La Fionda

Il divario salariale di genere come scusa per arraffare il Recovery Fund

di Redazione. In settimana moltissimi lettori ci hanno segnalato questo articolo ANSA, relativo alla presentazione della relazione sul “Bilancio di Genere” del Ministero dell’Economia e delle Finanze, illustrata in audizione alle commissioni Bilancio di Senato e Camera dalla sottosegretaria all’Economia, On. Cecilia Guerra. Si parla, o meglio blatera, di divario salariale di genere, o gender paygap per chi mastica l’inglese. Un argomento ormai così ampiamente smentito che pensavamo non ci fosse alcun bisogno di affrontarlo ancora. Eppure, visto l’ampio e sfacciato uso che se ne fa, per di più in sedi ufficiali e istituzionali, qualche parola vale la pena dirla ancora, proprio partendo da ciò che l’On. Guerra ha ritenuto di commentare rispetto al report sul “Bilancio di Genere”.

“Il reddito medio delle donne”, riporta ANSA, “rappresenta circa il 59,5% di quello degli uomini a livello complessivo. La diversità dei redditi si riflette anche nel gettito fiscale con una minore aliquota media per le donne”. Una lettura corretta di tutto ciò sarebbe: gli uomini lavorano di più e pagano più tasse per servizi di cui si giovano tutti, donne incluse, che però lavorano meno. La lettura ideologica, quindi sbagliata, è quella che ne dà l’On. Guerra, secondo cui la disparità registrata deriva da “disuguaglianze di genere nei redditi” quando non da “vere e proprie discriminazioni sul mercato del lavoro a scapito delle donne”. Definiamo sbagliata questa chiave di lettura perché non sta in piedi dal lato logico, per due ordini di motivi.

Cecilia guerra
Cecilia guerra

Possono esserci scelte diverse.

Ipotizzare che in Italia esistano disuguaglianze di genere nei redditi, significa ipotizzare che la stragrande maggioranza delle aziende di ogni settore violi sistematicamente i contratti collettivi nazionali di lavoro, ovvero il riferimento normativo obbligatorio entro cui ogni lavoratore dipendente viene inquadrato. È un reato in Italia assumere due persone con lo stesso identico inquadramento e gli stessi identici istituti pagando loro stipendi molto diversi. Fatta salva la disciplina dei “superminimi”, piccoli incrementi che il datore di lavoro può deliberatamente attribuire a un dipendente, di proporzioni comunque mai così significative da smuovere le grandi statistiche, quella che l’On. Guerra sta ipotizzando è un’illegalità diffusa e strutturale dove ogni CCNL viene allegramente ignorato o violato solo per il gusto di discriminare le donne. Chiaro che si tratta di un’ipotesi talmente folle che non necessita di grandi prove per essere smentita.

C’è poi il secondo versante, quello delle presunte “discriminazioni sul mercato del lavoro” a danno delle donne. Che se davvero esistesse, andrebbe in contraddizione con la prima asserzione. Se davvero un’impresa potesse discriminare le lavoratrici pagandole meno di un uomo, a parità di inquadramento contrattuale, è ovvio che assumerebbe soltanto donne, lasciando a casa lavoratori di sesso maschile. Poiché, come si è detto, nessuna azienda (con qualche possibile eccezione, ovviamente) si sogna di violare il regime dei CCNL, ne consegue che non possono esistere discriminazioni strutturali nel mondo del lavoro sulla base del genere. Possono esserci, questo sì, scelte diverse da parte degli individui, che finiscono per impattare sui percorsi lavorativi di ogni soggetto. In qualche misura il “Bilancio di Genere” sfiora questo, che è il centro della questione, quando fa riferimento alle diverse “specializzazioni” di uomini e donne.

divario salariale di genere

La grande bugia del divario salariale di genere.

Lo sfiora soltanto perché, inevitabilmente, scade nel vittimismo, sostenendo che le donne sono in qualche modo costrette al lavoro non retribuito a causa, questo è il sottinteso, degli stereotipi che attribuiscono loro ruoli di cura domestica. Lo scenario ipotizzato, degno di un trip di LSD, è dunque quello di generazioni di casalinghe o donne costrette dal marito in carriera al part-time o a lavoretti da poco, in modo da dar loro il tempo di crescere i pupi e di servirlo e riverirlo come un re. Una falsità astuta diffusa ovunque: ieri si è visto il documento del governo tedesco, dove le femministe descrivono scenari da tempi di Otto Von Bismarck; da noi il vittimismo femminista invece fa finta che le relazioni uomo-donna siano ancora ai tempi di Garibaldi. La comodità del piagnisteo, in altre parole, confina le “economiste di genere” in una realtà che, se mai è esistita, è tramontata svariati decenni fa. La verità è che oggi uomini e donne lottano per un qualsivoglia lavoro che gli permetta di uscire di casa entro i 35 anni e magari realizzare quel miraggio chiamato famiglia, non di rado lottando per questi obiettivi insieme. Senza contare il numero di donne che, consapevolmente e gioiosamente, scelgono la strada del ruolo di cura familiare: un tipo di donne sempre implicitamente insultato e vilipeso nelle geremiadi sul gender paygap, che hanno come premessa ideologica l’idea che si viva per lavorare e non viceversa.

L’articolo ANSA prosegue poi snocciolando un rosario di dati e indici utili solo per confermare il falso assunto di base, come sempre accade con gli indicatori elaborati secondo una prospettiva di genere. Numeri che non tengono conto del punto centrale della faccenda: da decenni gli uomini sono pronti a lavorare di meno per dedicarsi di più alla casa e ai figli, con ciò consentendo alle donne di dedicarsi di più alla propria carriera. Però non gli viene permesso. Questo perché chi ora risiede in pianta stabile nella stanza dei bottoni ha tutto l’interesse a tratteggiare una figura maschile d’anteguerra, che però non esiste più. Diciamo “ha tutto l’interesse”, ma in che senso? L’articolo ANSA non ne fa mistero, come nemmeno l’On. Guerra, d’altra parte: l’obiettivo del femminismo in politica è mettere le proprie manacce sui soldi del Recovery Fund, con la prospettiva illusoria di poter pagare con essi le casalinghe o equiparare stipendi di medio livello a quelli di alto livello, ma solo per le lavoratrici (i lavoratori non ne hanno bisogno essendo già privilegiati in quanto uomini…). Un nonsense che nasconde altro. È infatti chiaro a chiunque abbia capito il sistema che quel denaro è in realtà destinato, attraverso la deviazione indicata come “strada riservata ai diritti delle donne”, a prendere ben altre vie: nella politica, nei partiti, nei media e forse anche tra le toghe. C’è un intero sistema abituato a mangiare tanto e bene sul mito della discriminazione femminile. Per continuare a nutrirlo vale dunque la pena tornare a spacciare anche la grande bugia del divario salariale di genere.



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