È certo che i comportamenti virtuosi siano necessari per salvare il pianeta e i budget di enti e aziende, ma risultano inaccettabili se utilizzati come metro di valutazione della persona. Il tema non è affatto attuale: dichiarare di preferire una vita virtuosa al vizio, di scegliere la modestia al mettersi in mostra, di risultare schiva invece che baraccona, fa sembrare come minimo “zia”, se non peggio. La virtù, sarebbe una tipica tensione del mondo maschile (vir/virile) e si identifica con la forza e il coraggio che appartiene istintivamente all’uomo, come dimostrato recentemente dal rider veronese che ha rimediato uno sfregio in viso per difendere una ragazza o dal sessantenne morto d’infarto dopo aver salvato tre ragazzine dall’annegamento
La nostra cultura scoraggia tutto ciò che porta a ridimensionare l’ego (al mondo femminile viene ordinato di esaltarlo al massimo) e a guardarsi dentro. Al massimo viene concesso di praticare la mindfulness, meditazione buddista occidentalizzata che pone sul soggetto un tipo di attenzione non giudicante e sembra porti benefici per il trattamento di certe “pare” (paranoie) e nevrosi cronicizzate, magari, inseguendo il mito della piena realizzazione attraverso la carriera. Tutti imperativi lanciati attraverso libri, film, personal trainer, canali social, webinar, corsi e tonnellate di carta stampata piena di consigli, percorsi, suggerimenti, parole, parole, parole.
La chiacchiera è una molestia.
È il silenzio, al contrario, che porta verso la conoscenza di sé e alla scoperta delle proprie virtù. Televisione, musica, radio, internet sono gli ostacoli che impediscono ai nostri ragionamenti di arrivare alla comprensione. Chi siamo? Cosa vogliamo? È quando si sta zitte che si scatena il dialogo con sé stesse: come quando guidi e fai dei ragionamenti guardandoti nello specchietto retrovisore. A me arrivano le comprensioni quando spazzo a terra, quando lavo i piatti o quando stiro canottiere, mutande, fazzoletti… Non per vantarmi ma capitava così anche a Natalia Ginzburg. La scrittrice di Lessico famigliare, Le piccole virtù e molto altro, compreso eccellenti editoriali pubblicati sul Corriere della SEra, abbozzava i suoi personaggi, i loro modi di dire e i loro dialoghi mentre spolverava o riordinava: nel silenzio della casa, l’esecuzione automatica delle faccende domestiche le consentiva di portare a galla, come fanno gli gnocchi, i tratti peculiari dei protagonisti, riuscendo a elaborare pensieri, comprensioni, rivelazioni.
Stare in silenzio non significa infatti non avere nulla da dire. Non avere “la parlantina” non significa non avere sinapsi. Sappiamo che bambine e ragazze sono più loquaci di un maschio, lo conferma anche uno studio dell’Università del Maryland secondo il quale una donna pronuncia una media di 20.000 parole al giorno, 13.000 in più rispetto a un uomo, un’attitudine naturale riconducibile alla “proteina FoxP2”. L’arte di tacere, quindi è una conquista perché la chiacchiera, quando è inutile, va annoverata fra le molestie.
La cattiva abitudine di cascare in un pozzo.
Secondo una prospettiva classica, riconducibile a Platone, la virtù si lega al bello oltre che al bene. Occorrerebbe quindi dare più ascolto all’idea di bellezza come splendore del vero oltre che come matura realizzazione delle proprie dotazioni individuali. Se il “vero umano” non è altro che la consapevolezza rispetto alla propria condizione oggettiva e soggettiva, le donne, se vogliono realizzare pienamente sé stesse, devono tornare a conoscere i loro limiti e i vizi in cui il femminile può scivolare, se non è amorevolmente curato (la vera cura di sé). Natalia fu una scrittrice sincera che ha avuto la tempra di mostrare senza vergognarsi il suo “carattere”: timida e decisa, domestica e impertinente, solitaria perché originale. Prese posizioni impopolari con quel suo modo brusco da «corsara» come lei stessa si definiva, prendendosi il titolo che rievocava la figura di Pier Paolo Pasolini.
La Ginzburg ha pure sostenuto le idee del femminismo nel saggio “La condizione femminile” del 1974 (scritto proprio durante gli anni della protesta femminile in Italia), ma ammise di non amare il femminismo: «Le donne non sono in realtà né migliori né peggiori degli uomini. Qualitativamente, sono uguali». Per questa posizione brusca gli scritti dell’intellettuale palermitana non sono stati inseriti nelle antologie. L’aver dato voce alle dinamiche familiari, l’essersi immedesimata nella vita di tutti i giorni catturando la quotidianità delle donne e i compiti che tutte devono affrontare, era cosa che non interessava. Ancor meno interessò ciò che Natalia sosteneva delle donne, ovvero di avere «la cattiva abitudine di cascare in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla». Una negazione netta della tesi che all’origine di tutti i problemi ci sia il dominio del patriarcato.