26 ottobre 2021: grandi pacche sulle spalle e scambio di complimentoni in Parlamento per l’approvazione del Disegno di Legge 2418, spacciato per l’introduzione di norme che finalmente stabiliscono una sacrosanta parità salariale fra uomini e donne. Se ne sentiva davvero il bisogno, basta con il gender paygap, con gli accordi che ammorbano il mondo del lavoro in Italia, contratti discriminanti secondo i quali gli uomini guadagnano di più inquantouomini e le donne guadagnano meno inquantodonne. Basta con l’oppressione di genere, ok? Le firme sono oltre 160, divise tra le diverse proposte confluite nel testo unico che ha per titolo “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198,e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”. Il DDL 2418 sembra un disegno di legge firmato Giuseppe Tomasi di Lampedusa: cambia tutto affinché non cambi nulla. Infatti nella sostanza non c’era nulla da cambiare: la parità salariale è già una realtà consolidata nel nostro Paese, esplicitamente prevista dall’articolo 37 della Costituzione e ribadita dalla legge n. 741 del 1956, dalla n. 903 del 1977 e dal dlgs n°198 del 2006.
Prova ne sia che la novella 2021 non istituisce una legge di parità e pari opportunità nel lavoro, bensì: 1) introduce il monitoraggio sulle pari opportunità nel lavoro, che quindi già esistono; 2) abbassa il limite da 100 a 50 dipendenti per le aziende che possono, su base volontaria, redigere un rapporto sull’applicazione della legge di parità; 3) specifica che il rapporto redatto in modalità esclusivamente telematica, attraverso la compilazione di un modello pubblicato nel sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali; 4) specifica che il rapporto viene trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali ed altre modalità di compilazione del rapporto. Arriva poi una serie di incentivi economici, dagli sgravi fiscali all’accesso ai fondi europei, regionali e comunali, per le aziende che presentano il rapporto. Ricordiamolo: formalmente è su base volontaria, ma chi non compila un modulo spacciato per facoltativo sappia che ci rimette economicamente. Però il rapporto è facoltativo… È interessante poi, all’art. 3, la dicitura (corsivi nostri): «indicare le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato, nonché l’importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che siano stati eventualmente riconosciuti a ciascun lavoratore».
Si assumerebbero soltanto donne.
Vale a dire che il rapporto deve indicare sia lo stipendio-base che la retribuzione complessiva al lordo di eventuali componenti accessorie. Sarà interessante vedere quali parametri verranno considerati per stabilire se esiste o meno una differenza retributiva in base al genere: eventuali differenze nello stipendio-base sarebbero imputabili a diversità di genere a prescindere dal rendimento, eventuali differenze nella retribuzione complessiva sarebbero imputabili a diversità di rendimento a prescindere dal genere. Il primo parametro (retribuzione iniziale) è un dato certo stabilito dai CCNL, mentre il secondo parametro (retribuzione comprensiva di ogni voce accessoria) aggiunge allo stipendio-base una serie di variabili indipendenti dal sesso del lavoratore. Sarebbe impensabile inserire retribuzioni diverse in base al genere nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, il gender paygap non esiste per un semplice motivo: non può esistere… La storia del gender paygap è una delle più colossali bufale montate dal vittimismo ideologico. Non esiste un solo CCNL che preveda 1 euro di differenza in base al sesso; le eventuali disparità in busta paga per un lavoratore e una lavoratrice di pari livello possono nascere esclusivamente da straordinari, turni festivi o notturni, indennità di trasferta, indennità di rischio, premi produzione, bonus per obiettivi raggiunti o altri benefit previsti da contratto per qualunque lavoratore o lavoratrice. Quindi se lui guadagna 100 euro in più della collega è perché ha lavorato di più, non perché è un uomo.
Stesso discorso perfino nell’illegalità col caporalato che sfrutta lavoratrici e lavoratori clandestini: un raccoglitore di pomodori viene pagato – ovviamente in nero – 25 centesimi a cassetta. Se a fine giornata un uomo guadagna 10 euro è perché ha raccolto 40 cassette di pomodori, se una donna ne guadagna 7,50 è perché di cassette ne ha raccolte 30. Perfino tra i lavoratori sfruttati, sottopagati e privi dei più elementari diritti non esiste il gender paygap, la paga è legata esclusivamente al rendimento. Il ragionamento più efficace per comprendere la inconsistenza della teoria gender paygap è nell’ottica capitalista: se fosse vero che a parità di qualifica, anzianità di servizio, mansioni, ore lavorative e rendimento fosse possibile pagare meno le donne, qualunque azienda assumerebbe solo donne. Non solo un numero maggiore di donne, proprio esclusivamente donne. Il “padrone” avrebbe tutto l’interesse ad avere una forza lavoro che garantisca identica produttività ad un costo inferiore.
Così il femministicamente corretto è servito.
È una vecchia bufala, insomma, di cui ci eravamo già occupati. Quello che conta è che, dall’analisi del Disegno di Legge 2418, emerge comunque un fatto: non viene affermato che la norma serve ad abbattere il gender paygap, ma serve a verificare se il gender paygap esiste. Come già anticipato, staremo a vedere quali parametri verranno utilizzati per stabilire se esiste o meno; tuttavia non ci facciamo illusioni, un pessimismo congenito ci spinge a pensare che i dati verranno strumentalizzati per certificare inequivocabilmente che il gender paygap esiste e in Italia è più grave che in qualsiasi altra parte del mondo. E c’è chi, in questo senso, si porta già avanti. Ad esempio l’INPS, che sta facendo girare tra i suoi dipendenti un questionario utile, così viene dichiarato, a capire l’impatto e il gradimento dello “smart-working” utilizzato ampiamente durante la pandemia. Tra le domande però ne spunta una che, di fatto, non ha nulla a che fare con l’oggetto del sondaggio. Dice la domanda: «A parità di competenze, le donne in INPS sono meno valorizzate degli uomini», asserzione a cui il dipendente deve rispondere con una scala che va dal «sono fortemente in disaccordo» al «sono totalmente d’accordo», più un «non so». La domanda in questione è stata fotografata e ci è stata mandata da un nostro gentile lettore (immagine qua sopra), che ovviamente ha votato dichiarandosi totalmente in disaccordo.
Ora, è facile immaginare come si distribuiranno le risposte. Pressoché tutte le dipendenti INPS faranno la crocetta sul «totalmente d’accordo»: farlo non costa nulla (oltre tutto il questionario è anonimo), anzi asseconda il senso di insoddisfazione che ogni lavoratore dipendente ha rispetto alle mansioni che svolge e ai riconoscimenti che riceve. A questi aspetti del tutto naturali si aggiungerà una spinta ideologica innescata dalla martellante propaganda che sul tema del gender paygap ammorba, insieme a tante altre, la comunicazione pubblica. Anche se destituita di ogni fondamento, molte dipendenti INPS aderiranno alla frase “per principio”, perché “è giusto così”, perché nel Paese “c’è troppo maschilismo”, e così via. Ad esse si unirà un buon numero di uomini convinti della stessa cosa, a causa della stessa propaganda, o per una forma di cieca “cavalleria” innata. Ed ecco fatto: tra non molto tempo sui giornali uscirà, ben costruita a tavolino su un questionario interno privo di scientificità, una notizia roboante del tipo: «INPS: il divario professionale di genere è accertato nei dati», oppure: «Sondaggio INPS: donne al lavoro meno valorizzate degli uomini», o qualche altra spazzatura giornalistica simile. Così il femministicamente corretto è servito. In tantissimi se la berranno. In pochi si renderanno conto che la discriminazione retributiva inquantodonna è una bufala. Nessun uomo guadagna più di una collega inquantouomo. Nessuno.