«Mi ricordo come se fosse ora della fila di giovani nudi, anneriti, magri che avevo intorno […] non poteva trovarsi un giovane che fosse abile alle armi, tanto che gli stenti e le fatiche avevano deformato e reso deboli quelle popolazioni». È ciò che annotò negli anni ’70 del XIX secolo il giovane medico del regio esercito italiano Angelo Mosso quando venne chiamato a passare in rassegna gli iscritti alla leva militare di alcuni comuni siciliani il cui sostentamento dipendeva dall’estrazione dello zolfo. Il giovane medico parla dei carusi, i «piccoli “schiavi” nelle miniere di zolfo di Sicilia». Questi giovani erano «inabili» perché durante l’infanzia «…il trasporto delle pietre gravava unicamente sulle deboli spalle di ragazzini di 8-10 anni: a pieno carico i cosiddetti stirratura (ceste, contenitori) pesavano dai trenta agli ottanta chili, quindi fino a circa il doppio del peso medio di un ragazzino di quell’età». Nel XIX secolo l’atavica miseria dei contadini siciliani rendeva necessario alle famiglie procurarsi una fonte di guadagno anche dalle piccole braccia dei bambini. Ai genitori del bambino veniva corrisposta anticipatamente una somma di circa 100/150 lire per il caruso, che andava riscattata con il lavoro del figlio. I pochi centesimi giornalieri che costituivano la paga dei carusi rendeva praticamente impossibile l’estinzione del debito, mentre la fatica a cui erano sottoposti li faceva spesso crescere storpi o rachitici. È molto significativo che lo Stato si interessasse a questi giovani soltanto in quanto carne da macello: «abili alle armi».
L’educatore e scrittore afroamericano Booker T. Washington, un ex schiavo, nel 1912 scrisse a proposito dei carusi: «Da questa schiavitù non vi è alcuna speranza di libertà, perché né i genitori, né il figlio potranno mai avere denaro sufficiente per rimborsare il prestito originario. […] Le crudeltà a cui i bambini schiavi erano sottoposti, come riferito da coloro che li hanno visti da vicino, nessuna crudeltà simile è mai stata segnalata nella schiavitù dei negri. Questi ragazzi schiavi erano spesso picchiati e malmenati, al fine di estorcere dai loro corpi sovraccarichi l’ultima goccia di forza. Quando i pestaggi non erano sufficienti, vi era l’usanza di bruciare i polpacci delle gambe con le lanterne per rimetterli di nuovo in piedi. Se avessero cercato scampo da questa schiavitù, erano catturati e percossi, a volte anche uccisi». Questa tragica realtà è stata raccontata in una delle novelle di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, caruso di miniera come tanti altri, che vede l’unico riscatto da una vita di sofferenze solo nella morte, alla quale Malpelo va incontro consapevolmente e con un senso di liberazione, quando gli viene ordinata un’esplorazione nel ventre della miniera. Lo zolfo in Sicilia è sempre stato estratto, di sicuro già fin dall’epoca romana, quando i prigionieri venivano mandati ai lavori forzati “ad metalla” (nelle miniere). Il grande sviluppo delle solfatare avvenne agli inizi del XIX secolo, con la produzione della polvere da sparo. Migliaia di uomini e di bambini sono morti nelle profondità della terra lungo i secoli. Altre decine di migliaia di sopravvissuti crebbero fra la paura e il terrore delle malattie, dello sfruttamento e del buio delle solfatare. Un’agghiacciante realtà tutta al maschile che era tragicamente presente nel XIX secolo e sincronica alla nascita e allo sviluppo dell’ideologia femminista nel mondo.
Le femministe non potevano non sapere.
Oggigiorno nulla è cambiato: i minatori continuano ad essere trattati «come dei muli umani, i minatori del vulcano Kawah Ijen di Giava trasportano sulle spalle 70 chili di zolfo attraverso un pericoloso e ripido sentiero…». Oggigiorno «il lavoro più duro del mondo» continua ad essere svolto da uomini. Se attualmente la deliberata censura da parte delle femministe di questa sofferenza maschile, se la loro parziale e tendenziosa narrazione merita un rimprovero morale, parimenti lo merita la stessa censura messa in atto dalle prime femministe nei confronti della sofferenza maschile dell’epoca. Qualcuno potrebbe obiettare che questo rimprovero dovrebbe essere rivolto unicamente verso le femministe italiane dell’Ottocento: in un mondo senza Internet, le femministe anglofone non erano tenute a conoscere la condizione dei minatori italiani. Se non fosse che tra il 1850 e il 1914, cioè durante il femminismo della prima ondata britannico, sono morti nel Regno Unito oltre 90.000 minatori. Le femministe britanniche non potevano non sapere. Valga come semplice esempio la celebre opera El peón, del pittore Aleix Clapés (1850-1920), dipinta e in mostra nella sala Parès di Barcellona già nel 1886. Clapés non è né siciliano né britannico. Clapés non lavora in miniera. Eppure lui sa. L’opera è esposta pubblicamente in una galleria d’arte. Per venire a conoscenza delle terribili condizioni degli uomini in miniera le femministe non dovevano necessariamente visitare le miniere, bastava recarsi alle mostre.
In realtà non era necessario nemmeno che si interessassero all’industria mineraria, per capire la condizione degli uomini dell’epoca bastava seguire con un po’ di attenzione il decorso delle grandi opere pubbliche che venivano costruite in quegli anni. Nel 1845 fu inaugurata la galleria di Woodhead, una delle gallerie ferroviarie più lunghe del mondo e la prima galleria trans-pennina, nel nord dell’Inghilterra, che univa Manchester-Sheffield. Un evento nazionale. Durante la costruzione 30 lavoratori persero la vita, 200 lavoratori rimasero mutilati e 450 riportarono lesioni di qualche tipo a causa delle dure condizioni di lavoro. Il viadotto di Ribblehead nello Yorkshire fu inaugurato nel 1874. La costruzione richiese una grande forza lavoro, fino a 2.300 uomini, la maggior parte dei quali viveva in baraccopoli allestite vicino alla sua base. «Durante la costruzione persero la vita oltre 100 uomini, un numero non insolito per l’epoca». Ponti, gallerie, acquedotti, edilizia… dove erano queste donne quando «un numero non insolito per l’epoca» trovava di continuo la morte nella costruzione delle grandi opere nazionali? Dove si trova raccontata questa tragica condizione degli uomini nelle migliaia di pagine di denuncia della condizione delle donne?
“Come scarafaggi”.
Ipotizziamo per un momento che tutte queste donne fossero all’oscuro della situazione degli uomini nelle prigioni, nelle miniere e delle loro condizioni lavorative. Queste donne vivevano nel Regno Unito e dovevano per forza essere a conoscenza dei disordini e delle rivolte che avvenivano a livello nazionale. Nel 1830 ci furono le rivolte contadine di Swing Riots. Quasi 2.000 manifestanti furono processati, 19 di loro furono impiccati, 644 furono imprigionati e 481 furono trasportati nelle colonie penali in Australia. Perché questi uomini, che le femministe dipingevano come dei privilegiati, protestavano, rischiando addirittura la libertà e la vita? Come potevano essere all’oscuro della repressione che questi uomini avevano subito? Inoltre c’erano le guerre, argomento già trattato, ad esempio su una figura emblematica del femminismo “buono” come Virginia Woolf (1, 2, 3). «Virginia non poteva non aver visto l’aumento esponenziale del numero degli storpi, ciechi e sordi per le strade dell’Inghilterra, come avviene dopo ogni guerra. Lei fu testimone diretta della seconda guerra boera (1899-1902) e della Prima guerra mondiale». Donna benestante e aristocratica, una vita trascorsa tra vacanze, viaggi, feste… dedica la sua opera a denunciare la condizione delle donne e ignora platealmente la condizione degli uomini. Con la sua amica e compagna sentimentale si diverte a definire gli operai «dall’odore nauseabondo» che «strisciano ovunque sul pavimento» come «scarafaggi». Suicidi, morti sul lavoro, miserabili barboni, mutilati e condannati a lavori forzati, soldati morti sul fronte… l’elenco della sofferenza maschile è lungo oggi, e lo era di più ieri. A cosa serve citare ulteriori esempi? (per ulteriore approfondimento rimando alla lettura dell’opera La grande menzogna del femminismo). È impossibile che le femministe della prima ondata fossero all’oscuro della talvolta tragica condizione degli uomini. La verità è che le femministe della prima ondata se ne infischiavano, come se ne infischiano le femministe attuali. Da tutte le femministe, pioniere o successive, affiora la stessa terrificante mancanza di empatia verso la sofferenza maschile.