di Santiago Gascó Altaba. In Spagna, alla Camera dei Deputati è stata approvata questa risoluzione: “Il Congresso dei Deputati, che riconosce l’esistenza di una violenza specifica contro le donne in quanto donne, invita il Governo di Spagna a combattere discorsi maschilisti e negazionisti della violenza di genere e a continuare a promuovere il Patto di Stato contro la Violenza di Genere”. Come si può leggere, la risoluzione associa la critica al concetto di violenza di genere a un atteggiamento maschilista (“discorsi maschilisti e negazionisti” invece di “discorsi maschilisti o negazionisti”). Chi critica è maschilista. Inoltre la critica diventa negazionismo, un termine molto recente, coniato presumibilmente nel 1987 dallo storico Henry Rousso nel suo libro Le syndrome de Vichy per definire, anzi stigmatizzare, gli storici revisionisti che criticano o contestano l’esistenza dei campi di sterminio nazisti così come li conosciamo oggi. Premesso che io sono favorevole alla libertà di parola sempre, indipendentemente da quel che si proclama (le idee si combattono con le idee, non con i divieti), adoperare il termine “negazionismo” nell’ambito della violenza di genere è un’operazione, oltre che meschina, cretina.
Confrontiamo queste due frasi: “i nazisti uccisero milioni di ebrei”; “le donne subiscono violenza in quanto donne”. La prima proposizione è confortata da innumerevoli testimonianze, fonti e prove storiche. Non si valutano le intenzioni, si contano i morti. Si tratta di un fatto. La seconda, che adoperano governi, istituzioni e partiti politici, è nel migliore dei casi un’interpretazione, nel peggiore un’opinione. Si valutano le intenzioni. Una lettura della realtà, soggettiva, e ancora oggi molto controversa. L’uso della parola “negazionismo” nel mondo delle opinioni fa spostare la semantica del termine al di fuori del dominio dei fatti: quindi fa diventare i fatti (i campi di sterminio) un’opinione in più. Per quanto assurdo possa sembrare, questo uso inappropriato del termine non fa che rafforzare la causa di quelli che negano Auschwitz, perché affievolisce la carica critica del termine fino a farla scomparire. Se, ad esempio, definiamo “fascista” qualsiasi atto, anche molti di quelli che non lo sono, per il solo fatto di voler stigmatizzare una posizione politica avversaria, allora il termine sbiadisce a vantaggio di quelle persone o atti che appropriatamente si potrebbero definire “fascisti”.
Il crimine passionale sopravvive quando il soggetto passionale aggressore è femminile.
Arrivati a questo punto, marchiato dal Parlamento spagnolo come maschilista e negazionista (col rischio, speriamo di no, che un giorno la risoluzione diventi legge), sono costretto a spiegare per l’ennesima volta perché contesto il concetto di violenza di genere, e lo farò da un punto di vista unicamente linguistico. Primo, il sintagma “violenza di genere” non stabilisce alcun sesso, semanticamente è bidirezionale. Al contrario, il termine inteso dal Parlamento spagnolo (e da tutte le istituzioni) è “violenza maschile”, l’uso dunque è erroneo. Secondo, in ogni violenza ci sono due attori, l’aggressore e la vittima, la violenza quindi può essere classificata a seconda della prevalenza numerica di questi due elementi. Di nuovo, il sintagma “violenza di genere” non predetermina alcuno di questi due elementi. Di nuovo, il Parlamento fa un uso fazioso del termine poiché designa la violenza dall’aggressore, non dalla vittima.
Se a determinare la violenza fosse la vittima, sarebbe molto più corretto intendere per violenza di genere la violenza esercitata contro gli uomini. E molto più probabile che un uomo muoia tanto per mano maschile quanto per mano femminile in quanto uomo, che un donna lo faccia in quanto donna. E su questo punto non esiste statistica che tenga, è un giudizio fattuale: le tombe maschili predominano nei cimiteri con una superiorità numerica schiacciante quando si tratta di violenza. Terzo, anche quando la violenza fosse determinata unicamente dall’aggressore, il sintagma “violenza di genere” continua a non prefissare il sesso secondo la sua prevalenza numerica. Anche in questo caso il Parlamento intende unicamente ed esclusivamente il sesso predominante dell’aggressore, il sesso maschile. Dunque avviene nella realtà legislativa un paradosso irrisolvibile e assurdo, che la violenza smette di essere violenza di genere quando l’aggressore è una donna. Nella legislazione e nell’immaginario collettivo il crimine passionale sopravvive quando il soggetto passionale aggressore è femminile.
Tra i numerosi insulti possiamo iniziare ad aggiungere anche quello di negazionista.
Quindi, il concetto di violenza di genere, così come oggi è concepito dalle istituzioni, ossia come “violenza maschile”, è un affronto alla razionalità e alla logica. La violenza esercitata contro una donna in quanto donna esiste in Occidente nei casi delle aggressioni sessuali, una violenza, non molto comune, che subiscono anche gli uomini. L’unico motivo dell’esistenza di questo sintagma, in imbarazzante conflitto con la ragione e la logica, diffuso nelle istituzioni e nei media, e il suo uso associato inappropriatamente al termine di negazionismo, addirittura in un Parlamento, è da ricercare nel predominio ideologico del femminismo. La narrazione femminista si costruisce contro l’altro, contro l’altra metà dell’umanità. Il conflitto, lo scontro, è la sua linfa, senza la quale non esisterebbe, dunque la separazione tra colpa e innocenza deve essere netta in ogni ambito, compreso l’ambito della violenza. Il sintagma “violenza di genere” è figlio di questa necessità, come tanti altri (soffitto di cristallo, gap salariale, manspreading, cultura dello stupro…). Questo è negazionismo? No. Ma di fatto, se è vero com’è vero che importiamo in Italia le peggiori brutture femministe dagli USA e dalla Spagna, allora tra i numerosi insulti ai quali come attivisti della questione maschile siamo abituati, maschilisti, patriarcali, misogini, fallocrati, omofobi, ciseteronormativi, eccetera, oramai possiamo iniziare ad aggiungere anche quello di negazionisti.