È ancora chiara nella mente di tutti l’immagine di Derek Chauvin, poliziotto americano (bianco), con il ginocchio premuto sul collo di George Floyd (nero), così come le manifestazioni successive contro la discriminazione degli afroamericani, la fondazione del movimento Black Lives Matter, i saccheggi dei negozi, la strumentalizzazione dell’intera campagna in funzione anti-Trump. Una pandemia nella pandemia, quella del vessillo woke innescata dalla morte di Floyd, con un sacco di gente, anche nel nostro Parlamento, che ha ritenuto doveroso inginocchiarsi e pagare pegno non si sa bene a chi e nemmeno per che cosa. Insomma un gigantesco circo mediatico che è servito essenzialmente a tre cose: primo, nascondere la realtà dei fatti per cui negli USA sono più le vittime bianche della polizia che non quelle nere; secondo, mettere in cattiva luce Trump e facilitare lo sgambetto per evitarne la rielezione; terzo, far guadagnare alle due fondatrici del movimento denaro a sufficienza da per potersi comprare delle giga-ville in quartieri bianchi-bene di Los Angeles, pur essendosi defininite “marxiste addestrate”. Una grande montatura politico-sociale, insomma, che ha fatto leva sul fanatismo dilagante dei “buoni”, quelli che negli USA sono chiamati “Social Justice Warrior”, paladini di qualunque causa rientrante nel politicamente corretto e genitori della dilagante cancel culture.
La caratteristica straordinaria di quel tipo di melma politico-mediatico-socio-culturale dal superficiale profumo marxista è il mimetismo. Come un camaleonte, grandi ondate come i Black Lives Matter (in Italia abbiamo una cosa simile nelle “Sardine”) spariscono e ricompaiono a seconda delle convenienze e delle circostanze. Si ha la certezza di vederli fuggire come topi quando si profila all’orizzonte un possibile cortocircuito ideologico. Ed è esattamente ciò che sta accadendo in questi giorni a Minneapolis, la stessa città dove accadde il fattaccio che tolse la vita a George Floyd, e che qualche giorno fa, in circostanze pressoché identiche, ha tolto la vita al ventenne afroamericano Daunte Wright. La dinamica è simile: un fermo di polizia, il ragazzo fa resistenza, si divincola e cerca di fuggire. Uno dei tre agenti si avvicina, biascica qualcosa sul fatto che sta per usare il taser, poi estrae la Glock di ordinanza e spara. E così Daunte Wright non c’è più. Ebbene, dove sta il cortocircuito? Anzitutto nel fatto che gli Stati Uniti non sono affatto invasi da manifestazioni di protesta (con relativi saccheggi) al grido «defund the police!» (togliete i finanziamenti alla polizia), come accaduto per Floyd. Qualche timida protesta, ma niente di che. Fuori dagli USA la musica non cambia: si trova qualche articolo qua e là, ma con una trattazione molto distaccata, niente a che vedere con la chiamata morale alle armi del periodo di Floyd.
Stavolta niente ville sulle morti altrui.
Motivo della scomparsa del movimentismo “risvegliato”? Semplice: alla Casa Bianca c’è l’uomo per cui i Black Lives Matter tanto si sono spesi. L’idea da far passare è che la polizia fosse spietata soltanto sotto Trump, mentre con Biden mette fiori nelle sue Glock. Ed è così che il camaleonte sparisce: il rischio che si veda l’uso spudorato di due pesi e due misure è troppo grande, dunque è meglio dileguarsi. Ma non è soltanto un fatto di politica, c’è di mezzo anche il femminismo, che è una delle colonne portanti del pensiero woke e della cancel culture. Sì perché l’agente che ha fatto fuoco è una donna, Kim Potter. Ancora non si sa se è bianca o afroamericana, ed è curioso: di Derek Chauvin avevamo saputo tutto, fino alla terza generazione, già poche ore dopo l’uccisione di Floyd… Della Potter si sa solo che ha 48 anni e che prestava servizio per il dipartimento da più di vent’anni, motivo per cui tutti la definiscono una “veterana” del mestiere. Eppure, stando alle sue stesse parole, parrebbe essersi comportata da meno di una recluta: «credevo di aver estratto il taser», si giustifica. Ed è una sciocchezza: tra il taser e una Glock c’è una differenza evidente al tatto, per materiale e peso. Una veterana del servizio dovrebbe saperle riconoscere anche solo all’olfatto. Eppure la versione che si tenta di far passare, sul piano legale e soprattutto mediatico, è questa: una tragica fatalità capitata a una professionista seria che tentava, poverina, di fare bene il proprio mestiere.
Chiaro che il tutto non regge. Ovvio che la Potter stia cercando una scusa a qualcosa che però non è scusabile: ha sparato e ucciso una persona inerme, senza che lei stessa fosse minimamente in pericolo. E la sua scusa è ridicola e puerile: per lo meno Chauvin si è preso da subito le sue responsabilità senza cercare facili vie di fuga, mentre la Potter ha tirato fuori scuse su scuse prima di prendere la sacrosanta decisione di dimettersi. Ma chi ha il fegato per andare a manifestare urlando queste cose? Scherziamo, si tratta di una donna, per di più impegnata in un’azione tipicamente maschile (l’uso della forza per far rispettare la legge), dunque è pressoché intoccabile. Anzi, peccato che il morto ammazzato non fosse bianco, sennò ne avrebbero fatto un’eroina. Invece qui scatta la competizione, ovvero il cortocircuito: vale più, nella scala di valori del politicamente corretto, essere neri o essere donne? Bella gara. Capita di continuo anche qui in Italia, con organizzazioni femministe e media che si stracciano le vesti quando un autoctono fa violenza, stupra o uccide una donna, restando però buoni e zitti (da bravi camaleonti quali sono) se l’autore dei misfatti è un immigrato. Di qua o di là dall’oceano non cambia nulla, i farisei e gli ipocriti sono dappertutto, cambiano solo di nome, ma si somigliano come il marcio e la muffa. Di fatto, che l’autore di questo omicidio a freddo sia una donna contribuisce a mettere un grosso silenziatore a tutta la faccenda. Lo si è detto in precedenza e difficilmente servono altre prove: il possesso del doppio cromosoma X è ormai a tutti gli effetti un lasciapassare, una guarentigia, un’esenzione dalle responsabilità e dalle sanzioni di legge; per contro chi possiede la coppia XY porta con sé un’aggravante a vita, quando non una colpevolezza innata. Il veleno ideologico insomma dilaga. La magra consolazione è che a sto giro non ci saranno ipocrite che su questa morte si costruiranno la propria villa.