di Giorgio Russo. Tra i vari temi all’ordine del giorno, subito dopo la presunta “seconda ondata” di covid-19, è emerso di recente quello delle donne nell’ambito del mondo del lavoro. Il tema è stato presentato secondo diverse sfaccettature, alcune truffaldine, come il divario salariale di genere, altre più ragionate, basate sul punto centrale della conciliazione lavoro-maternità e lavoro-famiglia. È difficile orientarsi in questo minestrone di impulsi talora sacrosanti, talora palesemente pretestuosi, soprattutto perché la lobby femminista, come tante altre, sta scodinzolando furiosamente, con un filo di bava che cola dalle zanne, al pensiero di potersi pappare, alla faccia di tutti, metà delle cifre stratosferiche del Recovery Fund.
Mentre in ogni parte d’Italia imprenditori (uomini) continuano a suicidarsi a seguito della crisi post-pandemia, non si smette di dire, con stucchevole ossessività, che le donne sono più vittime di chiunque altro dal lato lavorativo, essendo state penalizzate un po’ da tutto: dallo smart-working, dai licenziamenti, dalle occasioni di lavoro perse. Non c’è spazio per affermare che il disastro del lockdown ha danneggiato tutto intero un sistema, l’obiettivo è quello solito: vittimizzare il lato femminile, dire che sono sempre le donne a patire di più qualche situazione negativa o di disagio. Tutti vittime, ma loro sempre un po’ di più. Perché, come dice un antico detto: chi non piange, non succhia alla tetta. Ed è indubbio che la lobby femminista stia dando un assalto efficace alle poche tette rimaste ubertose in ambito economico. Tanto efficace quanto è poco reattiva la popolazione che si vedrebbe penalizzata dalla messa in atto delle strategie di quella stessa lobby.
L’ambiguo manifesto di “Valore D”.
Sulla scia di concetti e slogan tanto privi di significato reale quanto ben congegnati (“nelle prime 100 società quotate in borsa il numero di donne ai vertici è uguale al numero di amministratori delegati che si chiamano Carlo”), si cominciano a prefigurare i lineamenti di due classi sociali ben distinte nell’accesso di quel poco che rimarrà del mercato del lavoro, una volta usciti dalla pandemia. I plebei saranno gli uomini, i patrizi saranno le donne. Settimana scorsa il Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato l’inserimento nella Legge di Bilancio di una disposizione che decontribuirà al 100% per tre anni l’assunzione di donne, con la copertura appunto del Recovery Fund. Se dunque avete figli maschi all’università e vagheggiate per loro un futuro professionale limpido, scordatevelo. In barba all’art.3 di quella carta straccia che è la nostra Costituzione, essendo maschi andranno in coda. Idem per chi, da maschio, è finito disoccupato a causa della pandemia. Dice: il tasso di disoccupazione femminile è al 48,9%, c’è il paygap, ci sono poche donne nelle discipline STEM, ci sono secoli di patriarcato alle spalle, dunque gli uomini s’arrangino. Così come tutti gli operatori economici e lavoratori colpiti dal covid: di voi il ministro si occuperà poi, forse, in seconda battuta, “ci penserà”.
Proposte aberranti come queste non piovono dal cielo, sono severamente presidiate al ministero e sono state ampiamente preparate sia dal lato ideologico (motivo per cui nessuno fiata) che da quello organizzativo. Esiste ormai da anni un’associazione chiamata “Valore D”, che si è tentacolarmente inserita nei maggiori gangli del potere economico, dove porta la sua visione in gran parte distorta e detta politiche discriminatorie come quelle del ministro Catalfo. Promossa dall’allora ministro Maria Elena Boschi, l’associazione ha vantato nel 2017 l’egida del G7, andando poi a infiltrarsi nelle maggiori confederazioni datoriali e coinvolgendo più di 150 imprese. È lei l’inventrice di uno dei tanti index con cui viene misurato il “gender gap” in ambito lavorativo ed economico, ed è facile immaginare quale oggettività e affidabilità abbia tale indice. Ma soprattutto è sempre Valore D ad aver stilato un manifesto in nove punti che, nelle intenzioni, dovrebbe promuovere la parità di genere in ambito professionale. Da quel manifesto si comprende su quale ambiguità queste iniziative raccolgano consenso, da un lato, e assenza di opposizione dall’altro.
La proposta Catalfo è un abominio.
Il manifesto infatti contiene in sé punti che chi, come noi, fa della lotta al femminismo suprematista un dovere civico, sottoscriverebbe immediatamente. Pare sorprendente, ma davvero non si possono non condividere i punti da 5 a 7 del manifesto dove, oltre a parlare di supporto alla maternità per le dipendenti donne e di lavoro flessibile, si fa menzione aperta alla necessità di “politiche di welfare aziendale a supporto dei propri dipendenti” (citazione letterale, incredibilmente senza declinazione per genere) e anche di valorizzazione del “ruolo genitoriale del papà”. Quest’ultimo punto lascia a bocca aperta: sorprende che sia un’associazione dal nome “Valore D” ad accorgersi e affrontare il vero punto chiave di tutta la questione, ovvero la necessità di liberare i padri dal guinzaglio corto del ruolo di bread-winner per consentire loro di esercitare la propria funzione paterna e di care giver (sui aspirano da anni), con la conseguenza di dare spazio agli sviluppi di carriera delle donne e delle madri.
Ma è una pia illusione, purtroppo. Un’espressione di buona volontà o più probabilmente un cavallo di Troia con cui garantirsi la conquista del consenso di gran parte del mondo maschile. Gli altri punti del manifesto sono un delirio di suprematismo femminista o donnista che vorrebbe obbligare le aziende ad assumere dipendenti su rose di candidati metà donne e metà uomini (e la competenza?), ad avere un pari numero di dipendenti uomini e donne (e l’efficienza?), a combattere il divario salariale (che non esiste…), a mettere più donne nel management (anche se incapaci?) e a fare formazione (indottrinamento) ai dirigenti sull’equità di genere. È da documenti e lobby del genere che nascono abomini come la proposta Catalfo, un nuovo fronte di ingiustizia immotivata a danno di un intero genere, da usarsi come pretesto per dare l’assalto alla cassaforte del Recovery Fund. Soldi pubblici ottenuti tramite indebitamento con cui fare impresa senza rischio, da un lato, e dall’altro far girare a mille gli interessi di poche accolite selezionate, nell’associazionismo, in politica, nei media e chissà dove altro. E di fronte a tutto questo, come sempre, ciò che stupisce di più è il silenzio inebetito dei più.