Ieri il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha presentato il Recovery Plan, ovvero il programma necessario affinché le istituzioni europee concedano all’Italia il mega prestito-capestro del Recovery Fund. Ne abbiamo già parlato in passato, notando come, curiosamente, non ci sia un capitolo specifico dedicato alla “parità”, intesa alla femminista come concessione di soldi, prebende, privilegi e vie preferenziali alle donne e alle loro asserite rappresentanti (le femministe e le loro organizzazioni). Con strategia molto astuta, questi interessi hanno preferito nascondersi tra le pieghe di ogni capitolo trasformandosi in una linea di indirizzo trasversale, in associazione alla tematica dei giovani. Questo impegna il Recovery Plan italiano a declinare in chiave rosa (e giovane) ogni capitolo di destinazione del denaro europeo. Si parla di riciclo dei rifiuti? Di efficientamento energetico? Di rinnovamento della sanità? Qualunque sia il tema, occorrerà nella pratica includere disposizioni di inclusione e incentivo per donne e giovani. Con ciò gli interessi che da anni prosperano attorno all’asserita penalizzazione femminile si sono garantiti un presidio e una linea di credito attraverso tutto il Recovery Plan.
Sì ma, molti si chiedono, a che titolo questo è stato fatto? Perché giovani e donne e non anche, esodati, omosessuali, immigrati, disabili o qualunque altra categoria oggettivamente disagiata reperibile nel corpo sociale? Perché, questo è l’assunto in premessa, anche le donne sono una categoria oggettivamente disagiata, se non forse LA categoria disagiata, oppressa ed emarginata per antonomasia. È vero? Naturalmente no. Da tempo ormai donne e uomini, senza distinzioni, godono la pienezza dei loro diritti e delle loro possibilità: qualunque sbilancio “di genere” deriva da diverse scelte individuali che per natura si allineano sulla categoria del genere. E non c’è nulla che si possa fare, come dimostra il paradosso scandinavo (e tanti altri fenomeni simili), per riequilibrare la situazione. Anzi più ci si prova, più le scelte individuali dei due generi si radicalizzano. Dunque? Dunque serve una scusa, un alibi, una giustificazione per poter creare linee di credito dove interessi costituiti possano mettere le mani. Ed è così che nasce la madre di tutte le falsificazioni, nell’ambito delle disparità di genere nel mondo del lavoro e nell’economia: il gender pay gap, in italiano “divario salariale di genere”.
Una breve lezione di statistica di base.
Si è sfiorato l’argomento ieri sera, durante l’interessante webinar organizzato dall’associazione “Bon’t Worry”, cui siamo stati gentilmente invitati. I temi sul tavolo erano tantissimi e non abbiamo trovato il modo di soffermarci su questo nello specifico. I nostri interlocutori hanno asserito con grande disinvoltura il concetto noto: «le donne vengono pagate il 30% in meno degli uomini a parità di lavoro». Ecco perché le misure del Recovery Plan trasversalmente focalizzate sulle donne è sacrosanto e non va messo in discussione. Qua e là abbiamo fatto notare alcune incongruenze che falsificano alla radice il gender pay gap, ricorrendo ai ragionamenti consueti: i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, leggi dello Stato, fanno divieto di pagare meno una donna a parità di mansioni di un uomo, e se davvero fosse legittimo farlo, per la legge del mercato verrebbero assunte solo donne, cosa che invece non avviene. Basta questo per invalidare la grande bugia del divario salariale, ma se ci si confronta con soggetti solidamente ancorati alle proprie convinzioni e ai propri miti, l’ovvietà non basta, serve andare alla radice del ragionamento. Ed è quello che faremo ora, anche a costo di fare una specie di pedante lezione di statistica. A partire dalla domanda: ma quel 30% di ipotetico divario da dove salta fuori?
Seguiteci, per favore. In statistica esistono tre tipi di medie (tecnicamente “indici di tendenza centrale”): la media aritmetica, la moda e la mediana. La prima è quella che conoscono tutti, ed è la somma dei valori di una serie diviso il numero dei valori. Ho cinque persone di diversa statura: sommo le cinque misure, divido per cinque e ho l’altezza media di quel gruppo di persone. Serve? Sì: presa con le dovute cautele, la media aritmetica può dare informazioni utili, specie nel confronto degli andamenti medi di un fenomeno nel corso del tempo. La moda è un’altra cosa: data una serie di valori, si individua quello che appare più volte. Registro il peso di dieci persone e riscontro che 3 di loro pesano 55 Kg, 5 pesano 62 Kg, 1 pesa 80 Kg e 1 pesa 105 Kg. Ebbene in questo caso la moda è 62 Kg, perché è il valore che ricorre più spesso. Questo indicatore serve? Sì: anch’esso, visto in una prospettiva temporale, può dare indicazioni di prevalenza di un fenomeno (si pensi ai decessi in base a determinate patologie nel corso di un tot di anni). Infine abbiamo la nostra vera protagonista, che è la mediana: dato un elenco (serie) di valori ordinati dal più piccolo al più grande, si tratta banalmente del valore che sta nel mezzo (se abbiamo un numero dispari di valori) o i due valori che stanno nel mezzo (se abbiamo un numero pari di valori). Ipotizziamo di misurare il numero di scarpa di un gruppo di cinque persone e di riscontrare questi dati: 38, 39, 40, 42, 45. La mediana è il valore di 40, perché è quello che sta in mezzo alla serie ordinata. Serve? Quasi a nulla, è raro che in statistica si utilizzi la mediana, se non per far fare qualche esercizio di logica e statistica di base ai ragazzi delle medie. Fine della lezione di statistica, torniamo al gender pay gap.
Una truffa statistica alla base degli incentivi del Recovery Plan.
Ebbene, è possibile oggi chiedere all’INPS di elencare tutti gli stipendi che vengono erogati in Italia a norma di CCNL, messi in ordine dal più basso (un/una operatore di call center, un rider o similari) al più alto (il super-mega manager) e divisi per genere. Avremo due elenchi ordinati: da una parte quello degli stipendi femminili, dall’altra quelli maschili, entrambi dal più basso al più alto. Il divario salariale di genere è il confronto tra le mediane delle due liste. Cioè si prende il valore che sta nel mezzo dell’elenco maschile e lo si paragona con il valore che sta nel mezzo dell’elenco femminile. Dal confronto salta fuori effettivamente che c’è una differenza all’incirca del 30%. Ma è un dato significativo? Assolutamente no, ed è piuttosto facile spiegarlo usando un paragone calcistico. Sarebbe come prendere la squadra che sta esattamente a metà della classifica della Serie A italiana, ipotizziamo il Pizza Calcio, con il suo punteggio, ipotizziamo 24, e compararla con la squadra che sta esattamente a metà classifica nella Bundesliga tedesca, ipotizziamo la squadra del Birkenstock, con il suo punteggio, ipotizziamo 16. Dal confronto risulta che il Pizza Calcio ha un punteggio più in alto del Birkenstock. Qualche ignorante o qualcuno in malafede potrebbe dedurre perciò che il Pizza Calcio è più forte del Birkenstock. Sarebbe una deduzione corretta?
Per niente, perché non terrebbe conto del numero di partite giocate e ancora da giocare delle due squadre, degli eventuali infortuni di giocatori-chiave di entrambe, di eventuali penalizzazioni comminate dalle rispettive federazioni, dal fatto che per due partite di fila l’allenatore del Pizza Calcio o del Birkenstock erano di malumore e hanno schierato tutti i brocchi perdendo due partite facili, più una montagna di altre variabili di cui la mediana non tiene minimamente conto. Con il divario salariale di genere capita la stessa cosa: si confrontano due valori statistici pressoché irrilevanti e dall’esito del confronto si trae una conclusione priva di fondamento, che non tiene conto delle innumerevoli variabili che incidono sul “punteggio” di uomini e donne nel campionato del mondo del lavoro. Alcuni studi universitari anglo-americani, aree dove per altro non hanno strumenti rigidi come i CCNL, hanno quantificato in 27 le variabili che incidono sulle differenze salariali (e tra di esse il sesso del lavoratore non è incluso). Di esse nemmeno una viene tenuta in considerazione dalla mediana e dal suo utilizzo per calcolare il divario salariale di genere. Nemmeno le altre due medie ne terrebbero conto, ben intesi, ma è significativo che già solo il confronto tra le medie aritmetiche (dunque non le mediane) tra le retribuzioni di uomini e donne riduca il presunto gap dal 30% a una percentuale fortemente inferiore. Se si andasse poi a esaminare il fenomeno tenendo conto della maggior parte di quelle 27 variabili, si riscontrerebbe che il divario salariale di genere si riduce a uno zerovirgola. Questo è il motivo per cui il gender pay gap è una grande truffa. Cosa nota ai più, ben intesi, qui abbiamo solo spiegato la radice statistica della falsificazione, ma non è questo che conta. Ciò che conta è che sulla base di tale truffa il Governo italiano ha deciso, da ieri, di distribuire una montagna di risorse economiche a favore di un genere soltanto, quello femminile, trasversalmente a tutte le tematiche toccate dal Recovery Plan italiano. Che poi, è chiaro, le donne ordinarie non vedranno un centesimo, tutti i soldi resteranno appiccicati alle dita delle entità che si autonominano intermediarie per le donne, cioè associazioni, cooperative, sindacati e similari a carattere femminista… È bene in ogni caso che i giovani di sesso maschile tengano conto di tutto questo e se lo ricordino quando, nei prossimi anni, non troveranno posti di lavoro in nessun settore perché occupati da donne, la cui assunzione risulterà potentemente incentivata con detassazioni ad hoc (anzi ad generem) o vere e proprie sovvenzioni prestate dall’Unione Europea.