Ieri abbiamo raccontato alcune recenti notizie in merito alle cliniche di medicina per l’identità di genere, e introdotto i WPATH Files, leak di documenti interni (stralci di convegni, panels, forums) ottenuti qualche mese fa da Michael Shellenberger di Environmental Progress, elaborati insieme a Mia Hughes e diffusi lo scorso 4 marzo. Ne sta parlando tutto il mondo come di uno dei più grandi scandali della storia nell’ambito della medicina, sebbene non emergano fatti realmente nuovi. Le criticità e le oscure bizzarrie che vi si trovano erano già note nel dibattito sul tema (e ne scriviamo spesso su queste pagine). La novità consiste nel fatto che a esprimere e discutere queste criticità e anomalie non sono osservatori esterni, magari “transfobici” o portatori di “odio ideologico”, bensì gli stessi membri del WPATH, coloro che estendono gli Standards of care (SoC) seguiti dalla maggior parte delle cliniche del mondo, nella buona fede (forse…) che rispecchino la migliore evidenza scientifica e il consenso generale degli esperti. Il quadro che emerge è esattamente l’opposto: questi stessi professionisti, spesso anche apertamente attivisti, di certo non sospettabili di “transfobia” o “odio ideologico”, quando discutono tra loro confermano tutte le criticità e le preoccupazioni dei cosiddetti gender-criticals. Tra di esse, l’invasività e irreversibilità dell’approccio affermativo di genere; la pesantezza delle conseguenze degli interventi chirurgici e dei possibili effetti avversi delle terapie; l’impossibilità di ottenere un reale consenso informato da soggetti minorenni, o portatori di condizioni patologiche a livello psicologico o psichiatrico, spesso anche nel caso di soggetti adulti; la natura puramente “cosmetica” e “transumanista” di buona parte di questi interventi, fuori da ogni reale necessità terapeutica, in barba a uno dei princìpi fondanti della medicina: primum non nocere.
Per ragioni di spazio non possiamo toccare tutti gli aspetti che emergono dal report, sottotitolato Esperimenti pseudoscientifici ormonali e chirurgici su bambini, adolescenti, e adulti vulnerabili. Ci limiteremo a sottolineare alcuni punti. Anzitutto i professionisti del WPATH sono a conoscenza del fatto che l’approccio affermativo ha necessità di costanti pratiche post-operatorie, spesso anche interventi riparativi, e effetti avversi con alto tasso di incidenza, e che questi aspetti non vengono sufficientemente (o per nulla) discussi con i potenziali pazienti. In alcuni passaggi orrorifici, i dottori del WPATH discutono casi di effetti indesiderati della terapia ormonale o chirurgica come: infezioni postoperatorie, cancro, malattia infiammatoria pelvica, erezioni o orgasmi dolorosi, anorgasmia. Ad esempio Marci Bowers, chirurgo transgender e presidente del WPATH, autore di oltre 2000 interventi di vaginoplastica su ragazzi e uomini fisicamente sani, in un panel dell’aprile 2022 ripreso nel report afferma: «Ho osservato che praticamente tutti i bambini o adolescenti la cui pubertà è stata bloccata all’inizio dello sviluppo, non ha mai avuto esperienza dell’orgasmo. Intendo proprio che siamo vicini allo zero percento». Il Dr. Az Hakeem, ex dipendente del GIDS e autore del libro Detrans: quando la transizione non è una soluzione, ha sperimentato gruppi terapeutici costituiti dal confronto diretto tra soggetti che intendono iniziare un percorso chirurgico “affermativo” e soggetti che per vari motivi si sono pentiti degli interventi intrapresi: il risultato di questa pratica è che la grande maggioranza dei soggetti del primo gruppo finiscono per desistere.
La colpa è del “paziente”.
In secondo luogo, i membri del WPATH sono a conoscenza che i soggetti minorenni non sono realmente in grado di fornire un consenso informato. I SoC 8 raccomandano che l’accesso agli ormoni e alla chirurgia siano forniti a patto che il soggetto «dimostri la maturità cognitiva e emozionale necessaria a fornire un consenso informato al trattamento». Il Dr. Daniel Metzger, endocrinologo canadese, in un panel interno affronta questo problema: «I medici in questo settore spesso si trovano a spiegare questo tipo di cose a persone che non hanno ancora nemmeno studiato biologia al liceo», e aggiunge, «spesso anche soggetti adulti e i genitori dei pazienti più giovani hanno una comprensione scarsa delle conseguenze di questi interventi». Un altro membro del WPATH e estensore in prima persona dei SoC, Dianne Berg, interviene per dire che nel caso di bambini e adolescenti «è fuori dal loro range di sviluppo arrivare a comprendere pienamente l’impatto di questi interventi». Di nuovo Metzger sul dovere di informare i soggetti sul rischio di infertilità permanente: «va tutto bene in teoria, parlare di fertilità a un 14enne, ma in realtà sappiamo che stiamo parlando a un muro, ti rispondono “ew, bambini, che schifo!”. Oppure, “li adotterò”. Poi chiedi loro, sai cosa implica l’adozione? Quali sono i requisiti, i costi, le procedure? E loro “ah no, pensavo che semplicemente si va a un orfanotrofio e ti danno un bambino”. Perciò per gli adulti è un conto ma per i 14enni, la mia sensazione al consenso informato è che ci sia una grossa lacuna in merito».
Inoltre i membri del WPATH sanno che l’adolescenza è un processo di formazione e che i ragazzi possono cambiare col tempo; conoscono il problema dei detransitioners, ma ne addossano la responsabilità totalmente sui pazienti, riconcettualizzando errori diagnostici come “fasi” del meraviglioso “viaggio alla scoperta del proprio genere”. Metzger afferma esplicitamente che «i ragazzi cambiano nel tempo, specie quelli non-binari» e parallelamente cambiano i loro «obiettivi di embodiment» (“incarnazione”, ossia l’aspetto che si vuole ottenere mediante la chirurgia). In risposta al post di uno psicologo su una diciassettenne detransitioner «arrabbiata e frustrata», che dopo aver preso testosterone per due anni si è pentita e si ritiene vittima di un «lavaggio del cervello», diversi membri del WPATH discutono come la detransizione sia parte del «viaggio nel proprio genere» del paziente e non necessariamente implichi un reale pentimento. Con questa logica è virtualmente impossibile per i clinici fare una diagnosi sbagliata: poiché sono tutte “fasi” del viaggio alla scoperta del genere giusto, compreso il pentimento. Un giovane studioso ad esempio commenta che «imparare nuovi aspetti del proprio genere o di come lo si vuol far trattare dal punto di vista medico dovrebbe essere qualcosa da celebrare, e comunque non va giudicato come un errore che è stato fatto». Il presidente Merci Bowers non esita a addossare comunque la responsabilità sulle vittime: il paziente «deve prendersi la responsabilità attiva per le decisioni mediche, specialmente quelle che hanno effetti potenzialmente permanenti». In fondo il legislatore e i media «non parlano mica del pentimento, ad esempio nella chirurgia estetica, come di un problema»: quando fa comodo l’affermazione di genere è un “trattamento terapeutico salvavita”, quando c’è da discutere cose scomode lo si può paragonare alla medicina cosmetica.