Su queste pagine si parla di solito di uomini, dei loro diritti, delle ingiustizie che subiscono e dello sbilancio con cui vengono pubblicamente raccontati a confronto con la sfera femminile. Stavolta però parliamo di donne, di un tipo particolare di donne: le casalinghe. Lo facciamo perché di recente è entrata in vigore una disposizione voluta dal governo precedente, che ha stanziato tre milioni di euro sotto forma di “bonus casalinghe“. Non si tratta di soldi che vanno in tasca a chi ha scelto il lavoro domestico, però: si tratta di crediti che le casalinghe rientranti in specifici requisiti possono spendere per fare corsi professionalizzanti, tali da renderle facilmente collocabili nel mondo del lavoro. La ratio di questa disposizione è una risposta ai dati parziali che l’ISTAT aveva diffuso sul tasso di occupazione femminile in calo a causa della pandemia, oltre che al costante piagnisteo femminista per cui le donne “sono svantaggiate nel mondo del lavoro”. Una tesi che noi abbiamo contestato spesso portando il dato delle donne inattive, quelle che non cercano lavoro, probabilmente perché non lo vogliono, perché hanno fatto altre scelte. E che statisticamente sono tantissime, il doppio degli uomini. Tra queste ci sono per l’appunto le casalinghe: un tipo umano letteralmente odiato dalle femministe perché sceglie di rifiutare il lavoro e la carriera, considerati dalle femministe stesse come unici veicoli di soddisfazione personale ed emancipazione. Se poi quelle casalinghe sono pure mamme, apriti cielo! La loro stessa esistenza è la negazione dell’unico connubio che secondo il femminismo porta alla felicità: aborto più carriera.
Tutto questo rende le donne casalinghe “meno donne” nella lettura femminista. Uno status da cui devono essere affrancate, quasi salvate o riscattate. Ed ecco che un governo asservito all’ideologia femminista (ormai lo sono tutti) concepisce il “bonus casalinghe”, un incentivo dichiarato a toglierle dallo stato servile tra le mura di casa (con il fine recondito in realtà di alimentare qualche circuito di centri di formazione e coop “amiche”). Ma, mi sono chiesto, e se le casalinghe non volessero andare a lavorare? Se la loro vita fosse frutto di una scelta deliberata? Se fossero addirittura felici della scelta fatta? Allora che senso avrebbe questa smania di rapirle dalle mura domestiche, perché non destinare meglio e diversamente quei tre milioni di euro? Ho voluto chiederlo proprio a un gruppo di casalinghe, che ho contattato con l’aiuto della nostra preziosa Antonietta Gianola. Vi voglio raccontare allora l’esito di queste mie telefonate a Chiara, Giovanna, Nicoletta e Rachele, riportandovi esattamente le loro parole, aggiungendovi davvero poco. Ciò che le accomuna è la loro risata: cristallina, limpida, come sono le risate che vengono da una profondità calma e sicura. Hanno riso spesso durante le telefonate-intervista, specialmente quando ho usato con loro toni provocatori, talvolta anche al limite della malacreanza. Volevo stanarle nella loro inconfessabile infelicità di donne schiave, volevo farmi dire da loro che sì, stanno male, darebbero un occhio per fare i corsi del governo per poi andare a lavorare e avere la loro emancipazione. Invece ogni volta mi hanno riso nell’orecchio con un suono tintinnante capace di disarmare chiunque. Alla fine del giro di interviste ho capito di aver parlato con persone normali che nell’essere tali sono straordinarie. E che un minuto qualunque della loro vita vale dieci intere esistenze di una Von Der Leyen, una Lagarde, una Gruber o una femminista a caso. Ascoltate.
L’inclinazione al dare, al prendersi cura tipica della donna.
Chiara. «Non ho scelto subito la strada del lavoro domestico. Fino ai trentasei anni ho lavorato come operatrice socio-sanitaria, poi con la nascita dei bambini ho preso la migliore decisione della mia vita: stare con loro e con mio marito». Chiara ha due figli, suo marito lavora come trasfertista, remunerato abbastanza per mantenere tutta la famiglia. Lui ci ha messo un po’ a convincersi ad avere figli, non si fidava. «Per forza: si sa che una donna se vuole ti toglie tutto in un attimo, figli, soldi e patrimonio… ha voluto vedere se c’erano le basi, lo capisco». Ma la dipendenza dal guadagno di lui non ti fa sentire in inferiorità? «Ma assolutamente no. Qui nessuno è inferiore, ognuno fa il suo sulla base di un progetto condiviso. Vedi, oggi trovi ovunque iniziative di istruzione alla sessualità, quella che manca è però, già a partire dalle famiglie, l’educazione sentimentale, ovvero come trasformare i propri sentimenti in un progetto condiviso e vissuto nel rispetto reciproco. Realtà come la mia e altre simili hanno questo in comune: la consapevolezza all’interno di un rapporto d’amore». Eppure una femminista direbbe che, in cambio del mantenimento, ti rendi schiava sfruttata al servizio dei desideri di tuo marito, compresi i suoi capricci sessuali. «(Ride, un sacco) Ripenso a quando lavoravo come OSS. I contratti precari, come si veniva trattati, i diritti negati… allora sì che mi sentivo sfruttata. Ora almeno sono partecipe al 50% di un progetto dove do il meglio di me stessa, esattamente come mio marito, sono riconosciuta per il mio valore, e l’assenza di un bonifico mensile è abbondantemente compensato da una delle tante giornate assieme a mio marito e ai miei figli». E quelle che fanno una scelta diversa? «Non esistono scelte giuste a prescindere. Esistono scelte ponderate. Chi opta per la carriera e lo fa con consapevolezza, vuol dire che è felice così e buon per lei». Dal lato opposto però non c’è uguale indulgenza. «No, ci odiano proprio (ride, un sacco). Credo sia per invidia o qualcosa di simile. Hanno questa smania di scimmiottare gli uomini, nel lavoro, nella sessualità, nelle relazioni. E donne come noi, che hanno fatto scelte diverse e sono felici, per molte sono una spina nel fianco. E stupisce davvero la dose di cattiveria che alcune riescono a mettere nel criticare chi, come noi, fa una scelta diversa». Insomma non seguirà i corsi del governo… «Non ci penso proprio. Se li tengano. Anzi usino i soldi per le famiglie in difficoltà, piuttosto».
Giovanna. Ha 4 figli, è avvocato, ha esercitato per una decina d’anni dopo aver fatto salti mortali per laurearsi e prendere l’abilitazione mentre era incinta. «I miei figli sono nati dall’entusiasmo dell’amore e la loro nascita non mi ha frenata, almeno fino a un certo punto. Ho sentito l’esigenza di stare loro più vicino quando sono entrati nella loro fase adolescenziale. Mio marito ha condiviso questa necessità. Ci siamo fatti due conti, abbiamo visto che ci stavamo dentro e…». Ma lui non rivendica mai il suo ruolo “superiore” dato che porta i soldi? Tu non ti senti sminuita? «È un equilibrio delicato, occorre avere piena consapevolezza di sé e della coppia e una vera capacità di condivisione. Il nostro appare un modello antico, però rivisto in chiave moderna: è un equilibrio dove nessuno pensa di fare di più o di meno dell’altro. Ognuno ha il suo ruolo fondamentale ed è essenziale che tutti siano in grado di far tutto, cosa che da tempo gli uomini hanno imparato a fare rispetto alla generazione dei nostri nonni o bisnonni. Se io non ci sono, è lui che cucina. Ma non “Sofficini” o pasta in bianco: pranzi veri e propri, con tutti i crismi». Sì, ma intanto lui guadagna, tu no. «(Ride, un sacco) Lui guadagna perché sgobba tutti i giorni al lavoro e io sgobbo tutti i giorni a casa. La chiave è che si mette tutto in comune per un progetto e una visione comune. Dunque che problema c’è?». Sarà, ma la tua autodeterminazione, il tuo piacere, la tua indipendenza? «Io ho trovato il piacere di dedicarmi ai figli. Io ho la mia ricchezza in ciò che vedo in loro. Non ho uno stipendio mensile, ma giorno dopo giorno mi godo la rendita del tempo che ho investito anche in loro e che mi viene restituito sotto forma di orgoglio, amore, serenità. Ed è un investimento che non dà tutto quello che può dare, se tutto si risolve in qualche parola stanca detta a cena, dopo una giornata di lavoro». Molte non sarebbero d’accordo con questa visione. «Il problema è la cultura diffusa che monetizza e commercializza tutto. I corsi del Governo alla fine hanno questa filosofia: le donne hanno valore solo se producono e ricevono denaro, possibilmente da spendere tutto e in fretta. Da queste parti invece i valori sono rovesciati: i soldi sono solo uno dei mezzi per costruire qualcosa assieme». Pensi di essere un buon esempio per le tue figlie? «Io non insegno loro a non lavorare: devono studiare e capire che si troveranno davanti a delle scelte che dovranno essere ben pesate, perché ci andrà di mezzo la loro felicità. Di certo dico loro di non mortificare mai la loro maternità. Che non significa per forza fare figli propri, significa accettare l’inclinazione al dare, al prendersi cura tipica della donna, che può essere espressa in molti modi». Anche per Giovanna, insomma, niente corsi del governo.
Un profondo senso di bellezza e un sorriso fiducioso.
Nicoletta. È laureata e ha cinque figli. «Abbiamo deciso insieme con mio marito, poco dopo sposati e conti alla mano, di optare per questa direzione. Ad oggi, dopo anni, sono più che appagata della scelta». Come fai a essere appagata se non hai soldi tuoi, guadagnati da te? «(ride, parecchio) Io ho soldi miei: mio marito per primo vuole che siano soldi nostri quindi sono anche miei. Anzi chi gestisce le spese sono io. Forse, a chiederglielo, lui non sa nemmeno quanto c’è nel conto… Io amministro e ci si confronta quando si tratta di comprare qualcosa di importante. Non mi sento umiliata a chiedere soldi, è parte del progetto di condivisione: lui ha completa fiducia in me e io ho una grande considerazione di lui e di quanto lavora per garantire la sua parte di progetto. Perché quando c’è un progetto condiviso, tutto viene spontaneo, non c’è spazio per le rivendicazioni. Specie se c’è amore e una grande capacità di dialogo. Anzi quest’ultimo è cruciale perché serve a non nascondere i disagi, a metterli subito sul tavolo per affrontarli assieme». Non è che te la stai e me la stai raccontando? Avrai pure dei lati irrisolti, come donna… «(ride) No, non mi sento per niente incompiuta o irrisolta. Anzi l’essere mamma mi ha portato a fare tantissime attività perché, oltre alla partecipazione alla solidità della famiglia, nel mio ruolo si finiscono per fare anche moltissime cose fuori». Però alla fine ci sei tu che sei al suo servizio, punto e stop. «Per niente. Si tratta di una cooperativa, alla fine, dove lui lavorando porta il capitale, io lavorando porto la tenuta del contesto familiare. In questo siamo soci al 50%, con in più il sentimento e visione condivisa della vita e del futuro. Basilare per far funzionare tutto, secondo me, è l’educazione. Quello è davvero il perno di tutto perché ti porta al riconoscimento di valori stabili e a fare un lavoro impegnativo su se stessi. Che è forse ciò che poche persone sono disponibili a fare, ed è questo il motivo per cui noi “casalinghe felici” siamo viste con sospetto: alla fine abbiamo lavorato tanto su di noi da trovare un equilibrio che ci rende felici, cosa che tanti altri non sanno o non hanno voglia di fare». Ti riferisci alle “carrieriste”? Dai, dimmi qualcosa di cattivo su quel genere di donne… «(ride) No, non lo farò! Non c’è nulla di cattivo da dire. Se una persona che fa scelte diverse, è felice, liberissima di farlo e va rispettata. Non giudico le scelte altrui, al massimo cerco di capire i motivi delle scelte degli altri». Loro però, specie le femministe, non fanno lo stesso con voi, tendono a considerarvi donne di serie B, da “salvare” dalla schiavitù. «Sbagliano, sbagliano di grosso. Le scelte altrui si rispettano. E non s’invidia la felicità altrui… Tutto sta a capire (o sforzarsi di capire) qual è il significato della propria vita». Anche con Nicoletta, quindi, niente corsi del governo.
Rachele. Ha lavorato per molto tempo come ostetrica. Ha sette figli. «Amavo profondamente il mio lavoro, ma quando i miei primi sono arrivati all’età dell’adolescenza ho capito che una presenza costante era necessaria. Ho fatto la scelta giusta: ora continuo a studiare, aggiornarmi, presto informalmente e gratuitamente la mia professionalità, come volontaria, per fare formazione, ma intanto ho davanti ai miei occhi una realtà viva e reale, la mia famiglia, di cui sono pienamente partecipe e che è la mia vera ricchezza». Sì, ma un tempo guadagnavi, ora sei alle dipendenze di tuo marito. «Non è così: nella nostra coppia nessuno è dipendente di nessuno, c’è una sconfinata stima e fiducia reciproca, oltre che l’amore. Anzi l’amministrazione economica è delegata a me, come si faceva un tempo. A differenza di allora però l’uomo compartecipa attivamente dell’educazione dei figli e dell’andamento della casa. Ognuno con il proprio ruolo e la propria irrinunciabile importanza perché… si può dire quello che si vuole, ma siamo diversi. Ed è tutta lì la ricchezza di una famiglia, specie se ci sono dei figli». Quindi, messi sui piatti di una bilancia famiglia e lavoro, in termini di emancipazione tua, come donna… «(ride) Che paragone è? Non c’è partita… Io so quant’è bello quando ti pagano una fattura o quando arriva lo stipendio a fine mese. So che è necessario che qualcuno in famiglia abbia questa possibilità, è ovvio. Ma il mio bonifico è quando vado a parlare con i professori dei miei figli e mi sento dire “si vede che c’è dietro una famiglia”, e io posso rispondere: “sì, eccome se c’è”». Anche a Rachele chiedo cosa pensa delle donne che optano per la carriera e anche lei ha parole di stima e rispetto, esattamente come le altre. Pongo anche a lei il caso inverso, con tutto il livore con cui certe donne e tutte le femministe (e il governo) parlano delle casalinghe. «Lo so, conosco quel tipo di approccio. Di solito rispondo con una riflessione piuttosto semplice: quando sarò su una carrozzina o nei miei ultimi momenti di vita, io avrò attorno le persone che ho amato di più. Loro non avranno i loro clienti, i loro colleghi o i loro dirigenti. C’è anzi il rischio che non abbiano proprio nessuno. Ciò non rende me migliore di loro, non lo penserei mai. È solo un fatto di scelte. Io rispetto quelle di tutti. Sarebbe però arrivato il momento che anche le nostre venissero rispettate. Anzi di più: registrate, affinché non si finisca per credere che la donna felice è solo quella che accetta di prestare il proprio lavoro da salariata, fuori di casa e senza figli». Ho l’impressione che anche con Rachele il governo caschi male con i suoi corsi. Quanto a me, questa sortita nel mondo femminile delle “casalinghe” mi lascia un profondo senso di bellezza e un sorriso fiducioso sul volto.