Ci siamo occupati più volte in passato di “gender paygap“, discriminazioni sul lavoro a danno delle donne, disoccupazione femminile, mancato accesso delle donne al mondo professionale. Ogni volta ci siamo espressi con toni aspri, smentendo che tutto ciò esista veramente. Abbiamo scavato nelle statistiche vecchie e nuove, negli indicatori, nei concetti di micro e macroeconomia, oltre che nei fondamenti della logica, per dimostrare che si trattava di una narrazione falsata e che, se disparità ce n’erano davvero, esse derivavano in prima istanza dalle libere scelte delle donne, caso mai ancora troppo condizionate, oltre al resto, dalla progettualità genitoriale e dal peso che la legge mette quasi esclusivamente sulle spalle della madre. Ebbene, ci siamo sempre sbagliati, ed è il momento di fare ammenda.
Partiamo dall’inizio, da qualcosa che forse non proprio tutti sanno. Esiste una legge, la n.92 del 28/06/2012, in cui il legislatore (sostanzialmente l’ex ministro Elsa Fornero), consapevole delle difficoltà che le donne incontrano sia in fase di ingresso che di rientro nel mercato del lavoro dopo periodi di maternità e/o di cura dei figli o dopo casi di violenza certificati dai centri antiviolenza, ha voluto introdurre vantaggi molto consistenti per favorire l’assunzione di personale femminile. Fin da subito la norma è stata pensata per avere piena stabilità, ossia per essere corposamente rifinanziata ogni anno, allo scopo di coprire sgravi fiscali del 50% previsti per le aziende che assumono donne. Sgravi che di recente sono stati incrementati addirittura al 100% (per un massimo di 6.000 euro annui), anche per ottemperare a un successivo Regolamento dell’Unione Europea, il 651/2014, che include le donne nella categoria dei “lavoratori svantaggiati”. La legge stabilisce infine che gli impieghi garantiti da questo sgravio devono avere carattere stabile.
Non giochiamo con le statistiche, per favore.
Sappiamo già cosa passa ora per la testa del nostro lettore medio: è ingiusto. In cosa mai una donna è più “svantaggiata” rispetto a un uomo nella ricerca del lavoro? Sussiste la libertà di scelta per qualunque percorso di studi e per qualunque conseguente professione, dunque perché creare una corsia preferenziale per le donne? Dice: la maternità penalizza. Vero, ma a parte che non tutte le donne progettano di diventare madri, il problema è semmai quello di consentire al padre del nascituro di “smezzare” la penalizzazione professionale con la moglie/compagna, concedendogli (anzi magari obbligandolo a) un lungo congedo neonatale. Così, per di più, fare un figlio diventerebbe davvero questione di maturità di coppia e pianificazione familiare. Non solo, dirà il nostro lettore medio: siamo proprio sicuri che ci siano così tante donne che vogliono lavorare? Stando ai più recenti dati ISTAT non si direbbe, guardando agli “inattivi”, ossia a coloro che non cercano e non intendono cercare lavoro: per poco meno di un uomo sfaccendato (13% gli inattivi uomini nel 2021) ci sono due donne nella stessa condizione (23% gli inattivi donne nel 2021), che per svariati motivi possono non affannarsi a cercare un impiego.
Si tratta di ragionamenti miopi e limitati, in realtà. È ovvio che la Fornero, ai tempi, e ancor più il Governo attuale, che ha ampliato la copertura degli sgravi al 100%, hanno un quadro molto più chiaro e realistico della situazione corrente, a partire dall’impressionante differenza tra gli occupati uomini e donne. Roba da terzo mondo: poco meno di 4 milioni di unità a svantaggio delle donne, sempre secondo i più recenti dati ISTAT. Non può essere soltanto la maternità la ragione di un divario così profondo, specie a fronte degli ultimi dati da brivido sulla natalità in Italia, mai così in basso. Fare un figlio è oggi un lusso, i giovani lavoratori e le giovani lavoratrici lo sanno bene, quindi operano per un loro consolidamento professionale prima di concepire anche solo l’idea di procreare. Non solo: il tasso di donne inattive doppio rispetto a quello degli uomini non può essere giustificato da una minore propensione a lavorare del sesso femminile, né a un’alta quota di donne che scelgono il ruolo domestico. Siamo nel 2021, gente, davvero ritenete che gli 8,5 milioni di donne disinteressate a un impiego possano vivere di rendita o abbiano tutte liberamente scelto di fare le casalinghe? Non scherziamo. Il motivo del divario dev’essere evidentemente altrove, ed è qui che noi per primi dobbiamo ammettere un fatto scomodo.
L’impietoso elenco dei settori con maggiori divari.
Il fatto scomodo è che, ancora nel 2021, esistono vere e proprie discriminazioni nel mondo del lavoro. Esistono interi settori che, come la magistratura fino a metà del ‘900, respingono le lavoratrici per veri e propri motivi di sessismo. E, diciamolo senza remore e con piena sincerità, si tratta di una realtà vergognosa, indegna di un paese civile. Il lavoro, è scritto in Costituzione, è un diritto. Come tale va garantito a tutti, senza distinzioni di sesso. Gli uomini per primi che oggi, stando ai numeri e ai fatti, godono di un privilegio che gli garantisce maggiore occupazione rispetto alle donne, dovrebbero prenderne atto e accettare di buon grado le tante iniziative di legge per favorire l’occupazione femminile. Invece c’è ancora chi parla, a questo proposito, di misure discriminatorie antimaschili, di “sessismo misandrico”, di un piano per depotenziare ciò che più di ogni altra cosa, fin dalla notte dei tempi, qualifica l’essere uomo, per l’appunto il lavoro. Sono tutte sciocchezze. E vivaddio il Ministero del Lavoro ha voluto mettere in chiaro questa cosa una volta per tutte.
Con il suo Decreto n.402 del 17 dicembre scorso, infatti, elaborato di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, oltre a confermare gli sgravi al 100% per l’assunzione preferenziale di donne, ha inserito un’utilissima rilevazione statistica, dove si elencano i settori lavorativi dove la presenza femminile è più discriminata che altrove, e dove dunque si spera che le disposizioni del decreto abbiano più efficacia. È così che andrebbero sempre fatte le leggi, con un’indicazione precisa del bersaglio da colpire, dell’area problematica su cui applicare le nuove normative. L’elenco del Ministero è tale da imporre il silenzio a tutti coloro, noi per primi, che negavano l’esistenza di vergognose discriminazioni e scandalosi divari tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Ecco dunque i dati, direttamente dal decreto: «tasso di disparità uomo-donna del 49,8% in agricoltura; dell’80,6% nel settore industria e costruzioni; del 56,6% nel settore del trasporto e magazzinaggio; del 95,8% per gli artigiani e gli operai metalmeccanici specializzati e installatori e manutentori di attrezzature elettriche ed elettroniche e per quelli specializzati dell’industria estrattiva dell’edilizia e della manutenzione degli edifici». Ma soprattutto impressiona il tasso di disparità uomo-donna «del 96% per i conduttori di veicoli, di macchinari mobili e di sollevamento», dove sicuramente gli incentivi ministeriali avranno un effetto risolutore, consentendo alle tantissime donne che lo desiderano di sperimentare l’ebrezza del privilegio maschile. Tipo quello di questi operai in Via Genova, a Torino, ore 10.00 di due giorni fa.