di Giuseppe Tarantini. Nella dura e triste realtà dei problemi di genere (quella vera e non mediata dai filtri ideologici dell’informazione), troviamo il pozzo oscuro del suicidio maschile. Chi è nostro assiduo lettore conoscerà bene questo problema che da tempo viene denunciato, con una certa ricorrenza, in vari articoli del precedente blog (come “Quelle morti che richiamano a essere uomo” o “Il mistero dei suicidi maschili”). I numeri sono di un certo spessore, nel nostro paese si viaggia su una media di 3000 uomini all’anno. I suicidi maschili vanno a ricoprire circa l’80% dei suicidi totali (percentuale sovrapponibile alla maggior parte delle statistiche internazionali) ed evidenziano sempre più una questione di genere. La sensibilità collettiva non risponde però al problema, allarmata da falsi miti sembra tralasciare questo sintomo di degrado sociale, proseguendo anestetizzata lungo il suo percorso a senso unico.
È recente la notizia di un altro suicidio commesso da un uomo disperato: lo scorso 31 agosto lo statunitense Ronnie McNutt ha deciso di farla finita con un colpo di pistola alla testa. Ma questa volta c’è però un particolare terribile: Ronnie ha deciso di togliersi la vita in diretta video su Facebook. Ma chi era Ronnie McNutt? Cosa può averlo portato a un gesto del genere? Il povero ragazzo aveva 33 anni quando si è ucciso. Veterano del servizio in Iraq e con un’esperienza militare alle spalle che lo portò a soffrire di PTSD (disturbo post traumatico da stress), frequentava assiduamente la chiesa di Tupelo e lavorava nello stabilimento Toyota a Blue Springs. Nell’ultimo periodo però la vita non gli andava bene, aveva perso sia lavoro che fidanzata (colpi duri da assorbire quando arrivano simultaneamente) e l’animo del giovane uomo, che gli amici definivano “premuroso ed eccentrico”, aveva cominciato ad entrare in un crescente vortice di malessere.
Essere uomini non significa essere indistruttibili.
“Nella tua vita alcune persone avranno bisogno di sentire che valgono, che sono amate, che hanno un futuro. Sii chi glielo dice”. Questa è l’ultima pubblicazione di Ronnie prima del suicidio, un messaggio che rappresenta quasi un grido di sofferenza, specie se riletto dopo l’accaduto. Ma non è bastata la tragedia da sola a creare abbastanza sofferenza, peggio dell’indifferenza nei confronti di un suicida c’è solo la spettacolarizzazione del suo gesto, e il suicidio di Ronnie sarebbe diventato a breve un meme. Infatti, nonostante Facebook avesse rimosso l’inquietante video, evidentemente l’arco di tempo lungo il quale era rimasto online è bastato a far sì che venisse condiviso, diventando virale nell’arco di una settimana (specialmente su TikTok). Se quindi la notizia di un uomo che si suicida dopo aver perso tutto non basta a catturare l’attenzione, il fatto che il suo suicidio sia visibile sul web è bastato a dare al caso una rilevanza internazionale, in barba al tatto e alla serietà che certi temi chiederebbero per essere diffusi e trattati.
In questo terribile teatrino di cinismo, Josh Steen (caro amico di Ronnie) torna a restituire toni umani alla faccenda. Racconta di Ronnie e delle sue problematiche: “terminato il servizio non è mai tornato a essere lo stesso ragazzo che era partito per l’Iraq. Ho passato molte notti nel mio studio a parlare con lui, tramite messaggio o di persona, della sua vita e delle sue difficoltà. I problemi psicologici sono qualcosa di reale, onestamente penso che ci siano moltissime persone che lottano su più fronti contro questo genere di malattia”. Prosegue poi parlando del fenomeno di diffusione virale del video: “Troll e bot sono stati legittimati a svilire e infastidire la sua famiglia, anche dopo che Facebook ha convertito la pagina di Ronnie in una pagina commemorativa, dato che non avevano accesso all’account”, dice lasciandoci solo immaginare la terribile tortura subita da chi era vicino alla vittima. La vita e la morte di Ronnie ci descrivono molto del modo in cui la società considera gli uomini, la loro sofferenza, la loro morte. Il giovane veterano ha pagato con un disturbo post traumatico il proprio dovere da soldato, ritrovandosi poi a 30 anni senza lavoro e senza amore. Il modo in cui la società ha accolto il suo gesto dovrebbe farci riflettere molto sulla tenuta etica del nostro sistema. Il suo gesto invece dovrebbe ricordarci solo che essere uomini non significa essere indistruttibili.