“It’s all about money” (è tutta una questione di soldi). Con questo concetto si ha spesso, troppo spesso, la tendenza a classificare le anomalie che si manifestano nel contesto politico o socio-culturale. Così si inquadrano, sostanzialmente archiviandole, le frequenti mobilitazioni su questo o quest’altro tema. Ben intesi, si tratta di una chiave di lettura che raramente non coglie nel segno, ma in molti casi rischia di essere limitativa. L’esempio più lampante è tutto il gran rumore fatto attorno al DDL Zan. Tra le varie critiche al progetto di legge contro l’omotranslesbobifobia e l’abilismo, c’era quella che si trattasse di una norma che apriva a un poderoso flusso di fondi pubblici verso l’associazionismo omosessualista, quei gruppi usualmente conosciuti come “LGBT”, votati a trasformare un fatto del tutto privato come l’orientamento sessuale in tema politico e strumento rivendicativo. In effetti uno degli articoli della proposta Zan di questo parlava e il fatto che il DDL sia stato sostanzialmente accantonato potrebbe far pensare che nemmeno un centesimo verrà versato ai fautori della significatività politica dell’essere omosessuale.
Be’, chi lo pensasse sbaglierebbe di grosso. È di qualche giorno fa, infatti, l’annuncio in pompa magna da parte del ministro Elena Bonetti della pubblicazione sul sito dell’UNAR (il collettore delle istanze LGBT all’interno delle istituzioni e del Governo) della «graduatoria dei progetti vincitori dell’avviso pubblico per la costituzione di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere». Soldi di tutti per l’apertura di ulteriori “centri antiviolenza” dedicati al mondo omosessuale, in un’Italia dove, dati alla mano, casi accertati di violenza degni di tale nome e attuati per motivi di omofobia sono un numero risibile (sarebbe grave anche uno solo, ma analiticamente si tratta di qualche decina di casi all’anno). Non sono mancate reazioni immediate alla notizia. Toni Brandi, presidente dell’associazione “Pro Vita e Famiglia” ha subito commentato: «una vera e propria pioggia di soldi arriva alle associazioni LGBTQIA+ che, nonostante la bocciatura del DDL Zan, trovano il modo di ricevere finanziamenti e sostegno per un’emergenza nazionale che non esiste». Certo a qualcuno i “pro vita e famiglia” possono non piacere, ma la loro protesta ha un senso nel momento in cui il sedicente ministro della “famiglia” si occupa di drenare fondi verso chi, per questioni fisiologiche che impediscono la procreazione, è sicuramente in grado di creare un’unione d’amore, ma non una famiglia.
L’identità di genere nel Codice della Strada.
Ma di quanti soldi si parla e chi sono i beneficiari? Si tratta di 4 milioni di euro (qui la lista completa dei beneficiari), dunque non una cifra capace di mandare a gambe all’aria il bilancio dello Stato, questo va detto, ma comunque risorse sottratte ad altre necessità forse più pressanti che non il foraggiamento di soggetti come il circolo intestato a Mario Mieli, il controverso ideologo dell’omosessualismo italiano che indulgeva nei suoi scritti a riflessioni tangenti la pedofilia e nei suoi atti alla curiosa pratica della coprofagia. Forse, azzardiamo noi, quei 4 milioni sarebbero stati meglio investiti per combattere la povertà e la crisi economica delle molte famiglie messe in ginocchio dal covid, o magari per rafforzare il settore sanitario che negli ultimi due anni ha mostrato tutti i limiti causati dai continui tagli degli anni precedenti. Di contro, le associazioni omosessualiste potrebbero fare come le tante altre associazioni di altra natura e con altri scopi, ossia vivere dei contributi degli associati fornendo alla loro platea di riferimento servizi con un reale valore aggiunto. Con ciò si otterrebbe anche la reale misura delle necessità di sostegno e assistenza espresse dalla comunità omosessuale nazionale. Il problema è che l’ideologizzazione e politicizzazione dell’orientamento sessuale, così come dell’appartenenza a un genere (quello femminile), implica e impone l’affermazione di necessità ed emergenze che, dati alla mano non ci sono, proprio per ottenere ricchi finanziamenti da parte della collettività.
E dunque, tornando a bomba, “it’s all about money” o no? Assolutamente no. Il fatto che le associazioni LGBT abbiano ottenuto i loro 4 milioni di euro a babbo morto anche se il DDL che li stanziava è stato accantonato, dimostra che il DDL stesso aveva altre finalità, di cui quelle puramente economiche erano un mero corollario. Le vere finalità erano culturali e antropologiche, orientate a tentare, attraverso l’indottrinamento nelle scuole, da un lato, e dall’altro con l’imposizione per legge di una formulazione umana contraria a qualunque evidenza scientifica, di cambiare a forza quel setting naturale che ha dettato millenni di organizzazione umana, di polverizzare le relazioni naturali, la famiglia e tutta la realtà nota ad oggi. La chiave di volta era l’identità di genere, concetto contestatissimo, assieme la quadripartizione della persona umana, secondo il bislacco schema della “Genderbread person“. Pericolo scampato, da questo punto di vista? Possiamo continuare a dire che le persone nascono o femmine o maschi (salvo rarissimi casi anomali) e che solo l’incontro di quei due generi diversi ha natura generativa e procreativa? Sì, ma anche no. Per ora lo si può dire nel privato e nel discorso pubblico, in quest’ultimo caso rischiando sempre la gogna mediatica. Però non lo si può più dire nella cartellonistica pubblicitaria stradale. Manifesti pienamente legittimi, per quanto fastidiosi per qualcuno, come quello qui di seguito, non potranno più venire affissi, ed evviva il pluralismo.
Cosa resta della democrazia italiana?
Se infatti da un lato il cadavere del DDL Zan è riuscito a far percolare il proprio liquame dal lato finanziario, come si è visto, dall’altro un rivolo puramente ideologico è riuscito a scivolare fino a inquinare il Codice Stradale. Il “Decreto legge Infrastrutture” approvato il 4 novembre scorso modifica infatti alcune norme del codice stesso e in un punto si occupa proprio della cartellonistica stradale. Riportiamo dal sito “Altalex” (corsivi nostri): «Il testo prevede il divieto di pubblicità dal contenuto sessista o violento, nonché dei “messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche”. L’infrazione al divieto comporta la revoca della relativa autorizzazione, come anche la rimozione del cartello». Insomma, il punto cardine del DDL Zan, fatto uscire dalla porta fuori dall’ordinamento della Repubblica, rientra tranquillamente dalla finestra del codice della strada, piantando una bandiera, un puntello, che rappresenterà il punto di partenza delle future iniziative di replica dell’ex proposta Scalfarotto, poi ripresa da Zan. Chi vivrà vedrà, per l’oggi non resta che chiedersi a cosa diavolo serva votare o non votare una legge nel nostro Paese, visto che le lobby orientano e ottengono comunque i risultati desiderati, e dunque cosa ancora resti della già di per sé mai pienamente compiuta democrazia italiana.