Il Women’s Rights National Historical Park è un parco nazionale istituito nel 1980 che si trova a Seneca Falls, in memoria della Convenzione che ebbe luogo sullo stesso posto nel 1848. Il Parco comprende diversi edifici visitabili, tra i quali la chiesa, sede dell’incontro, e la casa di Elizabeth Cady Stanton. A ricevere i visitatori nel lobby del Visitor Center, la statua della prima ondata (The First Wave statue). Nel Campidoglio degli Stati Uniti si trova il gruppo monumentale marmoreo di Lucretia Mott, Elizabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony. In Inghilterra, a Londra si trova il memorial di Emmeline e Christabel Pankhurst. La mia scelta di occuparmi principalmente del femminismo borghese, obiezione che mi è stata sollevata da un lettore, è una scelta dettata dalla storiografia femminista. Il femminismo borghese, il suffragismo, è il femminismo commemorato, e quello che fa la parte del leone nei libri di storiografia di genere. In questa storiografia il femminismo proletario svolge un ruolo minore, e gli altri tipi di femminismo della prima ondata risultano assolutamente marginali.
Il femminismo proletario della prima ondata, a mio avviso, si potrebbe dividere molto brevemente in due fasi. La prima, che possiamo definire teorica, parte dai socialisti utopici, dal sansimonismo a Charles Fourier e la sua difesa del libero amore, passa per Flora Tristan e finisce con Marx, Engels e Bebel. La seconda, che possiamo definire sperimentale o pratica, è il tentativo di realizzazione dei postulati teorici precedenti, principalmente nell’URSS. Tra il femminismo borghese e il proletario non è mai corso buon sangue. In Francia durante il Congresso del 1907 venne a galla tutta la tensione. Alcune donne socialiste (Louise Saumoneau, Clara Zetkin) furono molto critiche con il femminismo tout court e in alcuni casi abbandonarono addirittura il suffragismo. Molti sono i punti di dissenso tra i due movimenti. Per le femministe borghesi la famiglia era il luogo naturale di sviluppo e la maternità il più alto compito femminile, fonte della loro superiorità morale. Per le femministe proletarie la famiglia era un’entità capitalista da distruggere. Marx e Engels scrivono nel Manifesto del partito comunista, 1848: «Abolizione della famiglia! […] Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione». Un anno prima nei Principi del comunismo, Engels scrive: «L’ordinamento comunistico della società […] educa in comune i bambini, distruggendo così le due fondamenta del matrimonio come si è avuto finora; la dipendenza della donna dall’uomo e dei figli dai genitori dovuta alla proprietà privata». La maternità è vista come un peso, negativamente, i figli sono un carico da trasferire alla società, e così verrà giudicata anche da Simone de Beauvoir. La questione della servitù fu un altro costante pomo della discordia tra queste donne.
Le donne chiesero con forza il ripristino delle tutele patriarcali.
Tra tutti i punti di dissenso, ci sono due che meritano una profonda riflessione. Il secondo è una conseguenza del primo. 1) Per il comunismo la parità doveva raggiungersi mediante la conformazione della donna all’uomo. Scrive il marxista Aaron Zalkind: «sotto il profilo economico e politico, quindi anche sotto quello fisiologico, la donna del proletariato moderno deve avvicinarsi sempre di più all’uomo». Le donne erano uguali agli uomini e la loro emancipazione risiedeva nell’incorporazione al lavoro retribuito negli stessi termini e alle stesse condizioni degli uomini (femminismo dell’uguaglianza?). Per le borghesi invece l’omologazione viaggiava dall’uomo verso la donna, essere moralmente superiore. La rivista francese La voix des femmes, nel 1848, scrive: «la donna non si deve emancipare diventando uomo, ma deve emancipare l’uomo rendendolo donna». Le donne erano diverse, superiori, riproduttrici, madri, il loro lavoro fuori casa era secondario rispetto a quello maschile, bisognava rivalutare e mettere in risalto i valori femminili, la maternità, le cure familiari, la moralità, mediante la partecipazione attiva della donna e il riconoscimento sociale che meritava (femminismo della differenza?). Da questo approccio diverso scaturisce il secondo punto di dissenso. 2) Per le proletarie basta eliminare le normative che privilegiano gli uomini e ostacolano le donne, e queste, esseri identici agli uomini, si ergeranno alla pari degli uomini. Per le borghesi invece le battaglie per la difesa dei diritti delle donne sono effettuate chiedendo il soccorso alla forza dello Stato. Per poter esprimere il loro potenziale le donne devono essere tutelate, protette, si tratta di femminismo sovvenzionato.
La messa in pratica della teoria del femminismo proletario, nell’URSS, primo esperimento nel mondo di ingegneria sociale femminista, si rivelò un fallimento assoluto. Con la Rivoluzione Russa la donna ottenne ogni diritto e fu “liberata” dalle catene della procreazione: la famiglia, il matrimonio. Fu resa uguale a un uomo. Nel 1909 Alexandra Kollontaj (1872-1952) scrive: «per riuscire a diventare realmente libere, la donna deve disfarsi dalle pesanti catene che conformano l’attuale istituzione della famiglia, che è sorpassata e oppressiva». La liberazione della donna passa per la socializzazione della famiglia, dei figli. Sempre Alexandra Kollontaj: «la moralità borghese esige tutto per la persona amata. La moralità proletaria esige tutto per la collettività». In un periodo di grande instabilità economica e sociale, di fame e povertà, tutti subirono negativamente le conseguenze, ma gli uomini se la cavarono molto meglio delle donne. Le gravidanze, la distruzione del matrimonio e il lavoro a cottimo penalizzavano fortemente le donne. Il risultato fu il dilagare della prostituzione, le separazioni, l’abbandono infantile, la delinquenza infantile e le donne che chiedevano con forza il ripristino delle tutele patriarcali. Dopo neanche vent’anni, la politica sovietica fece un giro di 180 gradi, con un primo codice conservatore nel 1936, e la conferma definitiva nell’Editto di famiglia del 1944, con il ripristino di tutte misure “borghesi” a tutela delle donne e dell’istituzione della famiglia. (L’analisi di questa fase storica del femminismo nell’URSS merita sicuramente maggior approfondimento, ma esula da questo intervento. Per un approccio un po’ più circostanziato consiglio la lettura de La grande menzogna del femminismo, pp. 614-617, 654-656, oppure questo intervento online The Russian Effort to Abolish Marriage).
Le donne operaie vivevano e soffrivano affianco ai loro uomini, anche loro operai.
Infine, un’ultima riflessione di un’importanza, a mio avviso, capitale. Il cuore del comunismo risiede nella “lotta di classe”. Karl Marx nel Manifesto del Partito comunista scrive: «La storia di ogni società civile esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta». Non è un’idea originale sua. Nella Bibbia (Sir 13, 19) c’è scritto: «Come l’asino che vive nel deserto preda dei leoni, così i poveri sono pascolo dei ricchi». Si può essere più o meno d’accordo, ma questo è il succo da dove nasce tutta la dottrina marxista. Il femminismo scambia le classi sociali per il sesso, tutta la dottrina femminista nasce dal “conflitto dei sessi”. Nel suo programma nel 1979 il Partito Femminista di Spagna dichiara: «la donna è una classe sociale sfruttata e oppressa dall’uomo». «Tutte le donne, indipendentemente della loro classe, sono oppresse in quanto donne» (Juliet Mitchell, La condizione della donna, pp. 58-59). Citazioni simili abbondano nella letteratura femminista, dogma fondamentale scaturito già durante la prima ondata. In Italia, all’inizio del XX secolo, il Comitato Pro Voto di Torino (1906-1922) proclama: «La distinzione tra femminismo borghese e femminismo proletario è assolutamente arbitraria e insussistente, perché è femminismo la lotta che il sesso femminile tutto quanto è impegnato a combattere contro la supremazia maschile, che dall’individuo alla famiglia, allo Stato, impedisce il libero espandersi della personalità femminile, negandole tutti i diritti ed opprimendola di tutti i doveri…». Questa è la linea di pensiero di tutto il femminismo borghese, che spiega l’indifferenza che provocava in queste donne la lotta proletaria (e dunque anche maschile). Per fare un semplice esempio, la celebre scrittrice aristocratica spagnola Emilia Pardo Bazán (1851-1921) nelle sue opere presta appena attenzione alle disuguaglianze di classe, si concentra sulla denuncia delle disuguaglianze tra i sessi.
Intuitivamente si comprende che queste due visioni del mondo sono inconciliabili. Delle due l’una: o i proletari (maschi e femmine) sono la classe oppressa o lo sono le donne (borghesi e proletarie); o i borghesi (maschi e femmine) sono gli oppressori o lo sono gli uomini (borghesi e proletari). Quest’aporia provocò inevitabilmente in alcune femministe proletarie un cortocircuito. Anna Kulisciov (1855-1925) rifiutò di sostenere la dichiarazione del Comitato Pro Voto di Torino (1906-1922) perché «avrei con ciò implicitamente accettato la concezione confusa che considera il movimento delle donne come una questione di sesso, cioè di una massa indistinta». Nel 1909, Alexandra Kollontaj scrive: «Le femministe vedono gli uomini come i principali nemici, perché gli uomini si sono appropriati ingiustamente di tutti i diritti e privilegi per sé e hanno lasciato le donne soltanto catene e obblighi. […] Le donne lavoratrici hanno un’opinione diversa. Loro non vedono gli uomini come nemici e oppressori, al contrario, pensano agli uomini come ai loro compagni […]. La donna e il suo compagno maschio sono schiavizzati dalle stesse condizioni sociali…». Le donne operaie vivevano e soffrivano affianco ai loro uomini, anche loro operai. Loro avevano una constatazione diretta e quotidiana della falsità della dottrina femminista: c’erano uomini oppressi e donne che opprimevano. Questo è il motivo per il quale raramente si trovano femministe tra le donne che dormono per strada, perché queste sono consapevoli delle condizioni identiche nelle quali vivono i loro “colleghi” barboni maschi (85% circa uomini).
Indovinate che paga il conto?
In questi ultimi tempi il femminismo ha cercato di risolvere quest’aporia mediante la creazione di un altro femminismo: il femminismo intersezionale. Tanto le donne quanto i proletari uomini sarebbero oppressi, ma in diverso grado. Il problema però non si è risolto perché il femminismo intersezionale crea una gerarchia: al primo posto nella scala di oppressione stanno le donne. Dunque, è vero che ci sono uomini oppressi, ma da altri uomini, non dalle donne. Detto in maniera pratica, il minatore affetto di silicosi non sarà mai e poi mai più oppresso di Hillary Clinton, che è una donna. Siamo come vedete punto e a capo. Impossibile conciliare comunismo e femminismo, una delle due oppressioni è per forza più opprimente, sono visioni del mondo inconciliabili. Ciò significa, per chiunque aderisca a una delle due ideologie, che l’altra è per forza falsa: o il proletario o le donne. Scegliete. È l’espressione femminismo proletario un ossimoro? Naturalmente, e non è la sola, anche femminismo cristiano, femminismo islamico, ecc. Si sa il femminismo vive di contraddizioni. L’attuale femminismo rappresenta il trionfo assoluto del femminismo borghese rispetto a quello proletario: la conformazione dell’uomo alla donna (la nota mascolinità tossica, le campagne per l’espressione dei sentimenti,…), il femminismo sovvenzionato (quote, tutele, campagne, finanziamenti, ministeri, normative e leggi di discriminazione positiva,…) e l’universo femminile concepito come un unica classe oppressa (da Hillary Clinton, Beyoncé, Boldrini e Lagarde, alla portinaia del mio condominio). Il fallimento storico del femminismo nell’URSS servì da lezione per le nuove leve femministe. Non si fa la Rivoluzione femminista senza soldi e tutele. Libere sì, ma in modalità agiata. Nessun divorzio senza assegno divorzile. Indovinate che paga il conto?