La politica asservita agli ordini della lobby LGBT raccoglie i frantumi del DDL Zan e forse sta arrivando a capire che, alla luce dei due tentativi falliti (prima c’era stato quello di Scalfarotto), in Italia non è cosa, non siamo il Canada o la Gran Bretegna. Qui da noi la narrativa vittimistica con la relativa quota di potere e business rimane saldamente in mano al femminismo e gli esponenti del queer devono quindi accontentarsi di andare a traino e arraffare le briciole che cadono dal tavolo. C’è però, ché non manca mai, chi non si rassegna alla crudele sentenza della realtà. No, non ci riferiamo alle cronache olimpiche che riempiono i giornali, il web e i social media, dove la vittoria di una o un atleta è più vittoria se fa coming out appena salito sul podio, se ha un colore della pelle diverso dal bianco o se è donna, mentre le vittorie dei maschi bianchi etero vengono raccontate quasi con fastidio. È un modo di fare giornalismo così conformista e talmente spinto da ingenerare ormai soltanto fastidio, spesso anche in chi simpatizza con le istanze gender, per la netta sensazione di essere in questo modo quasi più ghettizzati di prima che normalizzati. E così in effetti è.
In realtà il nostro riferimento è all’attivismo puro, quello che dal farsi paladino dei diritti, in questo caso arcobaleno ottiene un riscontro tangibile in termini di visibilità personale o altro. È il caso di Kathy La Torre, l’avvocatessa del “odiare ti costa”, la pasionaria LGBT, la generosa distributrice di mance allo stesso portapizze. Come certi soldati giapponesi asserragliati nelle isole sperdute del Pacifico anche a guerra terminata, insistono sull’indispensabilità assoluta di una norma come il DDL Zan. E lo fanno sventolando numeri da paura, pubblicati sui suoi canali social con tanto di lista degli eventi omolesbotransofobi accaduti durante l’anno, divisi mese per mese. Alcuni di quei fatti sono noti, essendo finiti sui media mainstream, con una curiosa concentrazione nel periodo di discussione della legge Zan. Buona parte di questi ultimi sono poi stati smentiti, ma con molta molta meno visibilità. Per il resto l’elenco di Kathy è un rosario di fatti che solo molto raramente sono configurabili come violenza. In genere tutto ruota attorno all’ingiuria e quando si tratta di questioni più serie, il movente omolesbotranofobo è puramente ipotizzato.
Una ricerca australiana illuminante.
Chi ci assicura infatti che il transessuale spintonato e fatto cadere il giorno tale a Milano sia stato spintonato e fatto cadere inquantotrans e non per una pletora di altri possibili motivi? Boh. Lo certifica Kathy La Torre, e tanto dovrebbe bastare? No. Anche perché non è lei la fonte dei dati, bensì l’OSCE e il suo rapporto annuale sui crimini d’odio, che l’avvocatessa si è limitata a trascrivere. Di quella fonte abbiamo già parlato qui: ha il difetto, come tutte le fonti che si prestano (o vogliono prestarsi) alla manipolazione ideologica, di non essere convalidabile. Ovvero non c’è alcun riscontro dei casi menzionati: non un articolo di giornale, non la certezza di una verifica giudiziaria o di una condanna. Come accade già per la violenza contro le donne, a dare la certezza dell’accaduto è la parola della (presunta) vittima. Se là vale il believe woman, qui vale il believe trans (o gay o lesbian). La formula resta la stessa, così come la sua totale inaffidabilità. Sarà per questo che le autorità nazionali, che pure hanno l’OSCE come fonte, poi scremano la casistica arrivando a dirci che gli eventi violenti di omobilesbotransfobia sono la bellezza di 77 all’anno (e restiamo in fervente attesa del dato degli ultimi 12 mesi, che la Polizia pubblicherà a Ferragosto). Ben intesi: il parallelo è pienamente replicabile. Come in Italia le violenze maschili contro le donne esistono, ma in un numero meno che fisiologico (e debitamente sovradimensionato da chi ha interesse a farlo), allo stesso modo le violenze etero contro omosessuali, bisessuali, lesbiche e trans è tra i meno diffusi in Europa, ma ugualmente pompato.
Gli interessi politici ed economici legati al DDL Zan erano poderosi, dunque è comprensibile che ci sia chi non riesce proprio a mettersi il cuore in pace. Ed è in questi momenti che la realtà irrompe in genere con una virulenza da tacitare anche i più riottosi. Succede allora che cominci a circolare ora dalle nostre parti uno studio scientifico australiano i cui esiti sono stati pubblicati nell’aprile scorso. Si intitola: “Bambini e adolescenti australiani con disforia di genere: presentazioni cliniche e sfide affrontate da un team multidisciplinare e dal gender service”, autori sei studiosi di diverse branche della scienza, dall’endocrinologia alla psicologia. I dati dello studio sono interessanti proprio perché vanno ad analizzare sul piano psico-sociale lo status di minorenni teoricamente affetti da “disforia di genere”, una patologia in realtà rarissima, ma oggi popolarizzata per giustificare il più ampio e libero accesso alle transizioni di genere. La sensazione, per gli scettici come noi, è che qualunque forma, anche minima o passeggera, di disagio infantile o giovanile venga fatto passare per disforia, con la messa in moto di tutto il carrozzone affaristico della farmaceutica e delle operazioni chirurgiche per la transizione. Lo studio sembra confermare i motivi del nostro scetticismo. Esamina infatti le caratteristiche cliniche di 79 bambini (33 maschi biologici e 46 femmine biologiche) che si sono presentati un nuovo tipo di servizio sanitario australiano, il “Gender service”. I risultati sono comparabili a quelli registrati in altre cliniche simili: vi è una leggera preponderanza di femmine biologiche rispetto ai maschi (1,4 contro 1); alti livelli di angoscia, ideazione suicidaria (41,8%), autolesionismo (16,3%), tentativi di suicidio (10,1%) e alti tassi di disturbi mentali.
La cura peggiore del male.
Più in generale, ai piccoli pazienti sono stati diagnosticati patologie di ansia (63,3%), depressione (62,0%), disturbi comportamentali (35,4%) e autismo (13,9%). Le storie di sviluppo raccontate dai bambini e dalle loro famiglie hanno evidenziato alti tassi di esperienze infantili avverse, con conflitti familiari (65,8%), malattia mentale dei genitori (63,3%), perdita di figure importanti attraverso la separazione (59,5%) e bullismo (54,4%). Anche un pregresso di maltrattamenti è risultato essere frequente (39,2%). La ricerca dei sei studiosi si concentra poi sull’approccio e sulle tecniche con cui i medici affrontavano le diverse situazioni, per concludere che a dominare era la difficoltà di districare l’ipotetica disforia di genere da fattori fattori come l’ansia, la depressione e l’abuso sessuale, in aggiunta alle incertezze fattuali presenti nella letteratura attualmente disponibile sul tema. Il suggerimento per gli operatori è dunque quello di approcciare al problema utilizzando «un modello biopsicosociale e informato al trauma di cura della salute mentale per i bambini che presentano disforia di genere. Il lavoro terapeutico in corso deve affrontare il trauma irrisolto e la perdita, il mantenimento del benessere soggettivo e lo sviluppo del sé». Che vuol dire? Sembra complesso ma il significato è banale. Significa: occhio che si sta diagnosticando la disforia di genere e si stanno innescando transizioni per bambini sofferenti per traumi che con il genere, la sessualità, l’identità di genere non hanno nulla a che fare.
Esattamente quello che abbiamo registrato più volte: avanza a grandi passi una cultura folle, che di per sé nasconde un ricco business, per cui ogni disagio infantile o giovanile è legato all’identità sessuale, sebbene le origini del disagio stesso possano essere molteplici e non di rado collegate a condizioni familiari inadeguate, o alla vera e propria assenza della famiglia, o a separazioni diventate guerre. Tutte condizioni traumatiche per un bambino. La soluzione che si sta affermando è quella per cui: sai che c’è? Visto che stai male come maschietto, ti trasformo in femminuccia (o viceversa). Frega nulla che il tuo trauma abbia origini specifiche, che richiederebbero una terapia (psicologica) specifica e mirata: si imbarca il/la bimbo/a o il/la ragazzino/a in uno scenario rivoluzionario e sconvolgente, così o resetta e dimentica tutto, oppure, finita l’orgia ormonale e chirurgica, passa il resto della propria vita rammaricandosi o pensando al suicidio (quando non commettendolo). Studi come quello australiano sono il tipico macigno che cade sulla testa di Wile Coyote, solo che al posto dello sfortunato canide ci sono Zan, Kathy La Torre e tutto il circo LGBT annesso, impegnati h24 a persuaderci che sesso, identità e orientamento sono cose diversissime tra di loro; che la disforia di genere e (quindi) la discriminazione omofoba sono fenomeni dilaganti, specie tra bambini e adolescenti; e che in generale quella familiare è una “vita de merda”. Mentre basta un’analisi appena approfondita per scoprire che in molti casi è proprio l’assenza della famiglia (o una famiglia inadeguata) a far nascere un disagio, la cui cura, la transizione di genere, a tutti gli effetti sembra fare peggio del male stesso.