La Fionda

I bilanci ipocriti sul #MeToo

Capita di leggere alcuni articoli, pubblicati da testate generaliste come “La Repubblica” e il “Corriere della Sera“, o di settore come “Io Donna” e “Vanity Fair”, incentrate sullo stesso argomento: un bilancio dopo quattro anni di #MeToo. Tutti esprimono la stessa profonda insoddisfazione per come sono andate le cose. Migliaia di casi denunciati sui media, pochissimi finiti in tribunale, un numero risibile esitati in condanna. Proprio su questi ultimi si soffermano le cronache, sottolineando con rara precisione tutti i capi d’accusa e le pene comminate dai tribunali, tutti statunitensi, ad abusanti e stupratori. Su tutti campeggia il nome di Weinstein, ma anche altri nomi meno noti. Manca all’appello, ed è motivo di ulteriore lamentela, Bill Cosby, scarcerato di recente per difetti di forma relativi al suo processo. Insomma, questa è la critica, quella che pareva una montagna planetaria ha finito per partorire un topolino. In pochi, troppo pochi hanno pagato col carcere i loro esecrabili crimini, mentre tanti altri l’hanno fatta franca. E nemmeno consola che il movimento in sé abbia spinto (così dice la leggenda) molte donne a prendere coraggio e a denunciare gli abusi.

Solo in qualche caso si fa riferimento agli accordi extragiudiziali che nella stragrande maggioranza dei casi ha evitato il processo a qualcuno e tacitato le tempeste mediatiche ad altri. Cifre da capogiro: 25 milioni di dollari dalle tasche di Weinstein, più di 2 milioni di dollari per James Franco, più tutte le altre partite di giro, note e meno note. Gli articoli parlano di questi casi con biasimo, come se le vittime avessero fatto male a transare evitando la gogna e la sbarra a quei maledetti porci che le avevano molestate. Fingono di non sapere (ma lo sanno benissimo) che sono proprio quelle cifre a segnare il grande successo del #MeToo, nato chiaramente per spremere fino in fondo il magnate di turno, dopo aver dallo stesso ricevuto anni di favori e prebende in cambio di sesso. Quando la stella tramonta, quando l’età avanza, quando il talento non c’è e la carriera iniziata in un letto non riesce a decollare nello showbiz, allora non resta che l’accusa di stupro verso il pigmalione, per mettersi a posto la vita di oggi fino alla vecchiaia. In questo senso il #MeToo è stato un vero trionfo, oltre che un innovativo strumento previdenziale riservato soltanto a un genere. Con un valore aggiunto, anche se non per tutti: oltre al risarcimento economico, molte “vittime” hanno ottenuto la tanto sospirata ribalta (o un ritorno di ribalta), mentre l’accusato finiva coperto da tutta la melma maleodorante prodotta dai media e dai social network.

Harvey Weinstein
Harvey Weinstein

Un vero capolavoro, insomma, dove i pochi procedimenti giudiziari rappresentano anzi il tocco da maestro: niente più di un tribunale risulta infatti pericoloso per chi avanza accuse strumentali o false. Capita molto spesso che da quelle parti si scopra la verità e le accusatrici facciano una figura pessima. Riuscire a mantenere gli aspetti processuali al livello della gogna mediatica, ottenendo tutto quello che si voleva per spegnerla, senza rischiare di essere sgamati davanti a una corte, rende il #MeToo un vero progetto d’impresa geniale. Anche per gli spin-off che genera: al di fuori dello star-system, ad esempio, è stato registrato che gli accusati di molestie o abusi sotto il regime #MeToo fossero tutti ricchi professionisti o imprenditori. Mai un metalmeccanico, un contadino o un impiegato tra di loro. Nella maggior parte dei casi, oltre a versare il risarcimento, gli uomini messi sotto pubblica accusa hanno perso la propria posizione lavorativa, venendo poi sostituiti una volta su due da donne. Una specie di ufficio collocamento femminista, con una procedura ben precisa: etichettare un uomo di potere come stupratore, devastarne la vita e prendere quel suo stesso posto di potere o di lavoro. Altro che delusione, insomma: chi ha inventato e gestito il MeToo ha la stoffa del capitano d’industria. O forse, più che altro, dello speculatore senza scrupoli.

Buffo, ma non sorprendente, in questi articoli che fanno il pianto greco su quanto ancora le donne siano indietro nell’affermazione dei propri diritti e… (continuate a piacere, le formule sono sempre le stesse) una sola cosa manca: quanti uomini abbiano perso la vita a causa del #MeToo e dei suoi metodi parassitari ed extragiudiziari. Sono molti, troppi, in gran parte suicidi e, c’è da scommetterci, arrivati all’estrema decisione non perché colpevoli, ma perché consci di essere incapaci a reggere l’ondata di riprovazione conseguente alla diffusione di accuse quasi sempre sicuramente false. C’è di tutto tra costoro: sportivi professionisti, artisti di vario genere, grandi manager, tutti morti, tutti dimenticati. Non c’è dubbio che il #MeToo abbia segnato un’epoca, ne abbia rappresentato forse l’apice, dopo un lungo lavoro di preparazione che ha le sue radici negli anni ’90 del secolo scorso. I suo tema centrale è believe women (credi alle donne), anche se non portano prove, anche se il reato è integrato soltanto dai loro sentori, anche se si parla di fatti di decenni prima. E se basta mettere piede in un tribunale per essere smentiti, la soluzione c’è: là fuori è pieno di social network affamati di discussioni e media professionali assetati di click. Ecco gli ingredienti che negli ultimi quattro anni hanno sovvertito secoli di diritto e fatto venire i ventricoli a Cesare Beccaria nella sua tomba. E a coronare questo successo c’è oggi pure il perculaggio verso tutta l’opinione pubblica dei giornali servi di regime, che titolano e argomentano beffardamente su quanto sia naufragato il movimento #MeToo, mentre invece veleggia verso lidi pacifici e ricchi, molto ricchi.



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