La Fionda

Il gender “non esiste” (parte seconda)

Attivisti e lobbysti “GLBTIQ+” vogliono farvi credere che “il gender non esiste”, accusandovi di complottismo con qualche risatina ogni volta che venga menzionata la teoria o ideologia gender. Purtroppo invece l’ideologia gender esiste eccome, ed è estremamente deleteria per la società. Nella parte precedente di questa riflessione abbiamo visto come i teorici dell’ideologia gender puntino specificamente all’indottrinamento dei giovani e come la ristrutturazione del linguaggio comune sia uno degli strumenti chiave della loro strategia. Non è sufficiente riconfigurare il modo in cui le persone pensano e comunicano tra loro quotidianamente: occorre, per arrivare alla piena giustizia sociale woke, riconfigurare l’intero spazio del vivere comune, in modo che non contenga riferimenti al binarismo sessuale maschio-femmina, ma diventi “inclusivo”, appunto, verso individui di ogni “genere”. Quindi bisogna far piazza pulita del binarismo ovunque capiti di incontrarlo nella società: ad esempio nello sport, dove capita sempre più spesso che uomini che si sentono donne, gareggiando nelle categorie femminili conquistino il podio, nei bagni pubblici, nelle carceri, nelle scuole e università dove si spinge sempre più per l’adozione di quella che in Italia è chiamata “carriera alias”, la possibilità degli studenti (fin dalla scuola media) di essere riconosciuti e trattati da docenti, compagni e personale scolastico secondo il “genere” di loro elezione (e guai a opporsi). Agli attivisti del gender non importa che le differenziazioni legate ai due sessi siano profondamente innervate nella nostra biologia, nella nostra natura, che ci siano profonde ragioni storiche per cui si è arrivati a costruirle e mantenerle nelle strutture architettoniche e legislative delle nostre società, che la condivisione degli stessi spazi può portare a disagi e ingiustizie e aggravare la perpetrazione di molestie e violenze. Non solo: occorre far sì che persone di ogni “genere” abbiano, non già uguali opportunità di accedere a ogni forma di carriera e di espressione di sé nella convivenza sociale, ma bensì uguale effettiva rappresentanza, in ogni ambito sociale, in ogni professione, in ogni ruolo (eccetto quelli scomodi e faticosi, quelli li lasciamo fare ai “maschi bianchi etero-cis”: dopo millenni di oppressione, se lo meritano). E occorre che fiumi di finanziamenti pubblici siano attivamente spesi per realizzare tale uguale rappresentanza, tramite campagne martellanti, “quote” fissate arbitrariamente dai legislatori, e agevolazioni varie alle categorie “protette” e “oppresse”, arrivando alla soglia dell’imposizione, se necessario.

Parallelamente, si fanno campagne per dipingere come socialmente giusto l’abbandono dei ruoli tradizionali dell’uomo e della donna nella società e nella famiglia, stigmatizzando la mascolinità e la femminilità tradizionali. Non fa eccezione ovviamente lo spazio pubblico “virtuale”, quello dello spettacolo, del cinema, del videogioco. In ogni narrazione dev’essere usato il linguaggio di matrice gender, e devono trovare adeguata rappresentanza personaggi di ogni tipo e “genere”, per cui occorrerà ricostruire le storie ad hoc, cambiandone i protagonisti e riscrivendone il lessico: da Roald Dahl alla Sirenetta, da James Bond a Shakespeare. Non si può salvare neanche l’attività promozionale nel mercato di largo consumo, che dev’essere costellata di icone della fluidità gender, anche a costo di far crollare le vendite (negli USA è stato coniato un detto per descrivere ciò: go woke go broke, ossia «obbedisci al credo woke e fallirai»). Come accaduto giusto poche settimane fa all’azienda Anheuser-Busch, che ha impiegato l’ex-attore comico ora attivista “transgender” Dylan Mulvaney in uno spot per la birra Bud Light. Mulvaney è salito sul carro woke documentando il suo viaggio quotidiano verso l’identificazione in una teenager (“Days of girlhood”) su social come TikTok e Instagram, in cui sfoggia ogni più retrivo stereotipo sul comportamento e sulla gestualità femminile in performances sfacciatamente teatrali. Grazie al successo virale di questi video, Mulvaney è arrivato a fare pubblicità per una quantità di prodotti (tra cui tamponi intimi per donne), a comparire sulla copertina di prestigiose riviste, a intervenire al Forbes Power Women’s Summit – il convegno delle donne di potere organizzato da Forbes, e ad essere invitato a parlare con Joe Biden alla Casa Bianca riguardo i “diritti delle persone trans”. Ma la scelta di Mulvaney come nuovo volto della Bud Light non è stata ben recepita dai consumatori; il marchio ha conseguentemente visto crollare le vendite del 26% e di 6 miliardi il proprio valore azionistico nel giro di pochissimo tempo.

Dylan Mulvaney
Dylan Mulvaney

Get woke, go broke.

Il culto gender, pur essendo parte integrante dell’ideologia woke, non ha mancato di suscitare critiche, malumori e movimenti di opposizione interni agli stessi movimenti di rivendicazione legati ad altre “minoranze oppresse”: la pervasiva appropriazione degli spazi pubblici riservati alle donne suscita ad esempio l’indignazione delle femministe “radicali” che, essendo non intersezionaliste, vengono dispregiativamente ribattezzate “TERF” (trans-excluding radical feminists, “femministe radicali che escludono le donne transgender”), gruppo con cui paradossalmente l’autore di questo articolo finisce talvolta, nelle proprie battaglie gender critical, per trovarsi d’accordo… Allo stesso modo occorre ristrutturare alcuni concetti chiave della queer theory, come la definizione di omosessualità, al fine di “includere” i “corpi transgender”. Una lesbica non ha più diritto di definirsi come “donna attratta esclusivamente da altre donne”, perché “donna” dev’essere considerato chiunque si identifichi come tale in base al proprio “genere”, in quanto attributo immateriale, quindi indipendente da caratteristiche biologiche tipicamente maschili. E perciò la brava lesbica intersezionalista e obbediente al credo gender dovrà lasciar andare il “cotton ceiling”, la “barriera di cotone”, che il membro virile dell’individuo “translesbico” (che si sente donna per “identità di genere”, e quindi lesbica in quanto attratto da donne, ma fieramente portatore di un pene) cerca invano di penetrare. Un gay va bene se per “gay” si intende un individuo attratto da chi si identifica nel proprio stesso “genere” (a prescindere dalle sue caratteristiche fisiche), mentre va rieducato al culto gender, se insiste a sentirsi attratto solo da individui del proprio stesso sesso.

La feroce spinta a proporre la “transizione di genere” chirurgica e farmacologica a bambini e adolescenti che, per qualsivoglia motivo, non si conformano all’espressione tradizionale del proprio sesso biologico, va in questa direzione: il nesso non è peregrino, essendo dimostrato che la stragrande maggioranza degli adolescenti “di genere non conforme” che riesce a superare la pubertà indenne, si riconoscerà in una preferenza omosessuale (e indicherà in una omofobia più o meno consapevole una delle cause principali del disagio legato al proprio sesso). Di fatto la spinta al transgenderismo appare sotto questo aspetto a tutti gli effetti una “terapia di conversione” dell’omosessualità sotto mentite spoglie, mentre gli attivisti gender spingono per criminalizzare ogni tentativo di “dissuadere” il bambino non conforme dall’iniziare la medicalizzazione, proprio con l’accusa di voler mettere in atto, in tal modo, una “terapia di conversione” della presunta ontologica natura “transgender”. In pratica se qualche decennio fa si contrastava l’omosessualità anche mediante la castrazione chimica forzosa (come nel caso celebre di Alan Turing), oggi, attraverso l’ideologia gender, si spingono giovani omosessuali a richiedere volontariamente questo intervento (e addirittura con gli stessi farmaci impiegati per la castrazione chimica di colpevoli di reati sessuali). Proprio per questo motivo l’ideologia gender è contrastata dalle associazioni di omosessuali, che rifiutano le aggiunte più recenti e posticce “T” (transgender) e “Q” (queer). Un controsenso? Scrive ad esempio John Aravosis, attivista per i diritti degli omosessuali: «Molti omosessuali si sono rotti la testa nello sforzo di capire cosa avessero in comune con i transessuali, o perché le persone “transgender” si qualifichino come nostri simili. È una domanda legittima, ma non molti osano porla ad alta voce, perché non è politicamente corretto questionare l’aggiunta della “T” alle “GLB”; figurarsi domandare cosa un omosessuale come me abbia in comune con un uomo che vuole tagliarsi via il pene, costruirsi una vagina, e diventare una donna».

John Aravosis
John Aravosis

Il pastrocchio LBGTQ+.

A ben vedere le rivendicazioni dei “transgender” con le semplici preferenze sessuali hanno davvero poco a che fare, e sono piuttosto i cavalli di Troia dell’ideologia gender nei movimenti omosessuali. Con vantaggi solo a un senso. È innegabile infatti che sia stata proprio l’associazione spuria con i movimenti per i diritti degli omosessuali a garantire alle rivendicazioni legate al gender il successo che stanno avendo: facendo leva sul senso di tolleranza, inclusività e apertura della grande maggioranza delle persone, e sul sottile senso di colpa instillato nei “privilegiati” eterosessuali data la nostra società “eteronormativa”, per far sì che la massa garantisca a queste rivendicazioni (su cui i media fanno un’informazione orientata) il proprio consenso più o meno tacito, spesso senza coglierne le profonde differenze e i falsi ideologici sottesi. D’altra parte è proprio attraverso il collante della politica identitaria e della narrazione vittimista della discriminazione onnipervasiva e sistemica di determinate minoranze che il wokeismo può mantenere al proprio interno tante anime: come testimonia la costante estensione della bandiera-simbolo delle rivendicazioni omosessuali, originariamente un semplice arcobaleno, ora diventata un inquietante accrocchio di forme e colori per via delle rivendicazioni “transgender”, “asessuali”, “intersex” e perfino del Black Lives Matter. Queste “politiche dell’identità” sono state certamente uno strumento di queste rivendicazioni nella storia recente, ma non ne costituiscono una componente necessaria: sono anzi in molti anche nei movimenti omosessuali a criticare l’elevazione delle proprie preferenze sessuali a componente fondamentale della propria identità. Invece, se determinate caratteristiche dell’individuo compongono la propria “identità” in modo fondamentale, e sono deterministicamente legate all’esperienza dell’individuo nella società (in termini di integrazione o esclusione, eguaglianza o discriminazione), allora proteggere e magnificare questa “identità” diventa una necessità politica (da attuare, all’occorrenza, anche con strategie impositive).

Ecco allora che anche la disforia di genere diventa qualcosa da rivendicare e celebrare: grazie a questo sottile meccanismo, essa è stata de-patologizzata nel 2019, cavalcando la rivendicazione del presunto diritto a slegare la propria “identità” dall’etichetta stigmatizzante della patologia mentale. Proprio come accaduto per l’omosessualità nel 1990, in seguito alla precedente decisione (1973) in questo senso dell’APA, American Psychiatric Association, di toglierla dal DSM-II – ma non senza la persistenza di dubbi nella comunità scientifica. (Si veda, ad esempio, la critica dei fondamenti politici piuttosto che scientifici della decisione nel terzo capitolo di The Noble Lie dello psicoterapeuta e divulgatore scientifico Gary Greenberg, e la ricostruzione del processo che portò alla decisione in Homosexuality and American Psychiatry: The Politics of Diagnosis di Ronald Bayer, membro dell’US National Academy of Sciences e consulente dell’OMS). Quindi attenzione: se fino al maggio 2019 era possibile e scientificamente corretto dire che le persone “transgender” soffrono di un disturbo (fino a fine 2012 gender identity disorder, “disturbo dell’identità di genere”, poi tramutato nel più neutro gender dysphoria “disforia di genere”), ora che la condizione è stata de-patologizzata in gender incongruence (incongruenza di genere) è diventato uno psico-reato, un hate speech. Nota bene: l’“incongruenza di genere”, che a differenza delle precedenti formulazioni può essere diagnosticata anche in assenza di sofferenza psicologica e di inclinazione a sottoporsi a interventi, non è più considerata una questione di salute mentale, ma resta un problema di salute sessuale: in modo da consentire comunque ai professionisti del settore di procedere con terapie farmacologiche e interventi chirurgici. Ma mentre il comportamento omosessuale è testimoniato in ogni popolo, in ogni epoca e anche in moltissime specie animali diverse, sia pure con modalità e ragioni specifiche per ciascuna (e ancora non del tutto comprese per cui non si può davvero escludere nessuna ipotesi), il fenomeno del “transgenderismo” moderno (solo in alcuni casi riconducibile al travestitismo, che ha una sua storia a parte), specie nella versione che si manifesta in bambini e adolescenti, sembra essere un fenomeno tipicamente umano, moderno e occidentale – e fino a due decenni fa, appunto, molto raro e strettamente legato a una sintomatologia di profonda sofferenza psicologica in chi ne fosse portatore. Siamo proprio sicuri che le due cose possano stare sullo stesso piano?



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