di Redazione. Le parole sono importanti. Con le parole si governano interi popoli e si orientano le loro coscienze. Lo sa bene il Gruppo GEDI, che gestisce direttamente 16 quotidiani, 9 periodici, 4 emittenti radio e 28 siti di informazione, ossia una formidabile potenza di fuoco dal lato della rappresentazione della realtà che viene inculcata nell’opinione pubblica. Al di là delle “linee editoriali”, che possono anche differire, dovrebbe vigere un’intoccabile libertà di espressione per chiunque lavori in una redazione, al fine di garantire quel pluralismo che è il fertilizzante della crescita socio-culturale comune. Così non è per il Gruppo GEDI: i suoi “La Repubblica”, “La Stampa”, “Il Messaggero”, “L’Espresso”, “Radio Capital”, “Radio Deejay”, e i tanti siti di news locali non sono liberi di utilizzare il linguaggio e le espressioni o di fare le analisi che il cronista incaricato ritiene più opportuni. Lo riporta in una brevina “Il Foglio”, facendo cenno a un “decalogo” che l’ufficio centrale di Repubblica avrebbe mandato a tutti i suoi giornalisti, contenente le indicazioni con cui vanno scritti gli articoli che riguardano i “femminicidi”. In realtà il decalogo non ha coinvolto solo Repubblica: è partito dalla direzione del Gruppo GEDI ed è arrivato alle redazioni di tutti i media che gestisce. Un giornalista amico che lavora per il Gruppo ce l’ha mandato. Ebbene, ecco qui le istruzioni, un file chiamato “Come raccontare un femminicidio”, con cui uno dei più potenti gruppi editoriali italiani obbliga i propri cronisti a scrivere solo certe cose e a scriverle solo in un certo modo quando si tratta di “femminicidi”. Non è un obbligo esplicito, ben intesi, ma è facile immaginare cosa possa accadere al giornalista che non si conformi alle indicazioni.
È una semplice tabella: a sinistra le cose che non si devono dire, le espressioni che non si devono usare; a destra quelle che si possono utilizzare al loro posto. Per miglior chiarezza, le prime sono in rosso, le seconde sono in verde, come un infame semaforo che regola il traffico della sovversione della realtà. Il documento mostra un po’ di sfiducia nei cronisti perché, per maggiore chiarezza, sotto a ogni divieto e al corrispondente via libera riporta anche degli esempi pratici. Questo essere trattati da beoti ha infastidito alcuni comitati di redazione del Gruppo, come ha raccontato “Il Foglio” ma, anomalia nell’anomalia, l’indignazione si è fermata lì. Chi abbia piena coscienza di quanto sia grande il potere dei media nel plasmare la coscienza collettiva e nel contempo ami incondizionatamente la libertà, non può che sentirsi la gola stringere a leggere quel decalogo. Altro non è che la preordinata e deliberata messa in atto di una strategia di manipolazione dell’informazione orientata a criminalizzare sempre e comunque la parte maschile e a vittimizzare la parte femminile nelle vicende tragiche di cronaca. Il tutto non solo oltre la verità dei fatti, ma anche oltre qualunque tipo di misericordia verso i soggetti che ne sono protagonisti. Non è un trattamento diverso da quello che, attraverso le “veline” dei ministeri della propaganda dei regimi totalitari, veniva riservato ai nemici di quegli stessi regimi, fossero essi gli ebrei nella Germania nazista, i disfattisti nell’Italia fascista, gli infedeli alla linea nella Russia sovietica. Si tratta di formule fisse, utilizzando le quali è possibile inculcare nel sentire comune un’idea persistente. Il gerarca fascista Achille Starace, ad esempio, contribuì alla fascistizzazione del paese imponendo l’uso di termini e pratiche specifiche. Con le parole si governano interi popoli e si orientano le loro coscienze. Achille Starace è morto da un pezzo, ma la sua lezione vive e gode di ottima salute nelle redazioni italiane.
Gli uomini non hanno sentimenti.
Il decalogo del Gruppo GEDI, infatti, non solo priva i suoi cronisti della libertà di espressione e analisi, non solo demonizza in modo calcolato la metà esatta della popolazione, ma va anche contro ogni logica razionale. Nessun evento accade in un contesto a-temporale o a-spaziale, dove le connessioni causa-effetto sono abolite. Eppure la velina distribuita qualche giorno fa abroga ogni elemento di contesto: con il pretesto di evitare ogni possibile tono giustificatorio, fa piazza pulita di ogni elemento atto a comprendere la natura e l’origine degli atti. Si può concordare tutti sul fatto che un titolo come: “Uomo ruba in un supermercato” comunica un senso diverso da: “Uomo ruba in un supermercato per fame”. L’uomo in questione resta colpevole in ogni caso, non ci piove, ma il secondo titolo, oltre ad aggiungere un elemento di contesto utile e veritiero, aggiunge anche un tassello utile alla comprensione. In entrambi i casi l’uomo non può essere giustificato, ma in uno solo può essere compreso. E la comprensione è un meccanismo fondamentale perché mette in connessione tutto lo scenario e tutte le premesse che hanno portato dall’evento. Il lettore, con il secondo titolo, potrà chiedersi in che mondo viviamo se c’è ancora chi ruba per fame e da lì porsi ancora altre domande più lontane, più profonde, più di sistema. Togliere gli elementi di comprensione da una notizia significa privare l’opinione pubblica di uno strumento utile proprio per inquadrare il sistema, le sue eccellenze, le sue iniquità e le possibili origini del tutto. Per questo, di nuovo: privare l’opinione pubblica di elementi di comprensione significa fiancheggiare un regime che vuole indottrinare. Questo la velina del Gruppo GEDI invita i suoi giornalisti a fare: propaganda, non giornalismo.
Ecco allora le indicazioni. L’uomo che uccide non deve avere una sua identità: è vietato definirlo per il suo mestiere, la sua provenienza geografica, o altro, bisogna piuttosto “concentrare l’attenzione sull’azione omicida”. Aboliti termini come “dramma familiare” o “della gelosia”, “delitto passionale” o “tragedia coniugale”. È escluso che il movente possa essere un sentimento positivo diventato disperazione e follia criminale per ragioni connesse a un contesto complesso e da capire. Gli uomini non hanno sentimenti, il contesto non esiste, esiste solo un uomo che uccide una donna. Questo soltanto deve passare. Le scelte della vittima non devono essere menzionate, anche se sono parte integrante della causa dell’evento tragico: tutta l’attenzione deve andare sulla decisione criminale del carnefice. Non sono ammesse patologie: “anziano uccide la moglie disabile” non va bene come titolo, anche se poi si suicida, anche se lascia il biglietto dicendo che con la moglie si erano amati fino all’ultimo e hanno voluto morire assieme, niente da fare, la velina del Gruppo GEDI è ossessivamente ripetitiva: bisogna scrivere “l’ha uccisa” e basta. Guai a empatizzare anche un minimo con l’autore del reato: anche se disperato, distrutto, in lacrime, depresso, l’uomo e le sue sofferenze non meritano attenzione, che vanno date piuttosto al punto di vista della vittima. Vietato infine “romanticizzare” l’evento: di nuovo, due anziani che si sono amati per tutta la vita e decidono di morire assieme non sono concepibili, bisogna scrivere che “neanche in morte l’ha lasciata libera”. Le indicazioni della velina del Gruppo GEDI richiamano palesemente noti eventi di cronaca recenti e un osservatore dei media si accorge subito che esse vanno lette al contrario quando il carnefice è una donna: in quel caso, è l’indicazione implicita, il verde e il rosso si devono invertire. Così in effetti accade sempre.
Stavolta servirebbero nomi, cognomi e sigle.
Il documento non può essere reso, nella sua violenza, da un sunto. Va letto integralmente, senza dimenticare che è destinato a soggetti incaricati di raccontare a tutti la realtà delle cose. Solo così si capisce quanto sia profondamente scandaloso e svilente ciò che accade all’informazione italiana. Stiamo parlando, in questo caso, di un colosso che gestisce direttamente un gran numero di mezzi di comunicazione (e chissà quanti altri indirettamente) e che con il suo potere può installare nella coscienza collettiva meccanismi di lettura della realtà concepiti esattamente per scattare in automatico di fronte a determinati eventi, ma soprattutto rispetto a una ben individuata parte della società. Trasformare eventi generati da una molteplicità di cause complesse, alcune anche strutturali e di sistema, in casistiche iper-semplificate e asettiche dove un soggetto A, per sua stessa natura cattivo, fa del male al soggetto B, per sua stessa natura buono e vittima, significa trasformare agli occhi di tutti ogni persona che appartenga al gruppo A in un pericolo latente, in qualcosa da cui guardarsi, di cui diffidare, di cui avere paura (e di contro chi appartiene al gruppo B come qualcuno incapace per natura di fare del male, dunque da trattare sempre con indulgenza). Non ci vuole molto per vedere dietro a questa impostazione la longa manus del femminismo suprematista, delle sue forzature e delle sue bugie. I suoi dogmi, nella velina del Gruppo GEDI, ci sono tutti, alcuni espliciti, alcuni meno, e questi ultimi indotti invece che imposti. Siamo oltre al consueto esempio dell’Orwell di “1984” (la guerra è pace, l’ignoranza è forza, la libertà è schiavitù). Qui siamo alla violenza vera e propria: verso la verità, verso la coscienza collettiva, verso l’opinione pubblica, verso la capacità relazionale di uomini e donne e, infine, verso gli uomini. Al di là della tematica e delle indicazioni specifiche, la velina del Gruppo GEDI sta dando un’indicazione sola, generale, chiara e univoca ai giornalisti: manipolate il loro pensiero. E quel “loro” siamo tutti noi.
Non è passato molto tempo da quando abbiamo scoperto l’esistenza del “Manifesto di Venezia”, quello che impegna tutti i firmatari del mondo dei media a sovrastimare e sovrarappresentare il fenomeno della violenza sulle donne e, per contro, a sottostimare quella sugli uomini, categoria da demonizzare e criminalizzare sempre e comunque, senza pietà. Abbiamo chiesto conto dell’anomalia alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che ha promosso il Manifesto stesso, senza ovviamente ricevere risposta. Già quello sapeva di regime. Aver intercettato il decalogo del “Gruppo GEDI” ha dato la conferma di quel sentore. È quella che si dice “la pistola fumante”. Solo due giorni fa criticavamo la comunicazione pubblica sui temi di nostro interesse e parlavamo di un conflitto in atto. Il documento del Gruppo GEDI può a buon diritto essere considerato non solo come un’ingiustificata dichiarazione di quella guerra contro gli uomini tutti, ma anche e soprattutto un attentato contro l’intelligenza e la libera coscienza di ogni persona. In un paese normale scoppierebbe uno scandalo e rotolerebbero teste per una vicenda del genere. Tuttavia è altrove che occorre guardare per capire l’origine di una violenza ideologica e di regime di questa portata. La testa del serpente non sta ai vertici GEDI. Lì ci sono solo burattini che hanno fatto il loro mestiere. Hanno ricevuto quel decalogo da altri, altre lobby, altre organizzazioni, un’altra mafia, e si sono limitati a distribuirlo affinché venisse messo in pratica, probabilmente dietro garanzia di qualche forma di beneficio (magari anche solo l’assenza di attacchi organizzati, come accade nel racket). Di tutta questa vicenda non deve restare dunque un’indignazione transitoria per il deliberato condizionamento delle coscienze che viene organizzato sopra le nostre teste. C’è un passo ulteriore da fare: sapere chi ha prodotto quell’orrore e l’ha poi imposto al più potente gruppo mediatico nazionale. E servirebbero, una buona volta e finalmente, nomi, cognomi e sigle.