La Fionda

Il marcio della magistratura colpisce anche noi. Serve un aiuto

Quale sia lo stato della magistratura italiana è ormai piuttosto chiaro a chi trova il coraggio di posare lo sguardo su alcuni libri pubblicati di recente, a partire dall’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, e a chi ha la pazienza di spulciarsi i pochissimi articoli che vengono diffusi col contagocce sulla tematica. L’ex Presidente dell’ANM ha svelato retroscena talmente gravi da riuscire a sorprendere anche i più scettici: la magistratura come uno Stato nello Stato, da tempo lontana anni luce dalla sua funzione costituzionale, impegnata soltanto a proteggere, perpetuare e aumentare il proprio potere, anche e soprattutto quando ciò significa superare il confine invalicabile della separazione dei poteri. Palamara ci ha insegnato che ormai la giustizia è politica, da essa trae indirizzi operativi e ideologici, e per questo non è più giustizia. Le sue rivelazioni hanno inevitabilmente innescato un’inchiesta giudiziaria, dove alcuni magistrati sono chiamati a perseguire e giudicare la loro stessa categoria. Chiaro che lo scenario, così descritto, non può che suscitare ulteriore scetticismo, tuttavia da sani e sinceri democratici non si può che nutrire speranza. In effetti chi sta indagando in merito sembra stia scoprendo gradualmente l’immondo verminaio che si cela sotto l’apparentemente inamovibile masso della magistratura italiana, con l’ipotesi addirittura di logge segrete coinvolgenti appunto magistrati, ma anche politici e grandi imprese. Obiettivo: pilotare nomine, orientare i processi e far girare soldi.

Tutto è ancora più o meno coperto dal segreto istruttorio, circolano nomi eccellentissimi nella casta delle toghe, ed è evidente che tra le procure di Perugia e Milano (ma non solo) è in atto un braccio di ferro feroce. Da un lato chi avrebbe il dovere di scoperchiare il pentolone delle nefandezze, anche se si tratta di colleghi, dall’altra chi, sulla base degli equilibri ben descritti da Palamara, fa strenua resistenza, puntando probabilmente a un compromesso che faccia sgonfiare lo scandalo e dia in pasto uno o due capri espiatori ai pochi nell’opinione pubblica interessati alla vicenda. Qui però siamo nelle alte sfere e negli alti principi. Siamo ai gradi massimi della magistratura, dove si tirano i fili e si collocano nei posti-chiave gli altri magistrati dei livelli inferiori, quelli con cui poi noi comuni mortali ci troviamo ad avere a che fare, se abbiamo la sventura di dover entrare in un tribunale. Luoghi in cui, ingenui che siamo, pensiamo di trovare se non la Giustizia, per lo meno qualche scampolo di essa, sparso qua e là nelle coscienze di questo o quel singolo giudice. In realtà, ormai è chiaro, troviamo soggetti il cui compito è sanzionare sulla base di direttive politiche o politico-mediatiche ben definite, non basandosi sulla sussistenza o meno di un illecito, ma condannando e assolvendo a seconda di chi siano l’imputato o il denunciante e di quanto rumore il caso abbia fatto sui media. In Italia la giustizia è politica e comunicazione. Nei grandi sistemi pensati dai grandi giuresperiti del passato, quando ciò accade una comunità non è più libera e il regime democratico in cui teoricamente vive si dissolve. Lì siamo noi ora.

giudice

Il doppio standard che colpisce anche noi.

Come detto, individualmente ognuno può farne esperienza diretta. E noi ne siamo l’esempio. Uso il “noi” non per megalomania, ben intesi, ma perché, in quanto titolare legale di questo spazio web, ciò che capita a me personalmente finisce per avere conseguenze su tutta “La Fionda”, anche se ormai su queste pagine scrivo molto raramente. Si dà il caso allora che, come già raccontato in passato, io abbia querelato Marco Preve, giornalista di Repubblica, che nel settembre 2019 innescò una shitstorm nazionale contro di me pubblicando la foto alterata di un mio vecchio post Facebook, in base alla quale scrisse che io deridevo le donne sfregiate con l’acido. Non è chiaro se fu lui ad alterare la foto o se gli venne consegnata già alterata, probabilmente la seconda, ma cambia poco: quella di Marco Preve è una prassi consolidata del giornalismo attuale, che si faccia o meno autore diretto delle manipolazioni. La sua fake news diffamatoria venne ripresa da tutti i quotidiani, venni ingiustamente sbertucciato anche da “Le Iene”, e non pochi politici si agganciarono alla cosa per condannarmi pubblicamente (Valeria Valente scrisse che io in prima persona avevo sfregiato una donna con l’acido…). Nonostante detesti querelare giornalisti e dintorni, dopo una tormentata riflessione decisi di usare le carte bollate. La querela è stata archiviata una prima volta. Ritenendo l’archiviazione ingiustificata, ho messo mano al portafogli e ho fatto opposizione. Circa venti giorni fa sono stato informato che la mia querela è stata archiviata definitivamente, con la laconica motivazione per cui il giornalista di Repubblica avrebbe semplicemente esercitato il suo “diritto di critica”. Così si è pronunciata la Procura di Genova, creando un precedente notevole: utilizzare un’immagine alterata per dire il falso di una persona e sputtanarla ingiustamente su scala nazionale è “diritto di critica”.

Si dà il caso poi che io, ampiamente prima della pandemia, abbia presentato altre due querele. Una contro le amministratrici di una pagina Facebook, vere e proprie odiatrici, che per mesi si sono accanite in attacchi ossessivi, tutti declinati sul personale. Sono arrivate direttamente a me, alla mia famiglia, al mio lavoro, creandomi problemi molto molto gravi, parte dei quali mi hanno indotto a disimpegnarmi dal mio blog personale “Stalker sarai tu”, che da quel momento è rimasto sospeso. Da quella chiusura è nata poi l’iniziativa collettiva de “La Fionda”, quindi da un male è nato un bene, ma nel frattempo io ho passato mesi di vera e propria angoscia per me, la mia famiglia, il mio posto di lavoro. Per questo le ho denunciate tutte per stalking. Sì, proprio quel reato per cui se una donna va dal magistrato e dice di essere angosciata da qualcuno ottiene subito, come minimo, un ammonimento e, a seguire, procedimenti che fanno passare l’anima dei guai all’accusato. Nel mio caso no: nonostante la corposa documentazione presentata (per altro non necessaria ex art.612 bis), la Procura di Genova, la stessa che non ha proceduto contro Marco Preve, subito ha derubricato tutto da stalking a diffamazione aggravata. Dopo di che, non potendo archiviarla, dato il quintale di materiale depositato, ha dimenticato la querela in qualche cassetto, dove tutt’ora langue. Insieme ad essa una seconda da me presentata, contro un imbecille che qualche mese fa ha pensato bene su Facebook di dare a me (e ad altri collaboratori de “La Fionda”) del pedofilo. Accade dunque il fatto strano che ogni denuncia o querela presentata da quel tizio di nome Davide Stasi presso la Procura di Genova, finisce in qualche scaffale polveroso, dove forse verrà ritrovata fra trent’anni da qualche usciere.

Il palazzo di Giustizia di Genova
Il Palazzo di Giustizia di Genova.

Grazie in anticipo.

Diverso è il destino delle pratiche presso la Procura di Genova quando Davide Stasi è invece l’oggetto della denuncia. Lì la stessa Procura mostra uno zelo straordinario. E più le accuse sono campate in aria, più la pratica va veloce. Ad oggi ho sulle spalle tre querele, tutte e tre per diffamazione. La prima viene da una ex giudice onoraria, che ho avuto l’ardire di criticare per il suo CV (pubblico) e le cose a mio parere aberranti che scrive (pubblicamente) quando si tratta di minori e genitorialità. Certo ho usato toni particolarmente appassionati nel criticarla, ma niente di diffamante a mio avviso, e niente a confronto dei veri e propri insulti che certi giornalisti, politici o opinionisti si scambiano quotidianamente. Ciò che conta è che non ho alterato nulla dei documenti postati a sostegno delle mie opinioni, è tutto genuino e originale. Cioè ho agito all’opposto di come Marco Preve ha agito con me. Eppure la stessa Procura che ha riconosciuto il “diritto di critica” di Preve, esercitato (ricordiamolo) con la diffusione di una falsità basata su una foto alterata, ha mandato rapidamente in procedimento la querela a mio carico. Una seconda, benché notificata, non so ancora chi l’abbia presentata né perché: mistero e sorpresa. La terza viene da una onlus che si è sentita diffamata dal mio seguente commento sotto un remoto post Facebook: «Bibbiano è ovunque». Insomma: stessa Procura, stesso soggetto, il qui presente e sottoscritto, ma diversi pesi e diverse misure a seconda che io sia accusante o accusato. Ho cercato di informarmi a quali correnti appartengano i magistrati che si sono occupati e si stanno occupando di me, ma pare sia tutto tenuto sotto molto riserbo. Tuttavia sarei in grado di farci sopra una scommessa, con la certezza di vincere. E in ogni caso, stando ai fatti, costoro sembrerebbero essere parte di quel sistema verminoso su cui Palamara ha svelato molto e di cui oggi parla timidamente qualche testata giornalistica. Davide Stasi e i canali di cui è responsabile stanno dalla parte sbagliata, e la magistratura che dovrebbe decidere il giusto e l’illecito sulla base di leggi oggettive invece pare agire con lui sulla base del pregiudizio politico o degli indirizzi mediatici prevalenti. E quanto accade a lui, a Genova, accade anche a migliaia di altre persone ogni giorno in tante altre procure. Perché questa è la giustizia italiana oggi, con buona pace dei nostri avi inventori del diritto.

Ho voluto cogliere l’occasione delle ultime notizie provenienti dalla procura di Perugia per dare a chi le ha seguite un aggiornamento sulle vicende giudiziarie che riguardano me, che hanno riguardato in passato il blog personale “Stalker sarai tu” e che riguardano oggi complessivamente questa grande avventura chiamata “La Fionda”. Ma non solo per questo. L’uso intimidatorio della querela per diffamazione sta diventando dilagante nei nostri confronti. La procura di riferimento, quella di Genova, come si è visto, pare molto zelante nel martellare su chi legalmente rappresenta questo sito. Non ci giriamo dunque troppo intorno, cari amici: il rischio chiusura e termine dell’impresa chiamata “La Fionda” è molto alto. Gli avvocati costano e la possibilità di venire condannati, specie a queste condizioni di pseudo-giustizia, implica anche il versamento di risarcimenti in denaro ai “danneggiati”. Per come vanno le cose ora, sarebbe una rovina che comporterebbe la fine di tutto. Non siamo avvezzi, non ci piace chiedere soldi, ma non possiamo non farlo in questa fase. D’ora in poi all’apertura di ogni articolo apparirà un molesto pop-up che esorterà a contribuire a un fondo di solidarietà per le spese legali de “La Fionda” attraverso due canali: PayPal (per carte di credito) e DonorBox (per carte di credito e bonifici). Fastidioso, odiamo già solo il pensiero di inserirlo, ma non vediamo altra strada, avendo rinunciato alla pubblicità, non ricevendo fondi pubblici e non essendo né un centro antiviolenza, né omosessuali che si lamentano in pubblico di essere stati cacciati da casa. La grande squadra de “La Fionda” ce la mette tutta per resistere, ma anche il più potente carro armato ha bisogno di benzina per funzionare. In condizioni normali quel carro armato lo spingiamo noi, senza problemi. Nelle condizioni che si sono venute a creare servono aiuti in più. Grazie in anticipo a chiunque vorrà contribuire.



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