Tra le rivelazioni dei WPATH files, come dicevamo già ieri, c’è anche che i professionisti del WPATH conoscono benissimo l’ampia prevalenza di diagnosi di sofferenza o patologia mentale tra i soggetti che richiedono l’approccio affermativo, e che questo inficia ulteriormente la possibilità di un consenso realmente informato e di un appropriato percorso post-operatorio. Pur sapendolo, però, ignorano il problema o ridefiniscono anch’esso entro l’“identità” che deve essere “affermata” anziché come un quadro clinico che richiede un trattamento terapeutico. Un terapeuta esprime preoccupazione in merito a «clienti (sic) trans con gravi malattie mentali» per via della loro incerta stabilità mentale futura, «specialmente visto il lungo periodo di recupero e le pratiche costanti che richiede». Ad esempio, nella vaginoplastica c’è la necessità della dilatazione costante della “vagina artificiale”, pratica spesso dolorosa. Un terapeuta risponde che dipende da molti fattori: quanto è grave il disturbo, se c’è il sostegno della famiglia o meno, e se capiscono operazioni come “lavarsi, dilatare, monitorare”… Aggiunge con un po’ di orgoglio che negli ultimi 15 anni ha rifiutato un solo deferimento, perché «il soggetto aveva una psicosi attiva con allucinazioni frequenti anche durante la seduta di valutazione. A parte questo, ho deferito tutti gli altri, tra cui persone con depressione maggiore, sindrome da stress post traumatico, e perfino senzatetto».
Il dottor Dan Karasic, uno degli estensori dei SoC, racconta di un paziente che si identifica come “genderqueer” e si sottopone alla chirurgia di “nullificazione” cioè l’amputazione di genitali per creare un’apparenza “asessuata”. Questo soggetto ha una diagnosi di disturbo bipolare e di dipendenza dall’alcool, inoltre ha «sette diverse personalità», due delle quali “agender” e una “donna” ma rassicura: «tutte e sette hanno dato il consenso per l’intervento». Un altro paziente, un uomo di 27 anni che si identifica in un “sistema genderqueer”, ha 85 personalità di cui la primaria è donna. Il paziente ha ricevuto la rimozione dei testicoli e prende ormoni cross-sex. Karasic dice di avere vari pazienti «trans e anche “plurali”» (termine con cui intende la dissociazione di personalità) e di avere la reputazione di «psichiatra non plural-fobico». Al simposio internazionale del WPATH 2022 un team ha presentato i primi risultati della propria ricerca sull’intreccio tra “identità plurali” e “transgender”. Il team ha descritto la complessità di ottenere un consenso informato da persone con centinaia di personalità, di cui alcune con identità di genere differenti tra loro, e ha concluso raccomandando l’affermazione sia dell’identità di genere che delle “identità plurali”.
Gli esperti del WPATH promuovono poi anche interventi sui quali non esiste letteratura scientifica, concettualizzandoli come forme di “espressione artistica” del proprio “genere”, nonostante nei SoC si parli di necessità terapeutica e di pratiche sostenute da solida evidenza scientifica. Thomas Satterwhite, che sarà co-presidente del 28° “simposio scientifico” del WPATH, chiede il parere del gruppo sulle procedure “non standard” come la «nullificazione, l’asportazione del seno compresi capezzoli, e la vaginoplastica con preservazione del fallo» (avete capito bene: soggetti che vogliono tenersi il pene ma produrci una vagina artificiale lì accanto). A tale input nessuno pone obiezioni etiche, ma piuttosto mettono in discussione il linguaggio usato per descriverle, troppo centrato su una visione “binaria”: ad esempio qualcuno gli fa notare che procedure del genere possono essere richieste anche da soggetti «con identità di genere binaria», un altro bolla il suo linguaggio come «cisgenderista». Entra nel discorso un docente di legge e attivista, Christopher Wolf-Gould, schierandosi in difesa delle persone trans «i cui obiettivi di embodiment possono non corrispondere alle aspettative del modello dominante».
In un’altra occasione Wolf-Gould ha affermato che mentre i genitori, in quanto tutti “cisgender”, non possono comprendere l’identità di genere non conforme dei propri figli, questi ultimi, anche quando si tratta di «adolescenti con ritardi dello sviluppo, hanno un’intima percezione della propria soggettività di genere e anche una comprensione, seppure limitata, del rischio di danni permanenti e infertilità». Wolf-Gould descrive «la corporeità trans come una forma di espressione artistica libera del proprio genere» e sostiene che gli adolescenti debbano avere «il diritto di trattare il proprio corpo come la propria “opera d’arte gender». La dottoressa Johanna Olson-Kennedy, nota per aver affermato che se un’adolescente, dopo essersi fatta amputare il seno, si pente può benissimo «andare a prendersene uno nuovo», si inserisce nella discussione dicendosi felice che nel prossimo futuro le cliniche di medicina transgender saranno «sovraffollate da giovani».
Fanatici e criminali.
Suggeriamo al lettore la lettura integrale del report: nella nostra ricognizione ci fermiamo qui, ma i documenti rivelano molti altri orrori. E se c’è già chi tra gli attivisti pro-gender si è affrettato a bollare tutto come l’esternazione di un’associazione di estrema destra transfobica con elementi misinterpretati o presi fuori dal giusto contesto (altri preferiscono far finta di niente e non parlarne), leggendo direttamente ciascuno potrà farsi la propria idea. La nostra è in sintonia con gli estensori del report, dei quali sottoscriviamo la conclusione: «Questi documenti dimostrano che il WPATH non è un’istituzione medica. Non è impegnata in una ricerca scientifica delle terapie migliori per aiutare individui vulnerabili che soffrono realmente di un disagio legato al “genere”. È un gruppo di professionisti e ricercatori ideologicamente orientati camuffato da istituzione medica, ferventi promotori di uno sconsiderato esperimento ormonale e chirurgico le cui cavie sono alcuni dei membri più vulnerabili della società. Se un chirurgo recidesse il midollo spinale di un soggetto che “si identifica” come quadriplegico, o accecasse un paziente che “si identifica” come cieco, sarebbe un comportamento criminale. Operare in questo modo senza neanche fare un tentativo di aiutare il soggetto a superare la propria sofferenza psicologica, e senza offrirgli un quadro realistico delle difficoltà del periodo post-operatorio o delle conseguenze permanenti che tali procedure avranno sulla sua salute fisica e relazionale, equivale a una negligenza medica del più alto livello. Non c’è alcun dubbio che ci troviamo di fronte a uno dei più grandi crimini nella storia della medicina moderna».