una quota di fondi, dati dal Fondo Sociale Europeo, per le operazioni legate al progetto Ragazze Digitali.
L’intento del progetto sembrerebbe quello di “ridurre il divario di genere” all’interno del settore digitale e informatico, popolato in maggioranza da uomini così combattendo anche i bias socio-culturali che tengono le donne lontane dalle discipline “STEM”, quelle che spesso garantiscono poi percorsi professionali di alto livello e ben remunerati. È ben noto però che tali bias in realtà non esistono: se ne afferma la sussistenza in supporto alla falsa idea che tutto derivi da un sistema patriarcale pensato per escludere le donne da determinati settori. In realtà oggi, in Emilia Romagna come altrove, niente impedisce a una ragazza di fare un percorso formativo in materia digitale e qualunque cosa lo impedisse, agirebbe (giustamente) contro la legge. Se proprio un bias c’è, quindi, esso è semmai insito nelle scelte che ragazze e donne fanno e che, per svariati motivi, non ultima le loro inclinazioni naturali, le inducono a preferire percorsi non-STEM.
La parità “ideologica”.
Chiarito questo, proprio per mitigare l’effetto di queste inclinazioni naturali, è pienamente accettabile di congegnare un sistema di incentivi, ma è anche doveroso ricordare che l’Articolo 3 della Costituzione Italiana afferma chiaramente che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso”. Escludere aprioristicamente i ragazzi, specialmente in un progetto finanziato con denaro pubblico, significa a tutti gli effetti disattendere questo principio. Statisticamente sappiamo che sono moltissimi i ragazzi appassionati di temi digitali che si vedrebbero tagliati fuori dal poter partecipare. Oltre che contrario ai principi costituzionali, tentare di ridurre un divario di genere in questo modo è poco sensato, poiché potrebbe aumentare le divisioni sociali e alimentare, almeno implicitamente, l’idea dell’uomo come soggetto agevolmente “escludibile” dai diritti costituzionali, sulla base di un assunto indimostrato e indimostrabile oltre che puramente ideologico (l’esistenza del patriarcato e dei connessi bias).
Una soluzione più equa potrebbe essere quella di creare dei summer camp o delle iniziative che, al posto di istituire percorsi riservati per genere, quindi incostituzionali, apra gli accessi a tutti, garantendo altri tipi di incentivi (ad esempio economici) al genere femminile, posto che se poi nemmeno una ragazza o donna s’iscrive, il corso si fa ugualmente. Ciò, oltre ad essere conforme alle leggi nazionali, confermerebbe l’assenza di bias strutturali e andrebbe invece ad intaccare i bias intrinseci al genere femminile (ben inteso: anche il maschile ha i suoi…) nel momento in cui deve scegliere i propri percorsi formativi e professionali. Dopotutto, anche se la maggioranza dei morti sul lavoro è costituita da uomini, i quali spesso sono anche la maggioranza di coloro che subiscono infortuni, non vediamo mai dei fondi di risarcimento o iniziative statali in tal senso fatte “ad-hoc” per gli uomini, perché ciò sarebbe parimenti discriminatorio. Su questo tema anzi, abbiamo visto purtroppo comunicati del Senato che diffondono notizie non veritiere, successivamente cancellati. L’incidenza statistica dovrebbe sì essere studiata, tuttavia non dovrebbe fungere da motivazione per non aprire a tutti le stesse opportunità. La parità dei diritti e delle opportunità dovrebbe a mio parere essere trasmessa e insegnata già dalle istituzioni, le quali dovrebbero essere le prime promotrici dei principi su cui si basano, incluso l’articolo 3 della Costituzione.