Il crimine cruento e impressionante per le modalità di esecuzione in cui ha perso la vita Giulia Cecchettin ha dato la stura a una campagna di criminalizzazione degli uomini e a una correlata autocolpevolizzazione che non ha precedenti. Un’ondata che è di un intero ordine di grandezza superiore ad ogni altra che l’abbia preceduta, sempre occasionata pretestuosamente da omicidi di donne. Non ricordo nulla di comparabile. Una esplosione pliniana di cui ha cercato di dar conto in modo ampio, e tuttavia necessariamente incompleto, Vincenzo Moggia.
L’universalizzazione del crimine, la chiamata collettiva di correità, l’estensione indiscriminata a tutto il sesso maschile della colpa di ogni reo, è ormai smaccata e innegabile. Di più, è rivendicata come novella che gli uomini si ostinerebbero a negare. Le parti si sono come rovesciate. Fino a ieri eravamo noi a sostenere che la colpa di pochissimi veniva usata come arma morale contro tutti e per questo venivamo irrisi e derisi, liquidati come paranoici misogini dalla coda di paglia. Ora l’universalizzazione della colpa è dichiarata e proclamata come verità assoluta di cui nessuno è autorizzato a dubitare. Chi tende a negarla è misogino e patriarcale. Oggi.
Una professione collettiva di vergogna.
La criminalizzazione del sesso maschile non è una novità giacché si tratta della prima arma del femminismo. Di ciò si rese conto tra l’altro quel pugno di donne USA che oltre 30 anni fa fondarono l’associazione pro-male cui accennavo qui. Il mio stesso lavoro “Questa metà della terra” – che ormai ha 20 anni – è incentrato precisamente su questo argomento, tanto che l’apposizione “innocenti” vi figura sia nella prima che nell’ultima pagina. È in corso infatti un conflitto immateriale, giocato sul piano intangibile della psiche per la conquista della mente collettiva (psicosfera) attraverso il dominio della dimensione morale (etosfera).
L’abbattimento morale del nemico (si sarà ora capito che di questo si tratta, che gli eufemismi non hanno più campo: si tratta del nemico) deve passare per la demolizione del suo valore agli occhi di tutti, soprattutto di se stesso. Ed è questa la novità, sia pur parziale, che emerge in modo stupefacente in questi giorni: l’autoaccusa quasi universale degli uomini. Una gara senza esclusione di colpi all’autocondanna, all’autodenuncia, all’autodisprezzo, all’autooltraggio esplosa in dimensioni e forme pirotecniche. Una richiesta corale di perdono, una professione collettiva di vergogna, una autodenuncia di corresponsabilità mosse da una urgenza interiore irrefrenabile, incontenibile, impellente. Una psyco-defecatio di proporzioni bibliche.
“Maschio” è diventato un insulto.
Il maschiopentitismo è sempre esistito, tanto è vero che il termine è di fonte Maschi-Selvatici e risale perciò al secolo scorso. Ma era per dir così quasi un fenomeno di nicchia tanto che ci fu la tentazione di stilare un elenco dei migliori maschipentiti. Progetto oggi impensabile. In questi anni, con il contributo di tanti, abbiamo scandagliato il fondale psicologico maschile alla ricerca delle cause remote (psicologia evoluzionistica, dettato della specie ecc.) e prossime (cultura cavalleresca, maternalismo mediterraneo, femminolatria cattolica ecc.) di questo fenomeno che non ha precedenti nella storia. Tuttavia, confesserei che una traccia di mistero, qualcosa di inspiegabile rimane pur sempre.
C’è qualcosa di incantevole in questo delirio di autocondanna, in questa ossessione all’autodenuncia, in questa esigenza di una (ovviamente impossibile, perché troppo “comoda”) espiazione. In questo cupio dissolvi. L’azione politico-culturale femminista ha trovato nell’uomo bianco occidentale il terreno adatto alla realizzazione del suo progetto. Con un mirabile sortilegio ha realizzato progressivamente ciò che a priori sembrava impossibile. Un vero miracolo. Una magia. Meravigliati o offesi, sconcertati o arrabbiati – o tutto ciò insieme – ci portiamo a casa increduli la nuova acquisizione, in fondo, diciamolo pure, liberatoria: “maschio” è diventato finalmente un insulto. A tutto tondo. Ebbasta.