Ci siamo sbagliati e pure di grosso. Venerdì scorso abbiamo dato per scontato che la presentazione del “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” da parte della Commissione Femminicidio riguardasse il tanto annunciato e tanto atteso esame dei più di 1.500 casi di processi dove, stando alla senatrice Valeria Valente, con il pretesto della “Sindrome da Alienazione Parentale” numerosi minori sono stati strappati via da madri accudenti e consegnati a padri violenti e abusanti. Non era quello: per quella fantomatica relazione a quanto pare, dopo due anni dal suo annuncio, occorre attendere ancora. Si è trattato invece della presentazione degli esiti di uno studio con cui la Commissione Femminicidio in sostanza dà i voti alla magistratura e agli psicologi forensi relativamente al loro rispetto dei diktat della Convenzione di Istanbul. Il rapporto lo dice chiaramente: la Convenzione auspica una «collaborazione tra autorità». Un aggancio pretestuoso per cercare di superare la rigorosa separazione del potere politico da quello giudiziario, il quale però, questo il senso del Rapporto presentato, deve imparare a piegarsi ai principi della Convenzione stessa. In questo senso, la politica è giusto che attui una «verifica della qualità della risposta giudiziaria». E tale qualità, nella visione distorta di Valeria Valente & Co., si misura verificando «se e come i principi fondamentali della stessa Convenzione abbiano assunto concreto rilievo traducendosi nella realtà operativa».
La magistratura e i suoi consulenti sono chiamati a giudizio, insomma, con l’obbligo di dimostrare di aver agito in conformità con una convenzione internazionale tra le più discriminatorie mai concepite oltre che tra le più delegittimate, vista dall’uscita del primo paese firmatario, la Turchia, più altri (Polonia e Ungheria) che hanno registrato l’ovvio, ovvero la non conformità dell’accordo internazionale con le costituzioni nazionali. All’interno del Rapporto, il giudizio politico sull’operato della magistratura e degli psicologi si basa su due direttrici: il modo di gestire i procedimenti e la formazione/specializzazione degli operatori sul tema della «violenza maschile contro le donne», come la chiama Valeria Valente. Sul banco degli imputati finiscono procure, tribunali, tribunali di sorveglianza, CSM, scuola superiore della magistratura e gli psicologi. Non manca nulla della filiera in cui cerca di infiltrarsi in ogni modo il femminismo vittimista. Che nel rapporto si erge a giudice severo di un intero apparato statale, prendendo a riferimento dati già preistorici, quelli dal 2016 al 2018, rilevati tramite appositi questionari che, ovviamente, non vengono allegati al rapporto. Essendo stati elaborati da Linda Laura Sabbadini e dal suo staff, sa solo il cielo che tipo di domande contenevano… Di certo erano tutti caratterizzati da un bias specifico, lo stesso consacrato dalla Convenzione di Istanbul: i delitti contro le donne hanno una loro specificità, e per questo è indispensabile stabilire particolari «modelli organizzativi».
Una grande spinta a indottrinare l’intero sistema giudiziario.
Sì ma di quale “specificità” si parla? Semplice: quella contro le donne è in qualche forma e in qualche misura “più violenza” di ogni altra. Come? La Convenzione di Istanbul ne fa solo accenno, per evitare di essere più illegittima di quanto già non sia, ma il riferimento è a un presupposto preciso: è sempre esistita ed è ancora in atto una persecuzione degli uomini contro le donne, messa in atto soprattutto attraverso la violenza. Cioè quando un uomo picchia o uccide una donna non lo fa per una molteplicità potenzialmente infinita di motivi, ma solo ed esclusivamente per affermare la propria supremazia ontologica sulla donna stessa. Ovvero, consciamente o inconsciamente poco importa, fa violenza alla donna “in quanto donna”, e non per altro. Avendo questa specificità, dice la Convenzione e ripetono a pappagallo tutte le sue seguaci, le autorità devono anzitutto riconoscerla, poi sanzionarla in modo specifico e speciale rispetto ad altri delitti, proteggendo le vittime in modo altrettanto speciale. Dunque l’aspettativa è che i casi che riguardano le “donne vittime di violenza” abbiano una corsia diversa, se possibile preferenziale, all’interno delle prassi giudiziarie rispetto ad ogni altro tipo di delitto: tali donne infatti sono più vittime di chiunque altro, gli uomini sono più carnefici di chiunque altro, ed è a questo concetto di base, giuridicamente mostruoso oltre che destituito di ogni fondamento, che tutta la magistratura e i suoi consulenti devono allinearsi. Il concetto è espresso nel Rapporto in gretto politichese, dove parla di «riconoscimento della complessità della materia», ovvero: noi sappiamo quale sia la specialità della violenza contro le donne, voi no. Quindi, giudici e psicologi, dovete imparare a fare come vi diciamo noi.
Il Rapporto realizzato dalla Sabbadini per conto della “Commissione Femminicidio” è semplicemente questo: dà i voti alle componenti del sistema giudiziario e agli psicologi a seconda di quanto esse si sono adeguate a quella chiave di lettura apertamente discriminatoria, definendo “virtuose” quelle che vi hanno ceduto e “poco o per nulla virtuose” quelle che per vari motivi non hanno ceduto (per esempio le procure che non hanno concesso corsie preferenziali e hanno osato «equiparare ad altre materie» la violenza di genere!). Quand’è dunque, secondo il Rapporto, che un apparato agisce in modo “virtuoso”? Ad esempio quando affida i casi di violenza di genere a PM “appositamente formati e specializzati”, con ciò accettando implicitamente il presupposto della specialità rispetto ad altri reati: è virtuoso, nei parametri del Rapporto, che in materia operino giudici addestrati ad accanirsi a portare avanti i procedimenti, magari pure in assenza di qualunque riscontro, come spesso accade, anche a costo di andare a sbattere contro continue assoluzioni. Virtuoso è anche scegliere CTU graditi ai centri antiviolenza o da essi formati, smettendo di sceglierli dall’apposito albo. Virtuosi sono anche quei tribunali con tassi di condanne più alti di altri e quelli che trasformano i processi civili di separazione coniugale in una specie di quarto grado penale. Perché qui c’è il problema più grosso, come sottolineiamo spesso in queste pagine: la montagna delle denunce, fatte in gran parte in ambito separativo, partorisce ogni anno un minuscolo topolino di condanne. Segno che gran parte delle denunce è falsa o strumentale, una vera spina nel fianco per le fanatiche della Convenzione di Istanbul. Il Rapporto della Commissione Femminicidio si mostra disperato per questo e carica di colpe il procedimento civile, con ciò cercando di premere la magistratura giudicante verso un maggior numero di sentenze di condanna o, cosa pienamente incostituzionale, verso una considerazione delle accuse di violenza, anche quando ancora non sentenziate, nell’ambito del processo civile di separazione. Ci provano da anni, fortunatamente senza riuscirci: la scuola superiore della magistratura evidentemente continua a trasmettere un minimo di etica e di indipendenza di giudizio. Forse anche per questo non manca l’auspicio che il femminismo vittimista possa entrare a fare “formazione” (indottrinamento) anche in quella ed altre sedi.
Un tentativo illegale di condizionare la magistratura.
Anche la “formazione e specializzazione” sono infatti un elemento di valutazione nel Rapporto. Ed è una critica a 360 gradi: sembra che tutte le componenti esaminate, dalle procure agli psicologi, non siano tanto propensi a farsi indottrinare dalle femministe, infatti il giudizio della statistica elaborata dalla Sabbadini è molto severo. Non va bene, discoli che non siete altro, giudici, avvocati e psicologi: dovete farvi lavare il cervello di più e più di buon grado, in modo da arrivare al regime spagnolo, come minimo, e magari anche oltre: tutti gli uomini colpevoli fino a prova contraria e tutte le donne vittime a prescindere, con tanto di assistenza pagata dallo Stato. Questo in sostanza è il messaggio del Rapporto della Commissione Femminicidio, che viene subito smentito, sebbene con garbo, dai diversi altissimi magistrati che intervengono dopo la sua presentazione. Con buone parole dicono: d’accordo sulla collaborazione e il dialogo, ma noi siamo indipendenti, non ci facciamo dettare le linee da voi e da nessun altro. Mentre parlano, sulla spalla di ciascuno di loro appare, tipo spettro, il faccione di Luca Palamara, a conferma che ce ne vuole prima che quello “Stato nello Stato” si faccia imboccare o condizionare da qualcuno esterno alla sua cerchia. L’intervento dell’Ordine degli Psicologi mette il carico da undici, semplicemente smentendo le accuse implicite del rapporto sul fatto che spesso i CTU sono incompetenti e fanno danni. «Per fare il CTU si passa una severa selezione, basata su un protocollo tra l’Ordine degli Psicologi e il CSM», precisa il Presidente dell’Ordine stesso. Alla Sabbadini e alla Valente il volto gli si strizza come se avessero succhiato un limone.
Insomma, much ado about nothing direbbe quel patriarcale di Shakespeare: tanto rumore per nulla. Quella cosa inutile e delegittimata che è la Convenzione di Istanbul prevedrebbe un’infiltrazione sottile e graduale del femminismo vittimista all’interno dei gangli della giustizia, ma la giustizia, che pure ha già concesso fin troppi spazi, non ci sta. Quel Rapporto vale meno della carta su cui sta scritto (4 euro, come riportato nell’ultima pagina). Per questo diventa una macchietta ad un tempo ridicola e angosciante la conclusione della presentazione pronunciata dalla Valente. Anche lei ha il suo spettro sulla spalla, mentre parla: il volto corrucciato della latitante Laura Massaro, finita in un circuito vizioso e ora criminale probabilmente anche per le rassicurazioni della Valente e di altri politici di primo piano. Con questo peso sul groppone, la Valente conclude balbettando proposte senza senso per connettere civile e penale, per far sì che l’uomo accusato di violenza domestica venga limitato o penalizzato «anche solo con misure temporanee» dal lato della separazione civile e dell’affido dei figli, fin tanto che non si giunge a una condanna o a un’assoluzione. Sciocchezze, stupidaggini incostituzionali anche solo a pensarle, che per altro in forma implicita già si attuano con l’illegale applicazione della Legge 54/2006 da parte di quasi tutta la magistratura. Il vero problema sta lì e nella spaventosa quota di denunce strumentali che finiscono in nulla, penalizzando un gran numero di ottimi padri e rendendo invisibili numerose donne realmente vittime di violenza. Questioni che alla Commissione Femminicidio e all’intero sistema non interessano, preoccupati come sono di coniugare il bassissimo tasso di violenze contro le donne nel nostro paese e l’altissimo tasso di interessi economici e di potere innestato sul suo sovradimensionamento. Il punto vero è che quell’orrore della Convenzione di Istanbul non è compatibile con uno Stato di Diritto, quale è sancito dalla nostra Costituzione. Per questo la presentazione del Rapporto e il Rapporto stesso sono stati e saranno un buco nell’acqua e, a nostro parere, una vergogna istituzionale, oltre che un tentativo illegale di condizionare la magistratura per portarla a realizzare nella realtà dogmi ideologici folli e privi di fondamento.
Questi tentativi criminali non cesseranno tanto presto.
Ma allora a cosa servono il Rapporto e la sua presentazione? A niente. O meglio: a confermare l’inutilità e la pericolosità della Convenzione di Istanbul, della Commissione Femminicidio e di tutto ciò che vi ruota attorno. Cellule tumorali di un sistema democratico già molto carente, che tentano disperatamente di allargarsi ai nodi linfatici fondamentali della vita pubblica per portarla nella condizione mortifera di un regime fondato sull’ingiustizia e sulla discriminazione. Se ciò a qualcuno ancora non fosse chiaro, si legga con attenzione il Rapporto, ma soprattutto si riguardi la sua presentazione (video a inizio articolo), con l’ex magistrato Maria Monteleone che decanta la giustezza delle leggi che hanno equiparato i colpevoli di violenza di genere (in realtà non tutti) ai mafiosi: essendo essi persone che hanno commesso reati di una tale specificità è giusto che abbiano meno diritti. Parola non di un’opinionista qualunque, ma di una ex magistrato, di fronte a una platea di portatori d’interesse (tra cui il GREVIO) e giornalisti che poi hanno riportato notizia dell’evento copia-incollando il comunicato stampa fornito dalla Commissione Femminicidio. «Se la giustizia non riconosce la violenza contro le donne», questi erano i titoli un po’ dappertutto. Quando in realtà il titolo giusto è il nostro: «Il femminismo d’affari bussa alla porta della magistratura. Che però non apre». Almeno per ora. Affinché quella porta resti chiusa la società civile e le persone di buona volontà non dovranno smettere di vigilare e combattere contro questa deriva. Perché questa forma di criminalità organizzata e istituzionale non smetterà tanto presto di provare con ogni mezzo a prendersi tutto.