di Francesco Toesca. Ipotizziamo di riunire in un grande capannone mille persone, scelte assolutamente a caso all’interno di una determinata società. Profiliamole, indaghiamo sulla loro natura, inclinazione, sofferenza. Conteremo un certo numero di depressi, di aggressivi, di remissivi, di intolleranti, di psicopatici, di prepotenti, di potenziali assassini e così via. La proporzione di ciascuno di essi sui mille presenti è in un certo senso sia lo specchio della nostra società che al contempo della natura umana. Patologie personali, psichiche, inclinazioni umane, influssi sociali. Una parte di essi lo è per costituzione innata dell’essere umano, dei suoi sentimenti naturali, mentre una parte di quei comportamenti deriva da influssi sociali. Possiamo definire la prima come componente umana e la seconda come responsabilità sociale. Nel primo caso, si tratta del numero minimo raggiungibile come problema “fisiologico”, ineliminabile per la natura umana stessa, nel secondo come inevitabile conseguenza di assetti sociali strutturali. Ad esempio se la casa è un bene personale da pagare, si avranno di conseguenza anche dei senzatetto perché poveri.
Facciamo lo stesso in un secondo capannone, pescando in un’altra società, completamente diversa. Avremo probabilmente differenti percentuali, che ci indicheranno meglio cosa è fisiologico e cosa è sociale. Più il numero minimo non cambia, più è comune a tutte le società più disparate (ad esempio la tendenza ossessiva al consumismo confrontata tra la società occidentale e quella di una tribù dell’Amazzonia), più possiamo definire quel numero come fisiologico; meno di quello non si può scendere. Per fare un esempio riguardo alla depressione, in questa ricerca possiamo vedere un’analisi che mostra come, anche in contesti europei oggettivamente diversi tra loro, la malattia mentale segua un andamento tutto sommato costante. A livello mondiale il fenomeno è simile, il che dimostra che l’influsso sociale è solo una parte del problema. Quanto ciò sia umano, intrinseco, o con responsabilità sociale è tutto da stabilire, poiché è studiato all’interno di società occidentali simili tra loro, ma è altrettanto provato che sia un disturbo della personalità oggettivo, anche a prescindere dall’influsso sociale, quando comparato tra società completamente diverse. In questo report invece l’OCSE stima la depressione tra i soggetti lavoratori in Europa tra il 2 e l’11%, (al 2% in Italia, punto più basso insieme alla Grecia, ed al 10% nella evolutissima ed industrializzata Germania, il picco quasi più alto, esclusa l’Islanda). Possiamo quindi vedere che c’è una presenza “fisiologica” costante anche nella fase della vita durante la quale ci confrontiamo con le responsabilità sociali e di sopravvivenza. La forbice è più grande, perché si parla di una fase più pressante e la differenza di approccio sociale alla materia (lo status economico richiesto, ad esempio) è diversa. Dunque questo dato ci dice molto riguardo alle imposizioni sociali e mostra l’incidenza dell’aumento della percentuale di responsabilità ambientale sul problema personale.
Siamo forse tutti assolti? No.
Lo stesso discorso si può applicare alla violenza. Esiste un’aggressività personale e una sociale. Se la scienza ci dice che ci sarà sempre un dato “umano”, personale, che prescinde dall’influsso della società, possiamo dunque intervenire per migliorare quelle società e abbassare il più possibile quelle percentuali responsabilizzandoci, ma non possiamo far finta che la violenza (come la depressione) non abbiano un fondamento esistenziale, innato, né che tutta la responsabilità sia culturale e sociale. Non esiste nessuna società che possa modificare o cancellare la natura umana a tal punto. Nel bene e nel male. Dunque rimarrà sempre una certa quantità “fisiologica”. Potremmo quindi dire che ciò che rientra nei numeri fisiologici va affrontato con un certo approccio (aiuto alla persona, contenimento o difesa da essa), mentre quando i numeri eccedono il “fisiologico” l’approccio deve essere diverso e diretto alla collettività, poiché mostra la responsabilità esterna. Questa consapevolezza è dunque al contempo un dovere morale nell’aiutare chi sta male e un’analisi delle cause. Non deve diventare una scusa ma soprattutto deve essere fonte di conclusioni coraggiose e non strumentalizzabili.
Poniamo comunque che come società che si definisce sana vogliamo interrogarci sul perché e sul come rimediare il più possibile a queste sofferenze e a questi mali per abbassare al minimo le fattispecie negative, almeno fino al fisiologico immodificabile. La prima cosa da fare è domandarsi quale sia il gap tra fisiologico e fomentato dalla convivenza sociale: condizioni di vita opprimenti, insoddisfacenti, difficili da esaudire o condizioni umane che sì, vengono attivate o amplificate da condizioni esterne, ma che hanno appunto un carattere naturale, inevitabile. La scienza (medica, statistica, sociologica) può aiutarci a capire se il numero di persone afflitte da un determinato male è fisiologico, verso il quale si può solo agire tramite controllo e contenimento o piuttosto modificabile, riducibile, curabile grazie all’intervento della società, o ancora se sia la società a doversi curare per non generarlo o fomentarlo negli individui. Per quanto sia difficile da inquadrare e sia “politicamente scorretto” dirlo, esiste un limite minimo di manifestazioni che le lascia nella “fisiologia inevitabile” o che, se superato, tira in ballo un influsso sociale. Significa forse che siamo tutti assolti per quel “fisiologico”? No di certo. Ma un conto è intervenire su un male della persona, intrinseco, altro conto è attribuirne le responsabilità al soggetto sbagliato e vanificare gli sforzi accusandone l’intera comunità o cultura.
La mistificazione è sempre in agguato.
La società ha quindi il dovere morale di indagare le cause, attraverso la scienza e la conoscenza, per approntare diversi tipi di intervento a seconda del soggetto “responsabile”. Responsabilità sociale o responsabilità individuale, o una combinazione delle due. Questo è un punto di estrema importanza perché decide verso chi dirigere gli sforzi e chi mettere sotto esame. Se sono comportamenti individuali, l’intervento va fatto verso i singoli (ad esempio interventi giudiziari, legislativi, punitivi, di controllo o dissuasione), se la responsabilità è sociale l’intervento deve essere rivolto verso la società (ad esempio a livello politico e culturale). Il fatto che le due cose possano spesso sovrapporsi (violenza fisiologica unita a contesto sociale teso, ad esempio) rende solamente più delicato l’intervento e la comprensione dei motivi, ma non annulla la necessità di distinguere le responsabilità. Ciò definisce la volontà responsabile della società nel migliorarsi (quanto tenda quindi ad essere sana), la capacità di essere obiettiva e realista e di assumersi le proprie responsabilità, di essere capace, di aiutare il singolo nella sua sofferenza pur non essendone la causa e via dicendo. Dunque, ci si trova ad un bivio. Si pone inoltre una questione di “onestà intellettuale”, ossia quanto la società sia capace di ammettere le proprie responsabilità, quanto sia vaccinata contro le strumentalizzazioni da parte di componenti che mistifichino il punto e vogliano, per interessi propri, far passare letture che non siano aderenti alla realtà. Vicoli ciechi che fingendo di affrontare un problema sociale conducono al nulla dal punto di vista del miglioramento o peggiorino il male, creando al contempo un percorso lastricato di profitto per chi se ne occupa.
Potremmo dunque dire che in un processo di identificazione del male nei singoli, la società mette non solo sotto esame se stessa quale responsabile di quei mali, ma ancora di più mostra se è capace di comportarsi in maniera sana nel risolvere i problemi o se ci lucra, se è capace di non assolvere né se stessa né il singolo, o al contrario colpevolizzare il soggetto sbagliato. Un po’ come un buon chirurgo che cura l’osteoporosi per quello che è o impianta una protesi che non serviva ma che gli frutta un bell’introito. La società dunque si mette allo specchio ogni giorno, proprio in quanto società, e può scegliere se mistificare o essere rigorosamente onesta. Ora, nel definire i mali che affliggono gli individui come innati nella persona (e i corrispettivi numeri fisiologici), oppure come responsabilità consapevole del singolo colpevole, oppure ancora come una combinazione dei vari elementi, cioè una patologia o un comportamento umano che viene fomentato da situazioni sociali, o infine come un tutto derivante da fattori sociali, ci si prende una bella responsabilità. La mistificazione è sempre in agguato, e mentre si pensa che definirli attinenti al singolo sia una presa d’atto per mettere a punto l’intervento (sulla persona invece che sulla comunità), come appunto un buon medico, è gioco facile accusare chi compie questi distinguo di volersi sfilare da responsabilità sociali o di voler legittimare comportamenti dannosi.
Il doppio standard istituzionalizzato.
Da qui l’estrema difficoltà, oggi, a parlare di violenza fisiologica. A quanto pare neanche il confronto con altre società semplifica la comprensione delle responsabilità. Ad esempio, e per tornare ai temi cari a questo luogo di discussione, il fatto che l’Italia sia definito a livello mondiale e da organi estremamente autorevoli come uno dei Paesi più sicuri al mondo per le donne non ci salva da un battage interno continuo, martellante, quotidiano, che ci definisce una società maschilista e pervasa dalla cultura dello stupro. Una propaganda che, a prescindere dai dati reali, mistifica l’influsso sociale e colpevolizza il soggetto sbagliato, attribuisce responsabilità alla collettività invece che ai singoli. In questo video una parlamentare spagnola afferma una verità incontestabile: “l’uomo non maltratta, maltratta il maltrattatore; un uomo non uccide; uccide un assassino”. Concetto espresso a chiare lettere nel nostro Codice Penale. Ossia, la responsabilità criminale è individuale, la collettività non può essere ritenuta responsabile dei crimini individuali. La sovrapposizione dei due concetti è ipocrita e strumentale. Se peraltro è vero che la cultura influenza i comportamenti individuali, mentre non esiste un solo libro, film, giornale, telegiornale, salotto politico, programma politico che giustifichi lo stupro, lo stesso non si può dire dei comportamenti criminali femminili, sempre attenuati, giustificati, tollerati, assolti, motivati, umanizzati o non riconosciuti come esistenti.
Che l’Italia stia compiendo questa mistificazione è un dato di fatto. Lo dimostra la differenza di condanna che riserva agli autori di crimini maschili e femminili. Un figlicida uomo è un criminale (responsabilità consapevole e colpevole), una figlicida donna è affetta da depressione (responsabilità impunibile poiché incontrollabile) e dunque va assolta o compresa. Una donna suicida è vittima della società che non la capisce, un suicida uomo è un codardo incapace di adeguarsi alle responsabilità che gli spettano. Una donna che getta acido ad un uomo sfigurandolo è affetta da disturbi psichiatrici e quindi non punibili, un uomo che fa lo stesso va punito dieci volte di più perché perfettamente responsabile. Come se non bastasse, il comportamento maschile criminale è preso come rappresentante del comportamento maschile dell’intera società, mentre quello femminile è subito circoscritto alla persona, definita “non-madre, non-donna, non-rappresentativa delle donne perché una vera madre, una vera donna, certe cose non le fa.
Nessuna uguaglianza, a dispetto della Costituzione.
Questa valutazione, l’attribuzione di colpe individuali, responsabili, incontrollabili o sociali, è completamente stravolta e differenziata in base al sesso. Non serve fare esempi ripetitivi, basta consultare il lavoro di illustri ricercatori quali Fabio Nestola per confermare questa doppia lettura. Se questa differenza valutativa fosse circoscritta a contesti oggettivamente diversi per i due sessi, ad esempio l’approccio al periodo della gravidanza, sarebbe opinabile che non si possono applicare gli stessi parametri. Ma il fatto che venga applicata in maggior numero ad eventi identici (ad esempio la fine di una relazione, la gelosia, la vendetta, il divorzio, l’insofferenza per le condizioni economiche e sociali, le difficoltà a relazionarsi con la famiglia, la privazione dei diritti della persona) rende evidente che l’approccio è totalmente ipocrita e strumentale, che si vuole coscientemente applicare un doppio metro per i due sessi. Mentre si parla ogni giorno della sofferenza psicologica della donna come attenuante, si ignora completamente quella maschile. Mentre si considera attenuante l’infermità mentale per le donne, si considera aggravante la stessa negli uomini. Un soggetto psicotico e violento uomo va isolato in carcere, massacrato socialmente ed esecrato, una donna con le stesse caratteristiche va reintrodotta nella società e compresa dalla collettività. Gli uomini in carcere e le donne ai domiciliari o temporaneamente in luoghi di “cura”. Gli uomini socialmente linciati e disumanizzati, le donne assolte con empatia ed umanizzate.
Come vediamo, si è completamente gettata alle ortiche ogni oggettività: la definizione di “comprensibile perché umano” è diventata nel caso delle donne una (ingiusta) assoluzione continua, mentre negli uomini tale componente è giudicata regolarmente tossica, da estirpare, come se la società avesse il coraggio di essere corretta solo verso gli uomini e indulgente verso le donne. Come si diceva all’inizio, una società sana non assolve i crimini, non li attribuisce a chi non ne è responsabile, li identifica a seconda delle circostanze come follia o scelta voluta senza differenze tra i sessi, si interroga sulla propria parte di responsabilità, ma soprattutto tratta tutti allo stesso modo. O siamo una massa di malati patologici da comprendere, o siamo una massa di soggetti irresponsabili, o siamo una massa di animali da rinchiudere e buttare la chiave, o siamo persone da capire e da giudicare. Ma tutti però. I 37 “femminicidi propriamente detti” annuali siano responsabilità dei 37 assassini, come gli omicidi per mano di donna sono responsabilità di quelle assassine, i figlicidi siano responsabilità delle madri figlicide, criminali quanto i padri figlicidi, le aggressioni con l’acido siano trattate tutte alla stessa maniera (un crimine aberrante da punire per tutti in egual maniera), un padre suicida sia un irresponsabile quanto lo è una madre o sia un soggetto da comprendere quanto una madre. Ciò che accade oggi non è questo, a dispetto dell’art. 3 della Costituzione che dice “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.